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giovedì 20 agosto 2015

Il capitalismo Usa alla ricerca di nuovi modelli

Finora si poteva pensare che le elezioni presidenziali del 2016 sarebbero state le ultime di una lunga serie di elezioni tra candidati le cui campagne erano supportate soprattutto da Wall Street e dalle lobby finanziarie. Un eventuale sfida tra Hillary Clinton e Jeb Bush sembrava rientrare perfettamente in quella tradizione. In questo schema, dal 2020 le elezioni americane sarebbero però state diverse: non più Wall Street contro Wall Street, bensì Silicon Valley contro il resto del mondo. Nuovi interessi, con un linguaggio sociale e mediatico attiguo a quello della politica e dell’opinione pubblica, avrebbero avuto bisogno di rappresentanza politica non solo negli Stati Uniti ma per la conquista dei mercati di tutto il pianeta.
Come spesso avviene in America i tempi di attesa collassano di colpo. A Washington il peso dei ragazzi della rivoluzione digitale è cresciuto enormemente e la politica sta già reagendo al cambiamento d’epoca. Un mese fa, Hillary Clinton, favorita democratica alla candidatura, ha lanciato un attacco del tutto inedito a Wall Street e ai 25 capi degli hedge funds (uno dei quali è suo genero) che guadagnano più di tutti gli insegnanti d’asilo del Paese. Al tempo stesso Marco Rubio, uno dei candidati di punta del partito repubblicano, ha sottolineato come il baricentro degli interessi americani si sia spostato da Est, cioè da Wall Street, al mondo della nuova “tecno-economia globale” che guarda a Ovest.
L’attacco alla “finanziarizzazione” del sistema produttivo americano è più che giustificato: è un sistema miope, preda di crisi regolari e devastanti. È dominato dalla ricerca di profitti di breve termine a spese degli investimenti di lunga durata, che infatti sono scesi a livelli storicamente bassi. Hillary ha messo nell’agenda elettorale leggi che tolgono gli incentivi introdotti dopo la presidenza Reagan al riacquisto di azioni proprie, alle stock option, alla scarsa rispondenza della contabilità delle aziende con la performance reale e alla detassazione dei compensi dei manager. Molti osservatori pensano che la svolta di Hillary sia dovuta alla pressione, durante le primarie, di Bernie Sanders, il candidato di sinistra del partito democratico, ma la realtà sembra più complessa e forse più interessante.
Nonostante un’economia che cresce a un ritmo accettabile e una bassa disoccupazione, si è aperta una riflessione esistenziale sul funzionamento del capitalismo americano. Nonostante la crescita dell’economia, in termini reali lo stipendio medio di un americano resta pari a 500 dollari alla settimana, come nel 1998, più basso di 25 anni fa e solo del 10% superiore al 1970. Dopo alcuni anni in cui il dibattito accademico si è polarizzato attorno al rischio di “stagnazione secolare” denunciato da Larry Summers e all’ingiusta divaricazione sottolineata da Thomas Piketty tra i redditi da lavoro e quelli da capitale, il confronto politico sta assorbendo i dubbi esistenziali sul futuro del capitalismo.
Secondo Hillary, c’è qualcosa di fondamentale che non funziona. Dal 1970, mentre la produttività aumentava del 2% all’anno, gli stipendi crescevano in media solo dello 0,2% all'anno. L’allineamento tra remunerazione del lavoro e produttività sembra essersi incrinato da tempo. La quota del reddito aggregato che finisce ai lavoratori cala da 15 anni, mentre aumenta la porzione che remunera il capitale. Hillary pensa che si debba incoraggiare fiscalmente la condivisione dei profitti da capitale con i lavoratori dipendenti – una visione da economia sociale di mercato alla tedesca - per arginare la divergenza tra capitale e lavoro, spingendo in tal modo anche i lavoratori a essere più produttivi.
Il repubblicano Jeb Bush rimane invece legato allo schema “Wall Street”: il problema non sarebbe la distribuzione del reddito, solo una crescita superiore al 4% fa aumentare i salari medi. Fu così in effetti tra il ’96 e il 2000 quando i redditi mediani aumentarono del 10%. Ma l’unico modo in cui negli ultimi vent’anni è stato possibile far salire la crescita oltre il livello potenziale è stato attraverso le bolle finanziarie, che una volta scoppiate annullavano i benefici o richiedevano nuove bolle. Con più acutezza, Marco Rubio, l’altro favorito repubblicano, ha individuato la necessità per gli americani di adattarsi alla “tecno-economia globale” cioè di migliorare la capacità nell’uso professionale delle nuove tecnologie per far crescere la produttività del lavoro. Un livello inadeguato di competenze dei lavoratori spiegherebbe il paradosso del disavanzo nel commercio con l’estero che in effetti non dovrebbe esistere se i redditi fossero troppo bassi e la produttività troppo alta. Facendo crescere la produttività, dovrebbero crescere anche i salari. Ma perché ciò avvenga è necessario lasciare mano libera ai produttori di nuove tecnologie, inclusi quelli della rivoluzione digitale della Silicon Valley.
Quale sia l’ispirazione politica che soffia dalla cultura della Valley è tuttora materia di studio. Si tende a vedere due anime combattersi: quella anarco-liberista e quella universale-sociale. La sfida tra i rappresentanti dei partiti tradizionali a rappresentare la nuova cultura politica è aperta, ma la posizione di Rubio rappresenta una rilevante sfida per Hillary e per chi tende a sottolineare soprattutto le classiche contraddizioni interne – distributive - del capitalismo. Una serie di analisi condotte nei think tank di Washington, mettono in dubbio la lettura clintoniana di una divaricazione ingiustificata tra produttività e remunerazione del lavoro risolvibile con una migliore distribuzione del reddito. Robert Lawrence in particolare, pur lavorando su dati aggregati, ha calcolato che attualmente i redditi sono esattamente in linea con la produttività del lavoro. La notizia è ferale perché significherebbe che il capitalismo funziona bene, allinea cioè perfettamente produttività e salari, ma che questo produce risultati tutt'altro che buoni: calano gli investimenti, la domanda interna e anche il valore del lavoro.

Gli sfidanti socialisti di Hillary sostengono che al capitalismo vadano imposte redini solide attraverso forti politiche redistributive. Sanders propone di raddoppiare il salario minimo a 15 dollari all’ora (oltre 31mila dollari annui per un tempo pieno), come già è stato deciso di fare a Seattle, San Francisco e Los Angeles e più recentemente nei fast-food di New York. Rubio e Bush sono pronti a usare la tradizione liberista, maggioritaria nel paese, per contrastare la lettura socialista che resta popolare solo in alcune aree geografiche e in ambiti circoscritti del partito democratico.
Hillary si trova così presa in mezzo a questa tenaglia. I suoi consiglieri parlano di “modificare il modo in cui i capi delle aziende prendono le loro decisioni” per spingerli a investire, modificare cioè una moltitudine di micro-incentivi che crea macro-problemi. Pescando ancora nella tradizione dell’economia sociale di mercato, anche Hillary, come Obama, vuole istituire una banca federale delle infrastrutture per finanziare gli investimenti; agevolare la formazione, incentivare l'apprendistato e aumentare il ruolo dei sindacati a fronte di aziende che definiscono i lavoratori non come dipendenti ma come contractors, un riferimento esplicito a Uber e ad altri gruppi della rivoluzione digitale.
Erano molti decenni che politiche redistributive e limiti al mercato non entravano così esplicitamente nel linguaggio politico americano. Ma ciò che resta ancora da risolvere per Hillary è come integrare nella sua svolta sociale il ruolo delle nuove tecnologie. Silicon Valley e gli altri creatori di tecnologia del futuro sono indispensabili per aumentare la produttività dell’economia americana, ma i cambi di tecnologia normalmente sono associati a un ambiente di “distruzione creativa”, cioè di libero mercato. E come se non bastasse, le nuove tecnologie sono pronte a divorare posti di lavoro umani su una scala che non ha precedenti nella storia. Per la politica non solo americana è una sfida che ricorda quella tedesca di fine Ottocento, quando la rivoluzione tecnologica creò sia l’industria sia il welfare state.