Ieri, ad Expo, Human Foundation ha organizzato una giornata sulla finanza sociale e gli investimenti ad impatto sociale. Una discussione che ha avuto come convitato di pietra i risultati del referendum greco e le sue drammatiche conseguenze sulla coesione sociale dell’Europa. In primo luogo, abbiamo cercato di comprendere il contributo che gli investimenti ad impatto stanno dando nel rispondere a nuovi e vecchi bisogni sociali. E provato ad immaginare come possano essere declinati nel contesto italiano. In questo percorso, ci siamo fatti guidare da diversi interlocutori, a partire da alcune tra le più interessanti esperienze di fondi ad impatto, come Root Capital, Bamboo Finance, One Acre Fund ed Opes Impact Fund. Abbiamo potuto contare, poi, sulla presenza, sempre fonte di ispirazione, del Premio Nobel Yunus, ideatore del microcredito, che lavora per diffondere su scala mondiale il modello del social business.
Negli ultimi anni nel mondo si sono moltiplicati i fondi ad impatto sociale - oggi muovono oltre 500 mld di dollari l’anno - il cui obiettivo è quello di generare intenzionalmente un impatto sociale positivo e misurabile e, al medesimo tempo, un rendimento economico per lo più “low profit”.
Settimane fa, a partire da un editoriale di Vincenzo Manes, consigliere del Premier per il Terzo Settore, si è animato un interessante dibattito sull’impresa sociale e sugli strumenti della finanza ad impatto. Da una parte, alcuni interlocutori - Manes in primis - ritengono che l’impresa sociale non debba misurarsi con il tema della distribuzione degli utili, e che pertanto le forme di capitale più adeguate a sostenerne la crescita debbono avere una dimensione prettamente filantropica o pubblica. Rimane così intatto il dualismo stato-mercato, al primo la spesa pubblica per il sociale, al secondo il business e poi la filantropia. Esiste, seguendo questo ragionamento, un potenziale inespresso di donatori che può essere liberato e canalizzato verso le imprese sociali. Tuttavia, sebbene vi siano delle indiscutibili potenzialità per la crescita della filantropia, è opportuno rilevare che le quote di risorse erogate non saranno mai sufficienti a garantire quei radicali processi di innovazione di cui ha bisogno il nostro modello di welfare. Vi è poi una seconda posizione, così sintetizzabile: tra i diversi strumenti da esplorare per rigenerare il welfare non dobbiamo escludere la finanza generativa, ad impatto sociale appunto, che in Italia, peraltro, potrebbe fiorire anche da esperienze radicate nella cultura mutualistica e cooperativa. Siamo, dunque, in un altro campo da gioco rispetto alle degenerazioni speculative della finanza mainstream. Con gli investimenti ad impatto abbiamo a che fare con capitale paziente che cerca di sostenere la crescita di un tessuto di imprese sociali che, a loro volta, operano per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni a basso reddito.
Tornando all’Italia, quante imprese o cooperative sociali vorrebbero oggi investire per innovare e, paradossalmente, si trovano impantanate nel “missing middle”, senza trovare interlocutori sufficientemente “pazienti”. Si è stimato che la potenzialità di questi investimenti ad impatto potrebbe essere nei prossimi 10 anni in Italia di circa 30 mld di euro. Allargando il focus poi vi sono una serie di processi di innovazione che già stanno avvenendo nei territori da qualche tempo. Mi riferisco, in primo luogo, alla “fioritura” di ibridi organizzativi, gemmati dalle esperienze di imprese e cooperative sociali. Oppure, alle start-up innovative e sociali che attraverso la dimensione tecnologica cercano di rispondere ai bisogni della comunità. O ancora alle cooperative sociali che, attraverso un differente approccio ai servizi, sono alla ricerca di un modello più avanzato di sostenibilità economica, che possa finalmente superare la relazione di mono-committenza con la PA, spesso segnata da opacità e da una scarsa attenzione al raggiungimento dei risultati.
C’è, poi, tutto il filone dell’economia collaborativa, che riconfigura il campo delle relazioni produttive. Un “quarto settore”, per citare la felice formula usata da Zandonai e Venturi su queste pagine, che si fa in potenza portatore di un differente modello di creazione del valore. Ecco, il capitale paziente degli investimenti ad impatto sociale risponde a queste esigenze diffuse e nuove che altrimenti non troverebbero interlocuzioni nei settori tradizionali, siano essi pubblici o privati.
Con il rapporto “La finanza che include”, realizzato nell’ambito dei lavori della Taskforce G8 sugli investimenti sociali, abbiamo individuato 40 raccomandazioni per promuovere questi processi attraverso una “Agenda Impact” per l’Italia. Mi auguro sinceramente che le istituzioni e il Governo di Matteo Renzi sappiano raccogliere, al più presto, alcune di queste raccomandazioni. Stiamo già accumulando parecchi ritardi rispetto ad altri paesi e all’Agenda della Social Innovation dell’Ue. Abbiamo urgente bisogno di aprirci all’innovazione e alla sperimentazione di nuove soluzioni non chiudendoci in spazi ormai troppo angusti. Con l’evento di Expo abbiamo cercato di articolare alcune risposte a delle domande che ci interpellano con forza e alle quali non possiamo più sottrarci.
Giovanna Melandri è presidente Human Foundation e Social Impact investment task force G8
rassegna stampa: Il Sole 24 Ore 7 luglio 2015