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UN LABORATORIO DI PENSIERO E RIFLESSIONE FATTO DAI LAVORATORI:
il diario della crisi

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la partecipazione dei lavoratori


Siena, Ambrogio Lorenzetti: il buon governo


Mentre continuano i segnali di forte rallentamento dell’economia internazionale, a
livello macroeconomico assistiamo a come la crisi bancaria, almeno nell’area euro, 
sia ancora il tema più scottante dell’attualità economica. La questione assume 
ulteriore importanza in quanto si intreccia con la crisi irrisolta dei debiti sovrani. 
I titoli dei paesi a “rischio” costituiscono, infatti, una quota non indifferente 
del patrimonio delle banche. Nonostante queste criticità è sconfortante verificare
come nulla sia cambiato riguardo ai comportamenti ed alle strategie di business
dell’industria finanziaria internazionale; le banche hanno ripreso a fare ciò che 
facevano prima della crisi subprime e, quel che è peggio, sembra che non 
sappiano fare altro. Il perseguimento a qualunque costo, vale a dire con 
qualunque rischio, del massimo profitto a breve termine per i propri  azionisti 
rimane il loro unico dogma. In tale ottica non potremo che assistere all’esplosione 
della già latente crisi di fiducia presente sui mercati; 
fino ad oggi tale corto circuito è stato evitato grazie ai ripetuti interventi della Bce che ha
immesso nel sistema finanziario nuova liquidità e agli aumenti di  capitale a cui hanno  
fatto ricorso i principali gruppi bancari (vedi la recente direttiva “discriminatoria”  che l’Eba
impone di adottare alle banche   italiane per coprire le perdite di valore dei titoli di stato) 
ma detti correttivi non potranno proseguire all’infinito proprio come la pazienza degli 
indignados di fronte alla reiterata irresponsabilità economico-sociale dei mercati finanziari, 
dei fondi e delle grandi banche finanziarie e delle relative politiche gestionali dei loro manager .

per gentile concessione di F. V.

l'approfondimento:

dalla Laborem Exercens

Il processo storico - qui brevemente presentato - che è certo uscito dalla sua fase iniziale, ma che continua ad essere in vigore, anzi ad estendersi nei rapporti tra le nazioni e i continenti, esige una precisazione anche da un altro punto di vista. È evidente che, quando si parla dell'antinomia tra lavoro e capitale, non si tratta solo di concetti astratti o di «forze anonime», operanti nella produzione economica. Dietro l'uno e l'altro concetto ci sono gli uomini, gli uomini vivi, concreti; da una parte coloro, che eseguono il lavoro senza essere proprietari dei mezzi di produzione, e dall'altra coloro, che fungono da imprenditori e sono i proprietari di questi mezzi, oppure rappresentano i proprietari. Così, quindi, nell'insieme di questo difficile processo storico, sin dall'inizio si inserisce il problema della proprietà. L'Enciclica Rerum Novarum, che ha come tema la questione sociale, pone l'accento anche su questo problema, ricordando e confermando la dottrina della Chiesa sulla proprietà, sul diritto di proprietà privata, anche quando si tratta dei mezzi di produzione. Lo stesso ha fatto l'Enciclica Mater et Magistra.
Il suddetto principio, così come fu allora ricordato e come è tuttora insegnato dalla Chiesa, diverge radicalmente dal programma del collettivismo, proclamato dal marxismo e realizzato in vari Paesi del mondo nei decenni seguiti all'epoca dell'Enciclica di Leone XIII. Esso, al tempo stesso, differisce dal programma del capitalismo praticato dal liberalismo e dai sistemi politici, che ad esso si richiamano. In questo secondo caso, la differenza consiste nel modo di intendere lo stesso diritto di proprietà. La tradizione cristiana non ha mai sostenuto questo diritto come un qualcosa di assoluto ed intoccabile. Al contrario, essa l'ha sempre inteso nel più vasto contesto del comune diritto di tutti ad usare i beni dell'intera creazione: il diritto della proprietà privata come subordinato al diritto dell'uso comune, alla destinazione universale dei beni.
Inoltre, la proprietà secondo l'insegnamento della Chiesa non è stata mai intesa in modo da poter costituire un motivo di contrasto sociale nel lavoro. Come è già stato ricordato precedentemente in questo testo, la proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro. Ciò riguarda in modo particolare la proprietà dei mezzi di produzione. Il considerarli isolatamente come un insieme di proprietà a parte al fine di contrapporlo nella forma del «capitale» al «lavoro» e ancor più di esercitare lo sfruttamento del lavoro, è contrario alla natura stessa di questi mezzi e del loro possesso. Essi non possono essere posseduti contro il lavoro, non possono essere neppure posseduti per possedere, perché l'unico titolo legittimo al loro possesso - e ciò sia nella forma della proprietà privata, sia in quella della proprietà pubblica o collettiva - è che essi servano al lavoro; e che conseguentemente, servendo al lavoro, rendano possibile la realizzazione del primo principio di quell'ordine, che è la destinazione universale dei beni e il diritto al loro uso comune. Da questo punto di vista, quindi, in considerazione del lavoro umano e dell'accesso comune ai beni destinati all'uomo, è anche da non escludere la socializzazione, alle opportune condizioni, di certi mezzi di produzione. Nello spazio dei decenni che ci separano dalla pubblicazione dell'Enciclica Rerum Novarum, l'insegnamento della Chiesa ha sempre ricordato tutti questi principi, risalendo agli argomenti formulati nella tradizione molto più antica, per es. ai noti argomenti della Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino22.
Nel presente documento, che ha come tema principale il lavoro umano, conviene confermare tutto lo sforzo con cui l'insegnamento della Chiesa sulla proprietà ha cercato e cerca sempre di assicurare il primato del lavoro e, per ciò stesso, la soggettività dell'uomo nella vita sociale e, specialmente, nella struttura dinamica di tutto il processo economico. Da questo punto di vista, continua a rimanere inaccettabile la posizione del «rigido» capitalismo, il quale difende l'esclusivo diritto della proprietà privata dei mezzi di produzione come un «dogma» intoccabile nella vita economica. Il principio del rispetto del lavoro esige che questo diritto sia sottoposto ad una revisione costruttiva, sia in teoria che in pratica. Se infatti è una verità che il capitale, come l'insieme dei mezzi di produzione, è al tempo stesso il prodotto del lavoro di generazioni, allora è parimente vero che esso si crea incessantemente grazie al lavoro effettuato con l'aiuto di quest'insieme dei mezzi di produzione, che appaiono come un grande banco di lavoro, al quale s'impegna, giorno per giorno, la presente generazione dei lavoratori. Si tratta qui, ovviamente, delle varie specie di lavoro, non solo del cosiddetto lavoro manuale, ma anche del molteplice lavoro intellettuale, da quello di concetto a quello direttivo.
In questa luce acquistano un significato di particolare rilievo le numerose proposte avanzate dagli esperti della dottrina sociale cattolica ed anche dal supremo Magistero della Chiesa23. Sono, queste, le proposte riguardanti la comproprietà dei mezzi di lavoro, la partecipazione dei lavoratori alla gestione e/o ai profitti delle imprese, il cosiddetto azionariato del lavoro, e simili. Indipendentemente dall'applicabilità concreta di queste diverse proposte, rimane evidente che il riconoscimento della giusta posizione del lavoro e dell'uomo del lavoro nel processo produttivo esige vari adattamenti nell'àmbito dello stesso diritto della proprietà dei mezzi di produzione; e ciò prendendo in considerazione non solo le situazioni più antiche, ma prima di tutto la realtà e la problematica, che si è creata nella seconda metà del secolo in corso, per quanto riguarda il cosiddetto Terzo Mondo ed i vari nuovi Paesi indipendenti che son sorti, specialmente ma non soltanto in Africa, al posto dei territori coloniali di una volta.
Se dunque la posizione del «rigido» capitalismo deve essere continuamente sottoposta a revisione in vista di una riforma sotto l'aspetto dei diritti dell'uomo, intesi nel modo più vasto e connessi con il suo lavoro, allora dallo stesso punto di vista si deve affermare che queste molteplici e tanto desiderate riforme non possono essere realizzate mediante l'eliminazione aprioristica della proprietà privata dei mezzi di produzione. Occorre, infatti, osservare che la semplice sottrazione di quei mezzi di produzione (il capitale) dalle mani dei loro proprietari privati non è sufficiente per socializzarli in modo soddisfacente. Essi cessano di essere proprietà di un certo gruppo sociale, cioè dei proprietari privati, per diventare proprietà della società organizzata, venendo sottoposti all'amministrazione ed al controllo diretto di un altro gruppo di persone, di quelle cioè che, pur non avendone la proprietà, ma esercitando il potere nella società, dispongono di essi al livello dell'intera economia nazionale oppure dell'economia locale.
Questo gruppo dirigente e responsabile può assolvere i suoi compiti in modo soddisfacente dal punto di vista del primato del lavoro - ma può anche adempierli male, rivendicando al tempo stesso per sé il monopolio dell'amministrazione e della disposizione dei mezzi di produzione e non arrestandosi neppure davanti all'offesa dei fondamentali diritti dell'uomo. Così, quindi, il solo passaggio dei mezzi di produzione in proprietà dello Stato, nel sistema collettivistico, non è certo equivalente alla «socializzazione» di questa proprietà. Si può parlare di socializzazione solo quando sia assicurata la soggettività della società, cioè quando ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il pieno titolo di considerarsi al tempo stesso il «com-proprietario» del grande banco di lavoro, al quale s'impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali, culturali: corpi che godano di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri, che perseguano i loro specifici obiettivi in rapporti di leale collaborazione vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte attiva alla loro vita24.