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UN LABORATORIO DI PENSIERO E RIFLESSIONE FATTO DAI LAVORATORI:
il diario della crisi

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mercoledì 26 agosto 2015

Banche, il passato presenta il conto: dalla crisi spese legali per 260 mld

Altri 60 miliardi verranno versati nel prossimo biennio. Da sole, le cinque maggiori banche Usa hanno scritto a bilancio spese e accantonamenti per 137 miliardi di dollari. Le cause legate ai mutui sono state la maggior voce di costo

Banche, il passato presenta il conto: dalla crisi spese legali per 260 mld    MILANO - Non accenna a fermarsi il contatore dei costi legali delle grandi banche, partito dopo la crisi finanziaria scoppiata nel 2007: secondo l'ultimo conteggio di Morgan Stanley, di cui dà notizia il Financial Times, le cinque maggiori banche Usa e le venti compagne Ue hanno sborsato la bellezza di 260 miliardi di dollari, ai quali si aggiungeranno altri 60 miliardi di bigliettoni nel corso del prossimo biennio.

Bank of America, la stessa Morgan Stanley, JP Morgan, Citi e Goldman Sachs da sole hanno scritto a bilancio 137 miliardi di esborsi, e si prospetta un assegno collettivo da altri 15 miliardi nei mesi a venire. Ma i costi diretti e gli accantonamenti sono solo una delle voci che hanno pesato sui libri degli istituti, rei di aver ingannato i loro clienti o di aver messo in campo pratiche poco trasparenti: "Un sacco di tempo dedicato alla gestione delle banche e di spese per l'Information technology sono stati dirottati per rettificare gli illeciti del passato, piuttosto che esser investiti per preparare le banche al loro futuro".

Per le banche europee, inoltre, si prospettano ancora incertezze visto che sono da risolvere alcune pendenze in tema di mutui Usa, ma fino ad ora nessuno ha ancora trovato un accordo con il Dipartimento di Giustizia americano e per questo è difficile prevedere come possano andare a finire le cose. Proprio i mutui a stelle e strisce rappresentano la maggior causa di esborsi, con una fetta di 110 miliardi di dollari di costi. A livello di istituti, la palma delle transazioni con le autorità va a BofA, con oltre 65 miliardi di dollari, poi JP Morgan sopra 42 miliardi e quindi Lloyds con quasi 27 miliardi di sterline (42 miliardi di dollari).


rassegna stampa la Repubblica 23 agosto 2015
 http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/08/23/news/banche_il_passato_presenta_il_conto_dalla_crisi_spese_legali_per_260_mld-121479236/

Jackson Hole, si radunano i banchieri centrali. L'assenza della Yellen crea incertezza


La numero uno della Fed, Janet Yellen, non si presenterà al consueto incontro annuale tra i vertici delle banche centrali, lasciando intendere che non verranno date indicazioni sui tassi di interesse. La Fed - dicono gli esperti - non vuole servire titoli ai giornali e ai mercati. Il via nel giorno del Pil Usa, atteso in rialzo del 3,2%

di RAFFAELE RICCIARDI

Jackson Hole, si radunano i banchieri centrali. L'assenza della Yellen crea incertezza    MILANO - Il mondo finanziario scottato dalla crisi cinese si prepara a puntare le antenne verso Jackson Hole, la località del Wyoming che ospita il tradizionale consesso dei banchieri centrali alla piena ripresa dell'attività lavorativa dopo la pausa estiva. L'anno scorso il protagonista indiscusso fu Mario Draghi, che si preparava a traghettare la Bce verso il Quantitative easing e terre mai esplorate. Quest'anno, con il Dragone in fiamme per la bolla finanziaria e il rallentamento economico, e i mercati in preda al panico con vendite che non si vedevano da anni, l'attenzione maggiore sarà riservata alla Fed. Che però, a nemmeno tre settimane dall'atteso board che potrebbe dare indicazione sul rialzo dei tassi d'interesse Usa, non schiererà il suo 'capitano' Janet Yellen. Sarà allora il suo vice Stanley Fischer a finire sotto i riflettori.

Fino a prima dell'estate, in molti si aspettavano un rialzo dei tassi americani (che manca ormai dal 2006) per settembre. Ma l'avvitamento cinese ha complicato le cose e ora gli analisti ed esperti hanno spostato la data verso fine anno, se non addirittura al 2016. La Federal Reserve non ha più dato indicazioni a tal proposito e questo clima d'incertezza non ha giovato agli indici di Wall Street, che sono tutti entrati in correzione. Formalmente, il titolo del convegno che parte giovedì 27 agosto riguarda le dinamiche dell'inflazione e il loro impatto sulle politiche monetarie. Tutti staranno però ad attendere un segnale sulla volontà di Washington di muovere i tassi. "E' una delle ultime occasioni, per la Fed, di far sapere cosa pensa", annota Luke Bartholomew di Aberdeen AM, ricordando che la dinamica dei prezzi Usa è ben lontana dal target del 2%. Per altro, il simposio partirà proprio nel giorno della diffusione dei dati sul Pil Usa, atteso in rialzo del 3,6%.

Il timore di molti investitori è che le Banche centrale occidentali si scoprano ormai ad armi spuntate, dopo gli sforzi fatti negli ultimi tempi per trascinare i loro sistemi economici fuori dalla recessione, per affrontare una nuova ondata di panico. Il summit quest'anno è un po' sotto tono, visto che alla convocazione della Fed di Kansas City non hanno risposto molti altri membri del Federal Open Market Committee (Fomc), il braccio di politca monetaria della Banca centrale Usa: Daniel Tarullo, Charles Evan, capo della Fed di Chicago, e John Williams, capo della Fed di San Francisco. L'anno scorso solo 2 dei 10 membri del Fomc mancarono l'appuntamento. Anche la presenza di Draghi non è contemplata.

 rassegna stampa: la Repubblica 26 agosto 2015

http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/08/26/news/jackson_hole_fed_tassi_cina_banche_centrali-121654345/?ref=HRLV-4

 

 

giovedì 20 agosto 2015

Il capitalismo Usa alla ricerca di nuovi modelli

Finora si poteva pensare che le elezioni presidenziali del 2016 sarebbero state le ultime di una lunga serie di elezioni tra candidati le cui campagne erano supportate soprattutto da Wall Street e dalle lobby finanziarie. Un eventuale sfida tra Hillary Clinton e Jeb Bush sembrava rientrare perfettamente in quella tradizione. In questo schema, dal 2020 le elezioni americane sarebbero però state diverse: non più Wall Street contro Wall Street, bensì Silicon Valley contro il resto del mondo. Nuovi interessi, con un linguaggio sociale e mediatico attiguo a quello della politica e dell’opinione pubblica, avrebbero avuto bisogno di rappresentanza politica non solo negli Stati Uniti ma per la conquista dei mercati di tutto il pianeta.
Come spesso avviene in America i tempi di attesa collassano di colpo. A Washington il peso dei ragazzi della rivoluzione digitale è cresciuto enormemente e la politica sta già reagendo al cambiamento d’epoca. Un mese fa, Hillary Clinton, favorita democratica alla candidatura, ha lanciato un attacco del tutto inedito a Wall Street e ai 25 capi degli hedge funds (uno dei quali è suo genero) che guadagnano più di tutti gli insegnanti d’asilo del Paese. Al tempo stesso Marco Rubio, uno dei candidati di punta del partito repubblicano, ha sottolineato come il baricentro degli interessi americani si sia spostato da Est, cioè da Wall Street, al mondo della nuova “tecno-economia globale” che guarda a Ovest.
L’attacco alla “finanziarizzazione” del sistema produttivo americano è più che giustificato: è un sistema miope, preda di crisi regolari e devastanti. È dominato dalla ricerca di profitti di breve termine a spese degli investimenti di lunga durata, che infatti sono scesi a livelli storicamente bassi. Hillary ha messo nell’agenda elettorale leggi che tolgono gli incentivi introdotti dopo la presidenza Reagan al riacquisto di azioni proprie, alle stock option, alla scarsa rispondenza della contabilità delle aziende con la performance reale e alla detassazione dei compensi dei manager. Molti osservatori pensano che la svolta di Hillary sia dovuta alla pressione, durante le primarie, di Bernie Sanders, il candidato di sinistra del partito democratico, ma la realtà sembra più complessa e forse più interessante.
Nonostante un’economia che cresce a un ritmo accettabile e una bassa disoccupazione, si è aperta una riflessione esistenziale sul funzionamento del capitalismo americano. Nonostante la crescita dell’economia, in termini reali lo stipendio medio di un americano resta pari a 500 dollari alla settimana, come nel 1998, più basso di 25 anni fa e solo del 10% superiore al 1970. Dopo alcuni anni in cui il dibattito accademico si è polarizzato attorno al rischio di “stagnazione secolare” denunciato da Larry Summers e all’ingiusta divaricazione sottolineata da Thomas Piketty tra i redditi da lavoro e quelli da capitale, il confronto politico sta assorbendo i dubbi esistenziali sul futuro del capitalismo.
Secondo Hillary, c’è qualcosa di fondamentale che non funziona. Dal 1970, mentre la produttività aumentava del 2% all’anno, gli stipendi crescevano in media solo dello 0,2% all'anno. L’allineamento tra remunerazione del lavoro e produttività sembra essersi incrinato da tempo. La quota del reddito aggregato che finisce ai lavoratori cala da 15 anni, mentre aumenta la porzione che remunera il capitale. Hillary pensa che si debba incoraggiare fiscalmente la condivisione dei profitti da capitale con i lavoratori dipendenti – una visione da economia sociale di mercato alla tedesca - per arginare la divergenza tra capitale e lavoro, spingendo in tal modo anche i lavoratori a essere più produttivi.
Il repubblicano Jeb Bush rimane invece legato allo schema “Wall Street”: il problema non sarebbe la distribuzione del reddito, solo una crescita superiore al 4% fa aumentare i salari medi. Fu così in effetti tra il ’96 e il 2000 quando i redditi mediani aumentarono del 10%. Ma l’unico modo in cui negli ultimi vent’anni è stato possibile far salire la crescita oltre il livello potenziale è stato attraverso le bolle finanziarie, che una volta scoppiate annullavano i benefici o richiedevano nuove bolle. Con più acutezza, Marco Rubio, l’altro favorito repubblicano, ha individuato la necessità per gli americani di adattarsi alla “tecno-economia globale” cioè di migliorare la capacità nell’uso professionale delle nuove tecnologie per far crescere la produttività del lavoro. Un livello inadeguato di competenze dei lavoratori spiegherebbe il paradosso del disavanzo nel commercio con l’estero che in effetti non dovrebbe esistere se i redditi fossero troppo bassi e la produttività troppo alta. Facendo crescere la produttività, dovrebbero crescere anche i salari. Ma perché ciò avvenga è necessario lasciare mano libera ai produttori di nuove tecnologie, inclusi quelli della rivoluzione digitale della Silicon Valley.
Quale sia l’ispirazione politica che soffia dalla cultura della Valley è tuttora materia di studio. Si tende a vedere due anime combattersi: quella anarco-liberista e quella universale-sociale. La sfida tra i rappresentanti dei partiti tradizionali a rappresentare la nuova cultura politica è aperta, ma la posizione di Rubio rappresenta una rilevante sfida per Hillary e per chi tende a sottolineare soprattutto le classiche contraddizioni interne – distributive - del capitalismo. Una serie di analisi condotte nei think tank di Washington, mettono in dubbio la lettura clintoniana di una divaricazione ingiustificata tra produttività e remunerazione del lavoro risolvibile con una migliore distribuzione del reddito. Robert Lawrence in particolare, pur lavorando su dati aggregati, ha calcolato che attualmente i redditi sono esattamente in linea con la produttività del lavoro. La notizia è ferale perché significherebbe che il capitalismo funziona bene, allinea cioè perfettamente produttività e salari, ma che questo produce risultati tutt'altro che buoni: calano gli investimenti, la domanda interna e anche il valore del lavoro.

Gli sfidanti socialisti di Hillary sostengono che al capitalismo vadano imposte redini solide attraverso forti politiche redistributive. Sanders propone di raddoppiare il salario minimo a 15 dollari all’ora (oltre 31mila dollari annui per un tempo pieno), come già è stato deciso di fare a Seattle, San Francisco e Los Angeles e più recentemente nei fast-food di New York. Rubio e Bush sono pronti a usare la tradizione liberista, maggioritaria nel paese, per contrastare la lettura socialista che resta popolare solo in alcune aree geografiche e in ambiti circoscritti del partito democratico.
Hillary si trova così presa in mezzo a questa tenaglia. I suoi consiglieri parlano di “modificare il modo in cui i capi delle aziende prendono le loro decisioni” per spingerli a investire, modificare cioè una moltitudine di micro-incentivi che crea macro-problemi. Pescando ancora nella tradizione dell’economia sociale di mercato, anche Hillary, come Obama, vuole istituire una banca federale delle infrastrutture per finanziare gli investimenti; agevolare la formazione, incentivare l'apprendistato e aumentare il ruolo dei sindacati a fronte di aziende che definiscono i lavoratori non come dipendenti ma come contractors, un riferimento esplicito a Uber e ad altri gruppi della rivoluzione digitale.
Erano molti decenni che politiche redistributive e limiti al mercato non entravano così esplicitamente nel linguaggio politico americano. Ma ciò che resta ancora da risolvere per Hillary è come integrare nella sua svolta sociale il ruolo delle nuove tecnologie. Silicon Valley e gli altri creatori di tecnologia del futuro sono indispensabili per aumentare la produttività dell’economia americana, ma i cambi di tecnologia normalmente sono associati a un ambiente di “distruzione creativa”, cioè di libero mercato. E come se non bastasse, le nuove tecnologie sono pronte a divorare posti di lavoro umani su una scala che non ha precedenti nella storia. Per la politica non solo americana è una sfida che ricorda quella tedesca di fine Ottocento, quando la rivoluzione tecnologica creò sia l’industria sia il welfare state.

Banche, per le non quotate attesi aumenti per 5 miliardi

    Oltre cinque miliardi di euro freschi da reperire sul mercato nei prossimi mesi. A tanto ammonta il conto (provvisorio) degli aumenti di capitale che le banche italiane non quotate stanno per varare.
Dal Nord Est al Centro Italia, dalle popolari alle Bcc, l'elenco degli istituti costretti a una ricapitalizzazione è lungo. Sono infatti circa una decina le banche italiane fuori dal listino che, per riportare i ratio patrimoniali in equilibrio, dovranno chiedere uno sforzo ai soci. Istituti diversi tra loro per storia recente, caratterizzazione geografica e dimensione. Ma pressochè tutti accomunati da uno stesso destino: situazioni patrimoniali in sofferenza, su cui si è abbattuta l'onda lunga della crisi finanziaria ed economica degli ultimi anni. Del resto, dopo che nel corso del 2014 quasi tutte le banche italiane quotate sono state obbligate a fare ricapitalizzazioni a raffica (per oltre 10 miliardi totali), oggi sembra essere iniziato il turno degli istituti cosiddetti minori.

Anche perché tanto “minori” non sono. Tra le banche a caccia di capitali ci sono ad esempio due dei 15 principali istituti italiani: entrambe sotto il controllo della Banca centrale europea, entrambe radicate in Veneto, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca stanno ragionando su rafforzamenti di capitale significativi. Operazioni che potrebbero essere attuate contestualmente alle quotazioni in Borsa, già approvate e da realizzare nei prossimi mesi. Secondo rumors di mercato, l'esborso richiesto a soci ed azionisti potrebbe aggirarsi attorno a 1,5 miliardi per la vicentina e tra i 500 e 800 milioni per Montebelluna.Molto dipenderà dagli esiti dello Srep, il processo di valutazione dei presidi sui rischi interni da parte della Bce, i cui risultati inizieranno ad essere comunicati a partire da settembre. Il lancio delle operazioni potrebbe avvenire tra il quarto trimestre del 2015 e il primo del 2016. E magari, proprio in quella fase, potrebbe alzarsi il velo anche sulle possibili partnership con altre banche popolari italiane quotate, che a loro volta si stanno preparando alla trasformazione in Spa, come imposto dalla riforma Renzi-Padoan.
La partita del Nord-Est

Ma nel Nord Est non finisce qui. Perchè, oltre alle popolari, diverse casse rurali e banche di credito cooperativo, sotto il pressing di Banca d'Italia, si stanno attrezzandosi in vista di una futura ricapitalizzazione. Tra queste ad esempio c'è la Sparkasse-Cassa di Risparmio di Bolzano, che dopo aver perso oltre 230 milioni nel 2014, nel primo semestre è tornata in utile per 3,6 milioni di euro (si veda articolo nell'altra pagina). Il Cda ha già deliberato l'avvio dell'aumento di capitale da 270 milioni, il cui lancio è previsto tra settembre e ottobre 2015.

In movimento è anche Cassa Centrale Banca che, nell'ambito di un piano - alternativo a quello di Federcasse - che la vede a capo di una holding in cui confluirebbero una 90ina di banche cooperative di tutta Italia (di cui una 40ina di banche rurali trentine), prevede una maxi capitalizzazione da 1 miliardo di euro: di questi, circa 450 milioni di euro deriverebbero da un aumento di capitale offerto a investitori esterni e a soci delle rurali. Un po' più basso - attorno ai 100 milioni - l'impegno finanziario messo in conto daVolksbank, che ha appena acquisito Pop. Marostica. L'operazione sarà realizzata entro la fine dell'anno e ad essa sarà affiancata la trasformazione in Spa.

I nodi da risolvere
Dal Nord-Est al Centro Italia. Perchè è qui che si gioca una delle partite più impegnative per il settore bancario italiano. Banca Marche è in cima alla lista degli istituti nel mirino della Vigilanza. Oggi gli uomini del Fondo interbancario sono al lavoro per trovare una soluzione che possa portare al risanamento la banca commissariata da tempo da Banca d'Italia: si prospetta comunque un fabbisogno vicino al miliardo di euro. Lo schema finale per l'istituto di Jesi potrebbe non essere molto diverso da quello messo in atto per il salvataggio di un'altra banca in dissesto, Cassa di Risparmio di Ferrara: in quest'ultimo caso, il Fitd stesso interverrà - come approvato nelle scorse settimane dall'assemblea dei soci - iniettando 300 milioni di euro freschi. I soldi andranno a ripianare le perdite accumulate negli anni e permetteranno al Fondo di diventare il principale azionista della banca. A questa somma, si aggiungono altri 56,7 milioni di aumento riservati ai portatori dei warrant.

Ma non basta. Perchè sul tavolo del Fitd potrebbe finire anche un altro dossier che in questi mesi è rimasto sotto traccia, anche perchè più recente: si tratta di Banca Etruria, anch'essa sotto la tutela di Palazzo Koch. Dopo aver riportato una perdita di oltre 520 milioni nel 2014, la banca aretina ha bisogno di capitali freschi per rimpinguare un patrimonio sotto i minimi regolamentari. E, anche in questo caso, si parla di un fabbisogno di capitale rilevante: circa mezzo miliardo di euro.

.@lucaaldodavi

rassegna stampa: il sole24ore 18 agosto 2015
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2015-08-18/banche-le-non-quotate-attesi-aumenti-5-miliardi--100507.shtml?uuid=AC2pl6i

Banche, la Bce allunga i tempi per revisione "modelli di rischio"

Previsti inizialmente in due anni, la riforma dei "risk model" - che prevede anche di uniformare gli oltre 7mila documenti ora esistenti - viene spostata in avanti di altri due. Ma potrebbero non bastare. Le conseguenze per le banche italiane

Banche, la Bce allunga i tempi per revisione "modelli di rischio"          MILANO - Quattro anni invece di due. Ma potrebbero anche non bastare data la complessità delle procedure che devono essere cambiate. La Banca Centrale Europea avrebbe concesso una dilazione sostanziosa dei tempi entri i quali gli istituti di credito dell'Eurozona devono modificare i "modelli di rischio" per raggiungere più adeguati livelli patrimoniali ed evitare così rischi sistemici. Come quelli che si sono verificati negli anni passati e hanno dato vita al cosiddetto credit crunch. In pratica, la stretta sui prestiti alle imprese e alla famigli, uno dei fenomeni che si è innescato nella recessione alimentandola a sua volta.

La revisione dei modelli di rischio è stata imposta dalla Bce per aumentare l'efficacia dei controlli. Ma soprattutto di renderli omogenei e il più possibile uniformi in tutta l'eurozona. Ma la complessità è tale che il tempo inizialmente concesso dalle autorità di Francoforte non sarà sufficiente. E si è così pensato di passare, almeno, a un suo raddoppio. Lo rivela una indiscrezione pubblicata dal sito del Financial Times, che cita un documento interno alla Bce. Secondo il quotidiano finanziari britannico, le 123 banche che si trovano sotto la supervisione dell'Eurotower avrebbero oltre 7000 modelli interni. La revisione - che ha avuto inizio nel novembre dell'anno scorso -  ha principalmente lo scopo di eliminare le anomalie tra le banche europee per quanto riguarda il calcolo degli asset ponderati per il rischio (rwa).

Ma di cosa si tratta esattamente e che conseguenze potrebbe avere per le banche italiane?  In sostanza, la revisione andrà a penalizzare quelle banche che utilizzano modelli più "aggressivi",

ovvero meno prudenti nella valutazione. Secondo gli addetti ai lavori, le banche italiane non dovrebbero essere colpite ma avvantaggiate, visto che in quanto il loro modelli sono sempre stati improntati  ad asset ponderati per il rischio superiori alla media.

rassegna stampa: la Repubblica 17 agosto 2015
 http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/08/17/news/banche_la_bce_allunga_i_tempi_per_revisione_modelli_di_rischio_-121116264/




domenica 16 agosto 2015

Beatrice Lorenzin: "Se non aiutiamo le famiglie per il welfare sarà un disastro"

Il ministro della Salute: "Abbiamo due problemi principali, la burocrazia e la scarsa attenzione alla conciliazione tra lavoro e figli"

 
 
Beatrice Lorenzin: "Se non aiutiamo le famiglie per il welfare sarà un disastro"  
       ROMA - Non si tratta solo dei congedi parentali. Secondo Beatrice Lorenzin, ministro della Salute e madre di due gemelli di due mesi, Francesco e Lavinia, la questione va affrontata in maniera globale: non è solo un problema delle donne, e neanche dei genitori, se non si aiutano le famiglie con figli "tra 20 anni ci sarà un numero drammaticamente basso di giovani che lavorano e pagano i contributi" con conseguenze disastrose sul welfare.

Anche quando le norme vengono finalmente approvate, non vengono attuate, il caso dei congedi parentali a ore è emblematico.
"In questa vicenda ci sono due ordini di problemi: uno riguarda il modo in cui in Italia vengono attuate le norme, la lentezza della burocrazia, e l'altro la sottovalutazione delle questioni legate alla cura dei bambini. Comunque ho visto che il ministro Poletti è intervenuto per sbloccare la procedura e sono sicura che, come ha annunciato nel comunicato diffuso oggi, con l'approvazione del decreto sugli ammortizzatori sociali le norme, finora introdotte in via sperimentale, entreranno a regime anche per i prossimi anni. Però non basta: il tema vero è quello di un piano nazionale per combattere la denatalità, io ho cominciato dal punto di vista sanitario con il piano sulla fertilità".

A quali interventi pensa in particolare?
"Il tema della denatalità va visto come questione culturale, sociale ed economica. Un Paese come il nostro con una media di 1,3 figli per donna rischia uno svuotamento che già tra vent'anni non ci permetterà di affrontare il welfare. Bisogna prendere consapevolezza del problema e cominciare ad affrontarlo in modo concreto, anche il decreto Poletti va nella direzione giusta".

Neanche il decreto Poletti però innova abbastanza sotto il profilo della flessibilità: in Italia le norme di tutela delle donne in gravidanza sono troppo rigide, però poi dopo quando i bambini crescono si fa troppo poco.
"Infatti io penso per la maternità a un monte mesi che ogni donna dovrebbe avere la possibilità di giocarsi come vuole. La rigidità in origine era una forma di tutela, però certo adesso norme di questo tipo sembrano deconte-stualizzate, in un'epoca in cui si lavora con iPad e conference call. Servono meccanismi di flessibilità che tutelino al contempo le donne, ma c'è anche un problema di prospettiva: la maternità deve diventare un patrimonio della comunità. L'assenza di bambini ha portato alla diminuzione della sensibilità sociale, una volta erano in tanti a occuparsi dei piccoli, le mamme non venivano lasciate sole. Nel resto del mondo va in un altro modo, ci sono anche top manager con tre-quattro figli".

Da noi invece c'è il tasso di occupazione femminile più basso della Ue con l'eccezione di Malta.
"Quello sull'occupazione femminile è un dato drammatico, con una differenza enorme tra Nord e Sud. Noi sappiamo benissimo che se tutte le donne lavorassero ci sarebbe un balzo enorme della crescita. Come Ndc abbiamo presentato il disegno di legge "Family Act", un poderoso piano di interventi per 8 miliardi di euro a favore della famiglia che prevede molte misure di conciliazione".

Flessibilità significa anche coinvolgere di più i padri.
"Le leggi attuali prevedono anche i congedi per i padri: se non li prendono perché
è un disvalore, il problema è culturale. Quando si parla della questione femminile a volte sembra che si tratti di qualcosa di superato, e invece è ancora una lotta quotidiana, che si sta vincendo, però la parità è ancora lontana".
 
rassegna stampa: la Repubblica 14 agosto 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/08/14/news/_se_non_aiutiamo_le_famiglie_per_il_welfare_sara_un_disastro_-120946782/ 


venerdì 14 agosto 2015

Deutsche Bank accusata di riciclaggio in Russia

Una nuova tegola finanziaria compresa tra i 500 e i 900 milioni di euro potrebbe abbattersi sulla banca tedesca per alcune vicende relative a fughe di capitali all'estero e gestioni di denaro sporco

Deutsche Bank accusata di riciclaggio in Russia      MILANO - Deutsche Bank potrebbe dover pagare una multa tra 500 e 900 milioni di euro per riciclaggio in Russia. Lo scrive il quotidiano tedesco 'Handelsblatt', che cita fonti vicine ai negoziati secondo cui questa nuova penale "potrebbe essere vicina allo scandalo del libor per qualità" e metterebbe in discussione il cambiamento di cultura all'interno della banca tedesca. Il giornale aggiunge che il nuovo caso mette in luce il fallimento dei controlli interni di Deutsche Bank e indica che i controlli non riguardano solo possibili casi di riciclaggio, ma anche eventuali fughe di capitali e violazioni di sanzioni americane. Non si prevede una multa da 2,2 miliardi di
euro come nel caso del libor, ma il dipartimento del direttore finanziario Marcus Schenk, secondo le prime stime, afferma 'Handelsblatt', ritiene possibile che la banca dovrà pagare un'ammenda "pari a una somma a tre cifre in milioni di euro molto elevata".

rassegna stampa: la Repubblica  14 agosto 2015
 http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/08/14/news/deutsche_bank_accusata_di_riciclaggio_in_russia-120972473/

giovedì 13 agosto 2015

Hai debiti? Facebook lo saprà

Depositato un discusso brevetto: potranno essere in vendita informazioni personali finanziarie


Hai debiti? Facebook lo saprà      PARIGI - Facebook potrebbe presto diventare anche il nostro giudice finanziario. Un brevetto depositato il 4 agosto scorso negli Stati Uniti autorizzerebbe il social network a raccogliere tutte le informazioni personali e quelle dei nostri amici e di rigirarle, dietro pagamento, a chiunque ne faccia richiesta. Informazioni di carattere finanziario, soprattutto, che consente a banche, istituti, società di credito di capire se siamo "affidabili".

Non è un segreto. Da anni sono sorti molti siti specializzati nel campo. Ma, come osserva"Libération", la novità è un'altra: forse più grave. Perché subdola e ambigua. La raccolta delle informazioni viene spacciata come pubblicità a pagamento. Molti potrebbero pensare ad una forma di promozione personale sulle nostre qualità e attitudini professionali. Ma secondo le regole contenute nel brevetto lo scopo è chiaramente legato ai nostri comportamenti finanziari: quanti debiti contraiamo, se li saldiamo, se siamo stati protestati, se abbiamo acceso mutui, se siamo in regola con le rate. Non solo noi. I nostri amici, con i loro comportamenti, offriranno un quadro molto più ampio e in base alle loro caratteristiche di affidabilità potremmo vederci rifiutare o accettare un prestito.

Il testo è contenuto in un brevetto creato nel 2010 quando venne acquisito uno dei social più antichi della rete, Friendster. Il sito SmartUpLegal è stato il primo a sottolineare la capziosità del contratto, le sue incongruenze e i rischi effettivi di violare la nostra privacy, condizionandola tra l'altro al comportamento dei nostri amici di cui non siamo certo responsabili. Misurare la propria affidabilità finanziaria sulla base dello "storico" di centinaia se non migliaia di fans non è proprio il mezzo più obiettivo e razionale. Sottolinea il sito: "Se un individuo chiede un prestito, il creditore esamina i passati custoditi nelle pagine dei membri che hanno aderito alla sua pagina sulla base di una clausola a cui si aderisce sottoscrivendo un contratto di promozione pubblicitaria. Se la media dei comportamenti creditizi raggiunge il minimo allora il creditore decide di esaminare più nel dettaglio la richiesta. Se la media è sotto la soglia la domanda è respinta".

Le banche e gli istituti finanziari hanno canali ben più ampi e diretti per controllare la nostra affidabilità. Esiste la centrale rischi, il circuito interbancario, la black list dove si viene subito segnalati in caso di insolvenza o mancato pagamento delle rate di un prestito. Ma il brevetto comprato da Facebook potrebbe servire a piccole società di credito o singoli che prestano denaro per capire chi è in grado di

pagare. Se poi è la prima volta che chiedi un prestito e su di te non ci sono precedenti utili, saranno gli amici e le loro storie personali a decidere se la tua pratica va in porto. Un invito alla diffidenza: persino sulla storia finanziaria chi ti chiede amicizia su Facebook.

rassegna stampa: la Repubblica 9 agosto 2015

mercoledì 12 agosto 2015

Bankitalia: a giugno meno prestiti e mutui più cari

Si riduce il calo dei prestiti bancari, ma passano in positivo quelli alle famiglie, per la prima volta dall'agosto 2012. Secondo la Banca d'Italia i finanziamenti ai privati sono calati dell'1% contro il -1,2% di maggio. Tassi per l'acquisto della casa salgono oltre il 3%

Bankitalia: a giugno meno prestiti e mutui più cari     MILANO - Più depositi e meno prestiti. A giugno non cambia la dinamica del risparmio degli italiani che ancora non vedono l'uscita dal tunnel della crisi. Come detto il tasso di crescita sui dodici mesi dei depositi del settore privato è stato pari al 3,8% (3,7% a maggio), mentre la raccolta obbligazionaria, includendo le obbligazioni detenute dal sistema bancario, è diminuita del 18,3% su base annua (-18,1% nel mese precedente).  Lo rileva la Banca d'Italia nella nota sulle principali voci dei bilanci bancari.

L'altro lato della medaglia la contrazione dei prestiti su base annua: "A giugno - scrive Banca d'Italia - i prestiti al settore privato corretti per tener conto delle cartolarizzazioni e degli altri crediti ceduti e cancellati dai bilanci bancari, hanno registrato una contrazione su base annua dell'1 % (-1,2 per cento a maggio)". E ancora: "I prestiti alle famiglie sono aumentati dello 0,1% sui dodici mesi (nel mese precedente si erano contratti dello 0,1%); quelli alle società non finanziarie sono diminuiti, sempre su base annua, dell'1,6% (-1,9% a maggio)". Stabile al 14,7% il tasso di crescita sui 12 mesi delle sofferenze.

In aumento "i tassi d'interesse, comprensivi delle spese accessorie, sui finanziamenti erogati nel mese alle famiglie per l'acquisto di abitazioni" che sono stati pari al "3,01% (2,91 nel mese precedente); quelli sulle nuove erogazioni di credito al consumo sono stati pari all'8,13% (8,40% a maggio). I tassi d'interesse sui nuovi prestiti alle società non finanziarie di importo fino a 1

milione di euro sono risultati pari al 2,88% (3% nel mese precedente); quelli sui nuovi prestiti di importo superiore a tale soglia all'1,69% (1,61% a maggio). I tassi passivi sul complesso dei depositi in essere sono stati pari allo 0,61% (0,67% nel mese precedente)".


rassegna stampa: la Repubblica 11 agosto 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/08/11/news/bankitalia_prestiti-120790234/

martedì 11 agosto 2015

Insegnamenti per l'economia mondiale dalla “piccola Grecia”

Si è rilevata ancora una volta l’incapacità della politica di governare l’economia

In questo luglio 2015 si è concluso l’ennesimo capitolo del “caso Grecia”, che, è importante  non dimenticare, scoppiò nel maggio 2010, all’indomani della Grande Recessione mondiale 2008/2009.
Si tratta chiaramente di un capitolo di un libro ancora lontano dall’essere giunto alla conclusione.  Se da un lato è stato infatti scongiurato il default dello Stato ellenico con un nuovo salvataggio, dall’altro è evidente che siamo molto distanti dall’aver individuato  un percorso economico che porti la Grecia fuori dall’emergenza.
L’accordo Grecia-Troika (UE, FMI, BCE) si è alla fine trovato, ma, come avrebbe detto Keynes, si tratta di una “pace cartaginese”.
Nel 1919 Keynes, delegato del Ministero del Tesoro  britannico, abbandonò polemicamente la Conferenza di pace di Versailles, sostenendo che le eccessive riparazioni di guerra imposte alla Germania avrebbero condotto questo Paese ad una gravissima crisi economica senza per altro produrre alcun sostegno alla depressione post-bellica dei Paesi vincitori.
Keynes sosteneva che in quella conferenza nessuno aveva posto attenzione al “fondamentale problema economico di un’Europa che languiva di fame  e si sgretolava davanti ai loro occhi”. (…) “chiedendo l’impossibile hanno sacrificato la sostanza all’apparenza, e alla fine perderanno tutto”.
A questo punto è sicuramente difficile fare previsioni sugli sviluppi del “caso Grecia”. L’esito dipenderà sia dalle successive scelte di politica economica dell’Europa ma anche dall’evoluzione dell’economia mondiale attualmente “alle prese” con ben più gravi, almeno per le dimensioni in gioco, pericoli  (in particolare il rallentamento della Cina e il possibile scoppio della bolla finanziaria presente in questo stesso Paese).
Ma, fin da ora, possiamo trarre almeno due significative riflessioni.

  • La politica economica europea tende a confondere “riforme strutturali” e “tagli di spesa pubblica”. Le prime, sicuramente in alcuni casi necessarie soprattutto in alcuni Paesi  (è difficile negare che le legislazioni relative al mercato del lavoro e welfare richiedano profonde revisioni alla luce dell’evoluzione del sistema economico mondiale) non coincidono con i secondi.  I tagli di spesa  devono  tenere in grande considerazione anche il momento congiunturale in cui dovrebbero essere attuati. È infatti proprio la contrazione dell’economia ad essere il principale ostacolo all’attuazione di un piano di riforme.
  • Il più grande fallimento dell’economia di mercato del II Dogoguerra (“crisi subprime”) in particolare nel suo ambito finanziario, è stato trasformato dalla narrativa neoliberista in un problema di eccesso di spesa pubblica. La grande crisi provocò un tentativo di governance  mondiale dell’economia sugellato dal neo-nato G20  (Londra aprile 2009), che diede fondamento politico alle politiche antirecessive già attuate e da attuare per evitare il crollo dell’economia mondiale.
Di quel tentativo non rimane nulla se non nelle specifiche politiche economiche realizzate nelle diverse aree economiche del pianeta.
Sappiamo che soprattutto Europa e Stati Uniti hanno preso strade assai differenti. Ma al di là dei risultati, il “deficit democratico” segnalato dall’incapacità della politica di governare l’economia, oggi più di allora, rimane una ferita aperta sul futuro dell’economia mondiale.
E “la piccola Grecia” è lì a dimostrarlo.

di Alberto Berrini


rassegna stampa: http://www.fiba.it/nazionale/news/insegnamenti-per-l2019economia-mondiale-dalla-201cpiccola-grecia201d

"Le banche del sud Europa in difficoltà vendono bond ai clienti"

Secondo un reportage del Wall Street Journal "quando gli investitori istituzionali  non comprano o chiedono prezzi più bassi" gli istituti di credito li piazzano ai correntisti. Che con la crisi del debito sovrano ci hanno perso. I casi di Spagna Portogallo e Italia


MILANO - Si dirà: una pratica che in Italia c'è sempre stata e che è considerata perfettamente legale. Anche se Bankitalia - che vigila non solo sulla consistenza patrimoniale degli istituti di credito ma anche su quanto accade ai conti correnti degli italiani - ha promesso nuove e più stringenti regole. Ma sono pratiche non così scontate nel mondo anglosassone, tanto da "scandalizzare" anche la bibbia della finanza americana. Il Wall Street Journal - con un servizio cui hanno lavorato i corrispondenti da Lisbona, Madrid e Milano - spiega ai suoi lettori la pratica consolidata da parte delle banche dei paesi del sud Europa di vendere azioni e/o obbligazioni ai propri correntisti quando ci sono operazioni di rafforzamento del capitale. E, soprattutto, quando gli investitori istituzionali non vogliono comprare i prodotti che vengono loro offerti oppure se ritengono che lo siano a prezzi eccessivamente alti.

Ecco, allora, che scatta l'operazione "vendita allo sportello". Il Wsj racconta così la trasformazione dell'impiegato di banca che diventa piazzista e viene "invitato" dai suoi responsabili a piazzare aumenti o nuove emissioni. Tutto legale e quindi tutto bene? Sulla prima parte abbiamo già detto. Sulla seconda è lo stesso Wall Street Journal a sottolineare come da un lato ci sia un evidente conflitto di interesse e dall'altra come gli investitori spinti a scommettere sui prodotti della "loro" banca in più di un caso di abbiano rimesso.

Il quotidiano statunitense cita, per esempio, Bankia in Spagna e Banco Espirito Santo in Portgallo: in entrambi i casi, i risparmiatori hanno seguito le disavventure dei due istituti. Nella penisola iberica il rapporto di fiducia e correntista è consolidato, visto che il 55 per cento dell'azionariato del Banco Sabadell è composto da piccoli risparmiatori. Per l'Italia, l'articolo cita i casi di Veneto Banca e e Popolare di Vicenza: "Gli impiegati della banca - si legge nell'articolo - avevano promesso che le azioni messe in vendita non avrebbero perso di valore perché i due istituti non sono quotati in Borsa". Una precauzione che non è bastata a metter al riparo gli investitori. Per non dire dell'altra pratica tipica per la vendita di prodotti bancari ai clienti: aspettare almeno un mese prima di veder liquidata la propria posizione.

Il WallStreet Journal, infine, tiene a evidenziare come tali pratiche siano ben poche seguito negli Usa e in Inghilterra. E come, in seguito alla crisi finanziaria iniziata nel 2007, i regolatori europei abbiano fissato al 2017 la possibilità di mettere al bando queste pratiche. Che poi la crisi finanziaria mondiale sia nata per le pratiche spregiudicate delle banche anglosassoni è un'altra storia.
 


lunedì 10 agosto 2015

Crisi non è finita, male ricavi e lavoro R&S Mediobanca: 70% prodotto estero su estero, ko credito banche

(ANSA) - MILANO, 10 AGO - Per le grandi imprese che producono in Italia nel 2014 le vendite sono scese del 2,2%, del 4,3% sul solo mercato interno, con l'occupazione in calo dell'1%. Lo dice un rapporto di Ricerche & Studi di Mediobanca, con stime per il 2015 non molto diverse: il miglioramento più probabile è nei soli investimenti. Il 70% di quanto prodotto è 'estero su estero' perché in Italia la redditività è la metà di quella oltreconfine, mentre in 3 anni lo stock di crediti bancari è sceso di 15,8 miliardi.
   
rassegna stampa : ansa _ 10 agosto 2015
http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2015/08/10/crisi-non-e-finita-male-ricavi-e-lavoro_7d8df61f-dc41-40e7-8db3-17fd668075be.html

R&S Mediobanca, la crisi pagata dai lavoratori

Indagine Mediobanca sul lungo periodo: l'occupazione ha sofferto molto e non ha ancora recuperato i livelli pre-crisi, del 2008. Ma le medie imprese hanno reagito meglio, come forza lavoro ma anche come fatturato, cresciuto nel 2014 del 3,4% in più rispetto ad allora. La "ritirata" delle banche, sostituite dai bond

 MILANO - L'industria italiana paga ancora il conto della crisi, rispetto ai livelli del 2008, ma si vedono i primi segnali di ripresa e qualche spunto positivo, anche se non per tutti. A pagare di più gli anni difficili è stata l'occupazione, che dal 2008 a fine 2014 ha perso l'8,5% degli addetti tra gli operai e il 2% tra i colletti bianchi.




Dati Cumulativi di 2055 imprese, Anno 2015. Variazione % degli organici, 2014-2008

La fotografia è stata scattata dell’Ufficio Studi di Mediobanca, che ha preso in considerazione 2055 società italiane industriale e terziarie di grandi e media dimensione, nel decennio 2005-2014.  Fanno parte del campione tutte le imprese con più di 500 dipendenti e circa 20% di quelle di medie dimensioni (da 50 a 499 addetti). Complessivamente, il campione rappresenta il 50% del fatturato industriale e manifatturiero italiano e il 35% di quello dei trasporti e Gdo.

Partendo dall’occupazione, il bilancio non è positivo: il dato complessivo del 2014 è sotto dell’8,5 rispetto all’inizio della crisi, ma c’è chi fa peggio (il settore manifatturiero, che perde il 12,3% di tute blue) mentre le imprese di maggiori dimensioni “limitano” il calo al 10,2%. Però qualcuno resiste meglio: le medie imprese, ad esempio, perdono “solo” l’1,4% dell’occupazione, e registrano un incremento del 6,6% dei colletti bianchi. Solo il terziario registra una crescita dei dipendenti tra le tute blue (+10,2%).

Guardando la situazione dal punto di vista del giro d’affari, sono ancora le medie imprese a segnare un punto a loro favore, con una variazione positiva del fatturato 2014-2008 del 3,4% mentre le medio-grandi cedono il 5,4% e il totale il 4,3%. Peggio di tutti hanno fatto le aziende a controllo estero, meno 7,3%.



Dati Cumulativi di 2055 imprese, Anno 2015

Sotto il profilo della redditività, nell’arco di tempo 2014-2007 il margine operativo netto si è ridotto di un quarto (-25,5%) con un picco di -45,7% per le imprese maggiori e una ripresa quasi totale delle medie imprese (-0,7%). Tuttavia l’ultimo anno ha segnato un netto miglioramento del quadro: +2,5% rispetto al 2013, con le imprese medio-grandi che avanzano del 21,3% e quelle pubbliche che guadagnano il 23,8% (ma +4% senza considerare l’Eni).

Infine da registrare la ritirata delle banche dal mondo industriale: il debito finanziario delle 2055 imprese considerate è calato tra il 2012 e il 2014 di 11,2 miliardi ma quelli bancari in particolare sono diminuiti di ben 15,8 miliardi e ormai rappresentano il 29,1% del debito (erano il 37,1 nel 2005). Nell’ultimo biennio le imprese si sono finanziate in forme alternative, soprattutto obbligazioni (9,7 miliardi in più).

rassegna stampa: la Repubblica -


domenica 9 agosto 2015

Allarme Istat: calano le aziende che creano lavoro

La società con dipendenti sono un terzo del totale, ma impiegano l'80% degli addetti. Per l'Istituto di Statistica, però, sono diminuite del 3% a 1,5 milioni

Allarme Istat: calano le aziende che creano lavoro    MILANO - In Italia diminuisce ancora il numero delle imprese che creano lavoro, reale motore dell'economia. L'Istat, che parla di aziende attive con dipendenti (escluse la pubblica amministrazione e l'agricoltura), stima un calo del 3% nel 2014 sul 2013, con il totale sceso a 1 milione 540 mila. Cala anche, ma con ritmo meno accentuato, l'occupazione: 13 milioni di addetti (-1,4%). Nella nota metodologica che accompagna il dossier dell'Istituto di statistica, si sottolinea, infatti, come le imprese attive con dipendenti siano "il core del sistema produttivo nazionale".

Come è noto le imprese con dipendenti sono solo una parte, circa un terzo, del totale, fatto per lo più di realtà condotte da un unico soggetto, che magari si avvale della collaborazione di lavoratori autonomi. Ma la gran parte dell'occupazione si deve alle imprese con dipendenti, che da sole spiegano l'80% del totale degli addetti (appunto poco più di 13 milioni, di cui oltre 11 milioni dipendenti).

Guadando alla dimensione d'impresa, la riduzione maggiore si registra per la classe 1-9 addetti (-3,2%). In particolare l'Istat evidenzia "il forte calo" del numero delle imprese con 100-249 addetti nelle costruzioni: -8,8%. L'Istituto, che ha pubblicato i dati sul sui sito, tiene a precisare come le cifre siano il risultato di una stima anticipata e ricorda che la rilevazione

non comprende i settori dell'agricoltura, della Pubblica Amministrazione e del non profit. Gli ultimi dati consolidati, relativi al 2013, sono stati diffusi a dicembre dello scorso anno e mostravano un calo nel numero delle imprese attive con dipendenti ancora più forte, pari al 3,7% .

rassegna stampa: la Repubblica 8 agosto 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/08/08/news/istat_lavoro-120627174/

sabato 8 agosto 2015

«UniCredit più forte sul capitale con la crescita dei profitti»

(imagoeconomica)       «UniCredit è in grado di generare capitale organicamente. L’abbiamo fatto nell’ultimo anno e mezzo, considerato che a marzo scorso eravano al 9,36% di Common equity Tier 1 e oggi al 10,84%, e anche nel corso dell’ultimo trimestre, visto che il nostrio ratio è salito di 30 punti base nonostante la forte volatilità sui mercati. Ora, con l’aggiornamento del piano industriale, stiamo lavorando per metterci in condizioni di rafforzarlo ulteriormente, agendo sui costi e i profitti». Forse anche più dell'utile, pari a 522 milioni nel trimestre, dei conti approvati ieri dal cda di UniCredit è stato il rafforzamento sul capitale a cattruare l’attenzione del mercato, che ha premiato il titolo con un balzo del 6,44%, il più elevato ieri a Piazza affari. «Abbiamo chiaramente dimostrato che i risultati della banca sono solidi e sostenibili», dice il ceo a Il Sole 24 Ore, al termine di un consiglio che ha visto approvata anche la riorganizzazione della prima linea del management.
A settembre inizieranno i colloqui con la Bce nell’ambito dello Srep, al termine del quale a ogni banca verranno indicati i nuovi requisiti minimi di capitale. Come ne uscirà UniCredit?
Sicuramente la Bce si muoverà con una metodologia unica per tutte le banche, e in generale mi aspetto che per il sistema ci sarà un innalzamento dei parametri più che un abbassamento. Per quel che ci riguarda siamo sereni: a parlare sarà il nostro bilancio, che rispetto a un anno fa è solo migliorato, dalla liquidità al capitale, che è cresciuto di 34 punti base in un trimestre pur difficile vista la volatilità innescata dalla crisi greca.
Però sul mercato c'è chi ritiene che dovrete fare un aumento di capitale.
Io non l’ho mai detto.
Perché avete deciso di aggiornare il piano industriale?
Perché le condizioni macroeconomiche sono molto cambiate rispetto a quando l’abbiamo varato un anno e mezzo fa, così com’è cambiata la banca e le richieste da parte della Vigilanza.
Rivedrete i target di utile?
Rivedremo il piano nel suo insieme, perché ovviamente tutto è collegato.
Potrebbero arrivare nuove cessioni o altre operazioni straordinarie?
È un piano organico che non prevede nè cessioni né acquisizioni per ragioni legate al capitale.
C’è chi pensa che possiate comprare Mps...
Non c'è alcun interesse né per il Monte nè per altre banche.
Nel piano agirete sui costi?
Cercheremo le aree dove i possibili recuperi di efficienza sono maggiori.
C’è chi si attende tagli pesanti in Germania, dove il cost/income supera l’80 per cento.
I dati vanno letti con attenzione. In Germania, ad esempio, quel dato è relativo alla sola attività retail: se lo incrociamo con il corporate, si scende al 68%, con un ritorno sul capitale del 9,9%. È la dimostrazione che all’interno di ogni Paese ci sono aree di eccellenza da preservare e alcune inefficienze da sanare.
E in Italia? È in arrivo un nuovo giro di vite sulle filiali?
Il cost/income della rete è al 47%, ciò significa che la banca commerciale italiana è un benchmark per il gruppo.
A proposito, qual è il contributo, oggi, dell'Italia ai conti del gruppo?
La metà del margine operativo lordo di UniCredit è fatto in Italia.
Anche perché, intanto, il flusso dei crediti deteriorati ha iniziato a rallentare veramente.
Nel trimestre, per la prima volta dal 2008, abbiamo registrato nelle sofferenze lorde un flusso netto negativo, perché le partite tornate in bonis hanno superato quelle che si sono deteriorate. È un ottimo segnale.
Le rettifiche, però, restano elevate: nel primo semestre sono cresciute del 2,8% sul 2014. Come lo spiega?
Perché da sempre abbiamo scelto un approccio molto conservativo: abbiamo il coverage ratio delle sofferenze, pari al 52,5%, più alto del sistema, nonostante da due anni e mezzo la crescita dello stock sia inferiore alla media di sistema. Sono scelte che impattano sui risultati di breve periodo, ma migliorano la sostenibilità sul lungo.
Avete effettuato ulteriori cessioni di portafogli di Npl?
Sì, la nostra non core bank ha ceduto un miliardo di asset nel trimestre.
Proprio ieri in Senato è stato definitivamente approvato il decreto che modifica le norme sulle esecuzioni immobiliari e riduce a un anno il termine per la deducibilità delle perdite sui crediti: che cosa vi aspettate adesso?
Se il mercato risponde come ci aspettiamo, dovrebbero avvicinarsi i prezzi di domanda e offerta, e le banche potrebbero assumere una condotta più aggressiva.
Ieri avete approvato anche il riassetto della prima linea del management: che cosa vi ha spinto al cambiamento?

È stata l’occasione per accorciare la catena manageriale, razionalizzando i riporti.
Nella nota ufficiale ieri avete parlato di «divergenze di opinione sulla direzione strategico-orgasnizzativa dell’azienda» con Roberto Nicastro. Che cosa è successo?
Niente di che, semplici discussioni sull’allocamento delle responsabilità all’interno del gruppo. Non a caso con Roberto (Nicastro, ndr) i rapporti restano ottimi. E voglio ringraziarlo davvero per tutto ciò che in questi anni ha fatto per la banca. Così come voglio ringraziare Alessandro Decio e fare gli auguri ai tre vice direttori generali: a Marina Natale, che assume questa nuova responsabilità,a Paolo Fiorentino e Gianni Papa. E al nuovo cro Massimiliano Fossati.
Gianni Papa affiancherà al Cib e alla responsabilità sulla Germania anche Austria e Cee. Perché un perimetro così ampio?
Abbiamo deciso di riunire le deleghe perché c’è un enorme potenziale a livello di cross-selling che va sfruttato. E poi Papa è un manager molto competente e determinato.
Com’è il clima tra gli azionisti?
Personalmente vedo un clima sereno, tra tutti. Certo sappiamo che tocca a noi creare un’attesa positiva sul gruppo e sull’andamento del titolo: è compito del management, e ce ne assumiamo tutta la responsabilità.
Dottor Ghizzoni, la settimana prossima l’Istat uscirà con le previsioni sul Pil del secondo trimestre. Qual è, secondo voi, lo stato di salute del Paese?
Sta migliorando: per ora la nostra stima è di una crescita dello 0,7% ma crediamo si possa arrivare all’1%.
Gli indicatori, però, sono ancora contraddittori.
Siamo alle prese con una crescita che ancora non riesce a fare la differenza sull'economia reale, ma passo dopo passo possiamo arrivare anche a questo risultato. Come UniCredit, con una forte crescita del nuovo credito erogato a imprese e famiglie, stiamo facendo la nostra parte per dare slancio alla ripresa.

rassegna stampa: Il Sole 24 Ore -

 

Il Fondo interbancario avvia il piano salva-banche

Oggi la Cassa di risparmio di Ferrara, domani Banca Marche, dopodomani (forse) Banca Etruria: l’Italia prova a chiudere prima del 2016, quando diventerà operativo il meccanismo del bail-in, alcuni dei salvataggi che per dimensioni e durata più preoccupano il sistema italiano del credito. 
Una sorta di piano salva-banche che vede coinvolti su piani diversi Banca d’Italia, Governo, l’Abi e il consorzio del Fondo interbancario di tutela dei depositi, e che oggi vivrà una tappa importante: alle 10,30, infatti, alla Fiera di Ferrara l’assemblea straordinaria di Carife mette ai voti l’aumento di capitale da 300 milioni, necessario per superare il semi azzeramento del capitale (da 217 a 11 milioni) resosi necessario dopo le pulizie di bilancio effettuate durante il lungo commissariamento. L’aumento è riservato al Fondo interbancario di tutela dei depositi, che nel pomeriggio a Milano ha convocato il suo comitato di gestione per istruire la prossima pratica che attende il Fondo, cioè Banca Marche: in questo caso, si apprende, l’organo guidato dal presidente Salvatore Maccarone dovrà prima appurare lo stato di salute (e quindi il fabbisogno di capitale) della banca con sede a Jesi, e poi verificare quanto e come possa essere utile il precedente Carife.

Per la Cassa l’architettura dell’intervento è rimasta sostanzialmente quella che aveva anticipato Il Sole 24 Ore il 25 aprile scorso: dopo due anni di commissariamento è stato alzato il velo sui conti, che vede 376 milioni di perdite accumulate tra il primo gennaio 2013 e il 31 marzo scorso; l’aumento da 300 milioni servirà a rimettere benzina nel motore dell’istituto e i soci attuali riceveranno warrant convertibili in azioni a partire dal 2018. Entro quella data, si spera, il Fondo interbancario avrà ceduto la banca a un nuovo proprietario: trovarlo sarà il compito del cda che sarà eletto ad aumento avvenuto, nell’autunno prossimo.

Il Fondo ha un ruolo chiave in questa operazione e, analogamente, potrebbe averlo nelle prossime: lo schema prevede l’utilizzo delle risorse che le banche hanno iniziato a versare nell’ambito delle nuove norme europee che hanno stabilito l’istituzione di un fondo nazionale e un altro europeo, e – qualora non sufficienti – il ricorso a prestiti ponte, sempre con le consorziate. Oggi pomeriggio invece si farà il punto su Banca Marche, dove l’ammontare dell’aumento dovrebbe essere compreso tra 800 milioni e un miliardo: a fine 2014 il Fondo aveva deliberato un intervento da 800 milioni di garanzie e 100 di equity, ma all’epoca si pensava che il resto del capitale arrivasse dalle cordata di privati guidata da Fonspa. Se non sfumata, l’ipotesi pare in stand by, così ci sarà da trovare una nuova quadra, che comunque – si apprende – non potrà prevedere un aumento interamente a carico del Fondo: la delibera non sarà adottata oggi, ma nella prossima riunione di settembre. Perché a Jesi i due anni di amministrazione straordinaria scadono a fine ottobre, e senza un piano ben definito Bankitalia non potrà concedere la proroga; nelle prossime settimane, intanto, dovrebbe essere definito il quadro normativo: la legge di delegazione europea contenente le direttive di settore (la Brrd-Bank recovery and resolution directive e la Dgsd-Deposit guarantee scheme directive), approvata a inizio luglio, è ancora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, ma i decreti delegati risulterebbero pressoché pronti (non a caso proprio ieri è partita la consultazione). Aggiornate le norme, saranno anche più chiari gli eventuali impatti a livello di aiuti di stato (costati una procedura d’infrazione dalla Commissione europea sul salvataggio Tercas, tuttora sub iudice) e l’ulteriore replicabilità per altre crisi bancarie: anche se commissariata da soli sei mesi, la prossima a finire sul tavolo del Fondo potrebbe essere quella della Popolare dell’Etruria.
Autore news: 
Marco Ferrando
Fonte: 
Il Sole 24 Ore
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Usa, aziende dovranno comunicare differenza salario tra ad e dipendente medio

Lo stabilisce una nuova norma varata dalla Sec, la Consob americana, destinata a far discutere a lungo, soprattutto in vista dell'interminabile campagna elettorale americana che ha messo il tema della disuguaglianza al centro del dibattito

 MILANO - Più trasparenza e - probabilmente - più motivi d'imbarazzo. Soprattutto ora che le differenze salariali e le crescenti disuguaglianze tra il 99% della popolazione e il restante 1% sono diventati tema di stretta attualità. Un fenomeno cui gli Stati Uniti cercano di porre in qualche modo un freno: d'ora in poi, infatti, le aziende americane saranno tenute a comunicare al mercato la differenza tra il salario del loro amministratore delegato e quello del dipendente medio.

Lo stabilisce una nuova norma destinata a far discutere a lungo, soprattutto in vista dell'interminabile campagna elettorale americana che ha messo il tema della disuguaglianza al centro del dibattito. Con tre voti a favore e due contro (di matrice repubblicana), la Sec, Securities and Exchange Commission - l'equivalente della Consob italiana - ha deciso di adottare una regola che adessa sarà applicata a tutti i gruppi quotati in Borsa. Prevista già dalla riforma finanziaria Dodd-Frank del 2010, la norma è appoggiata da sindacati e da democratici preoccupati delle crescenti inuguaglianze nella società.