«Bisogna ridimensionare le filiali»
«I nodi storici del sistema bancario italiano sono venuti al pettine. In passato si è scelto di non scioglierli, ma ora è necessario agire con decisione». Vincenzo Tortorici, director di McKinsey, non è abituato alle mezze misure: il sistema bancario italiano ha bisogno di una grande rivoluzione. Bisogna ridurre i costi («chiudendo alcune filiali»), cambiare le modalità di relazione con la clientela («erogando credito al prezzo giusto solo ai meritevoli») e cedere le attività non strumentali. Insomma: per Tortorici è il momento buono per una schumpeteriana «distruzione creatrice». «Per fare la frittata – afferma laconico – bisogna rompere le uova».
Lei dice che le banche devono ridurre i costi diminuendo il numero delle filiali: ma che ne sarà del personale?
Guardi, oggi il 60% dei costi di una banca italiana è legato al personale e, principalmente, a quello di sportello. Il problema è che la rete di filiali è una forma disributiva arcaica, costosa e a bassa produttività commerciale: non ha senso economico mantenere un'infrastruttura che non remunera. È giusto intervenire.
E come, licenziando?
Il meno possibile, ovvio. Penso piuttosto a grandi manovre di conversione del personale amministrativo a mansioni di vendita, puntando più verso la multicanalità: la distribuzione deve diventare più remota, itinerante, tecnologica e meno legata agli sportelli fisici.
E che ne sarà di tutti i clienti che non usano Internet?
Innovare nella distribuzione vuol dire essere più mobili sul territorio. Si potrebbe anche raggiungere il cliente al domicilio, rendendo variabile una parte dei compensi dei venditori. Insomma: non c'è solo Internet.
Oltre a tagliare le filiali, cosa dovrebbero fare le banche?
Dovrebbero cambiare il modo di relazionarsi con la clientela. Finora ha dominato il dogma che tra la banca e il cliente esista una "relazione" e che questa sia rilevante ai fini del profitto.
E meno male: non è giusto?
No. Io credo che una banca debba lavorare "con" i clienti, non "per" i clienti. Deve essere partner di chi remunera congruamente il suo servizio, non mettersi nelle condizioni di essere sfruttata. Oggi gli istituti si comportano invece come enti di finanaziamento: usano cioè il bilancio in modo poco remunerativo. E questo non va bene.
Ma come: le aziende si lamentano che le banche stanno chiudendo i rubinetti!
Gli affidamenti devono basarsi sul principio della meritocrazia creditizia: si eroga a chi ha bilanci solidi e ai tassi corretti. Oggi, invece, il denaro non viene prestato al prezzo giusto. Lo sa che, a parità di forma tecnica del finanziamento all'impresa, in Italia il costo del credito è il più basso d'Europa? Bisogna riprezzare il credito. Senza favoritismi, ma con un sistema standardizzato.
Proprio ora che l'economia arranca? Questo non darebbe il colpo di grazia alle imprese?
Di certo ci sarebbe una selezione darwiniana, perché le risorse si concentrerebbero sulle imprese in grado di sostenersi nel lungo termine.
Più che altro sarebbe un'ecatombe.
La banca può e deve essere un agente di ristrutturazione delle imprese: può favorire aggregazioni, vendite anche a stranieri. Troppo spesso i banchieri hanno invece schermato gli imprenditori dalle difficoltà, evitando azioni radicali o indigeste.
Ci saranno pur altre strade percorribili...
Sì, le banche hanno anche altre leve da attivare. Possono ancora cedere molti beni non strumentali. Oggi si pensa di dover essere proprietari di tutto: delle filiali, del leasing, del factoring, degli immobili, delle partecipazioni. Vendendo almeno alcune di queste attività, si libererebbe capitale. Si potrebbero anche vendere crediti in bonis e favorire un'ulteriore concentrazione tra le 700 banche esistenti. Le leve su cui agire sono tante: non è detto che sia necessario attivarle tutte, ma qualcosa va fatto.
(dal Sole24ore 6 marzo2011- intervista al Director di McKinsey Vincenzo Tortorici)
l'approfondimento:
dalla Laborem Exercens
dalla Laborem Exercens
Di fronte all'odierna realtà, nella cui struttura si trovano così profondamente inscritti tanti conflitti causati dall'uomo, e nella quale i mezzi tecnici - frutto del lavoro umano - giocano un ruolo primario (si pensi qui anche alla prospettiva di un cataclisma mondiale nell'eventualità di una guerra nucleare dalle possibilità distruttive quasi inimmaginabili), si deve prima di tutto ricordare un principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio della priorità del «lavoro» nei confronti del «capitale». Questo principio riguarda direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il «capitale», essendo l'insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Questo principio è verità evidente che risulta da tutta l'esperienza storica dell'uomo.Quando nel primo capitolo della Bibbia sentiamo che l'uomo deve soggiogare la terra, noi sappiamo che queste parole si riferiscono a tutte le risorse, che il mondo visibile racchiude in sé, messe a disposizione dell'uomo. Tuttavia, tali risorse non possono servire all'uomo se non mediante il lavoro. Col lavoro rimane pure legato sin dall'inizio il problema della proprietà: infatti, per far servire a sé e agli altri le risorse nascoste nella natura, l'uomo ha come unico mezzo il suo lavoro. E per poter far fruttificare queste risorse per il tramite del suo lavoro, l'uomo si appropria di piccole parti delle diverse ricchezze della natura: del sottosuolo, del mare, della terra, dello spazio. Di tutto questo egli si appropria facendone il suo banco di lavoro. Se ne appropria mediante il lavoro e per un ulteriore lavoro.Lo stesso principio si applica alle fasi successive di questo processo, nel quale la prima fase rimane sempre la relazione dell'uomo con le risorse e con le ricchezze della natura. Tutto lo sforzo conoscitivo, tendente a scoprire queste ricchezze, a individuare le varie possibilità della loro utilizzazione da parte dell'uomo e per l'uomo, ci rende consapevoli che tutto ciò che nell'intera opera di produzione economica proviene dall'uomo, sia il lavoro come pure l'insieme dei mezzi di produzione e la tecnica collegata con essi (cioè la capacità di adoperare questi mezzi nel lavoro), suppone queste ricchezze e risorse del mondo visibile, che l'uomo trova, ma non crea. Egli le trova, in un certo senso, già pronte, preparate per la scoperta conoscitiva e per la corretta utilizzazione nel processo produttivo. In ogni fase dello sviluppo del suo lavoro, l'uomo si trova di fronte al fatto della principale donazione da parte della «natura», e cioè in definitiva da parte del Creatore. All'inizio del lavoro umano sta il mistero della creazione. Questa affermazione, già indicata come punto di partenza, costituisce il filo conduttore di questo documento, e verrà sviluppata ulteriormente nell'ultima parte delle presenti riflessioni.La successiva considerazione dello stesso problema deve confermarci nella convinzione circa la priorità del lavoro umano in rapporto a ciò che, col passar del tempo, si è abituati a chiamare «capitale». Se infatti nell'àmbito di quest'ultimo concetto rientrano, oltre che le risorse della natura messe a disposizione dell'uomo, anche quell'insieme di mezzi, mediante i quali l'uomo se ne appropria, trasformandole a misura delle sue necessità (e in questo modo, in qualche senso, «umanizzandole»), allora già qui si deve costatare che quell'insieme di mezzi è frutto del patrimonio storico del lavoro umano. Tutti i mezzi di produzione, dai più primitivi fino a quelli ultramoderni, è l'uomo che li ha gradualmente elaborati: l'esperienza e l'intelletto dell'uomo. In questo modo sono sorti non solo gli strumenti più semplici che servono alla coltivazione della terra, ma anche - con un adeguato progresso della scienza e della tecnica - quelli più moderni e complessi: le macchine, le fabbriche, i laboratori e i computers. Così, tutto ciò che serve al lavoro, tutto ciò che costituisce - allo stato odierno della tecnica - il suo «strumento» sempre più perfezionato, è frutto del lavoro.Questo gigantesco e potente strumento - l'insieme dei mezzi di produzione, che sono considerati, in un certo senso, come sinonimo di «capitale» -, è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del lavoro umano. Al presente grado di avanzamento della tecnica, l'uomo, che è il soggetto del lavoro, volendo servirsi di quest'insieme di moderni strumenti, ossia dei mezzi di produzione, deve prima assimilare sul piano della conoscenza il frutto del lavoro degli uomini che hanno scoperto quegli strumenti, che li hanno programmati, costruiti e perfezionati, e che continuano a farlo. La capacità di lavoro - cioè di partecipazione efficiente al moderno processo di produzione - esige una preparazione sempre maggiore e, prima di tutto, un'adeguata istruzione. Resta chiaro ovviamente che ogni uomo, che partecipa al processo di produzione, anche nel caso che esegua solo quel tipo di lavoro, per il quale non sono necessari una particolare istruzione e speciali qualificazioni, è tuttavia in questo processo di produzione il vero soggetto efficiente, mentre l'insieme degli strumenti, anche il più perfetto in se stesso, è solo ed esclusivamente strumento subordinato al lavoro dell'uomo.Questa verità, che appartiene al patrimonio stabile della dottrina della Chiesa, deve esser sempre sottolineata in relazione al problema del sistema di lavoro, ed anche di tutto il sistema socio-economico. Bisogna sottolineare e mettere in risalto il primato dell'uomo nel processo di produzione, il primato dell'uomo di fronte alle cose. Tutto ciò che è contenuto nel concetto di «capitale» - in senso ristretto - è solamente un insieme di cose. L'uomo come soggetto del lavoro, ed indipendentemente dal lavoro che compie, l'uomo, egli solo, è una persona. Questa verità contiene in sé conseguenze importanti e decisive.
Ioannes Paulus PP. II
Laborem exercens