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mercoledì 3 agosto 2016
giovedì 14 luglio 2016
Stiglitz: “L’Europa si salva solo se abbandona l’euro” Il Nobel per l'economia torna a criticare la moneta unica
12/07/2016 - Se già lunedì il Fondo Monetario Internazionale aveva denunciato il pericolo di una moneta unica senza futuro ed gli analisti di Societè Generale avevano annunciato la possiblità di uscita dall’Euro di Italia e Francia, ora l’americano premio Nobel per l’economia Josiph Stiglitz
– da anni considerato il guru economico della sinistra Usa – torna a
parlare della moneta unica negli stessi termini in cui lo aveva fatto
Munchau sulle pagine del Financial Times, ossia considerandola un progetto tecnicamente fallito.
“L’Euro è un’istituzione fallita che per salvarsi dovrebbe abbandonare l’ euro”, come Stiglitz ha ribadito nel recente convegno romano in cui si è rivisto l’ ex governatore della Banca d’ Italia Antonio Fazio. Non è certo una novità l’atteggiamento dell’economista, tutt’altro che nuovo a sortite contro corrente (vedi la battaglia contro i trattati commerciali tra Europa ed America, caldeggiati dalle multinazionali Usa).
Già nel 2012 Stiglitz aveva messo in guardia gli europei contro la “trappola”. I governi Ue, denunciava in un intervento al Forum asiatico di Hong Kong, rischiano di “trascinare i loro Paesi nel caos”, sotto la pressione degli interessi della grande finanza. In questo modo, aggiungeva, “l’ Europa sta facendo un grosso favore agli Stati Uniti” facendosi carico di “una crisi insostenibile perché affrontata con la politica dell’ austerità, l’ esatto opposto di quanto necessario”.
L’unica soluzione, è la tesi di Stiglitz, consiste nel ripensare l’architettura finanziaria internazionale. Per prima cosa, però, è importante mandare in soffitta l’euro, prima che un Paese, stremato, non faccia saltare il sistema.
“Fino a quando – si chiede – l’Europa del Sud accetterà un tasso di disoccupazione giovanile del 40%?”. Meglio essere i primi a lasciar la barca che non rischiare di andare a fondo per difendere le speculazioni della grande finanza. Di qui il consiglio avanzato dall’economista nel recente saggio (“L’euro e la minaccia per il futuro dell’ Europa”): per evitare una crisi che sarà tanto politica quanto economica è necessario un passo indietro.
Sulla stessa lunghezza d’onda l’economista europeista francese François Heisbourg, oggi fortemente ostile alla moneta comune. “Euro e solidarietà europea sono come due fratelli siamesi – sostiene- Uno solo dei due potrà sopravvivere. E speriamo che non sia l’ euro, che sta soffocando il Vecchio Continente”.
“L’Euro è un’istituzione fallita che per salvarsi dovrebbe abbandonare l’ euro”, come Stiglitz ha ribadito nel recente convegno romano in cui si è rivisto l’ ex governatore della Banca d’ Italia Antonio Fazio. Non è certo una novità l’atteggiamento dell’economista, tutt’altro che nuovo a sortite contro corrente (vedi la battaglia contro i trattati commerciali tra Europa ed America, caldeggiati dalle multinazionali Usa).
Già nel 2012 Stiglitz aveva messo in guardia gli europei contro la “trappola”. I governi Ue, denunciava in un intervento al Forum asiatico di Hong Kong, rischiano di “trascinare i loro Paesi nel caos”, sotto la pressione degli interessi della grande finanza. In questo modo, aggiungeva, “l’ Europa sta facendo un grosso favore agli Stati Uniti” facendosi carico di “una crisi insostenibile perché affrontata con la politica dell’ austerità, l’ esatto opposto di quanto necessario”.
L’unica soluzione, è la tesi di Stiglitz, consiste nel ripensare l’architettura finanziaria internazionale. Per prima cosa, però, è importante mandare in soffitta l’euro, prima che un Paese, stremato, non faccia saltare il sistema.
“Fino a quando – si chiede – l’Europa del Sud accetterà un tasso di disoccupazione giovanile del 40%?”. Meglio essere i primi a lasciar la barca che non rischiare di andare a fondo per difendere le speculazioni della grande finanza. Di qui il consiglio avanzato dall’economista nel recente saggio (“L’euro e la minaccia per il futuro dell’ Europa”): per evitare una crisi che sarà tanto politica quanto economica è necessario un passo indietro.
Sulla stessa lunghezza d’onda l’economista europeista francese François Heisbourg, oggi fortemente ostile alla moneta comune. “Euro e solidarietà europea sono come due fratelli siamesi – sostiene- Uno solo dei due potrà sopravvivere. E speriamo che non sia l’ euro, che sta soffocando il Vecchio Continente”.
In Italia 4,6 milioni di persone in “povertà assoluta”. In difficoltà un italiano su otto
14/07/2016
roberto giovannini
ECCO COME SI CALCOLA LA POVERTÀ
La soglia per definire la «povertà assoluta», secondo l’Istituto di statistica, non è fissa e immutabile, ma varia a seconda della collocazione geografica, di dove si vive, del numero dei componenti della famiglia. Qui è possibile vedere caso per caso come gli statistici Istat calcolano questo valore, che ad esempio per una famiglia di cinque persone che vivono in una grande città del Nord come Torino è pari per il 2015 a circa 1900 euro mensili.
Tornando ai dati, l’aumento dell’incidenza della povertà assoluta nel corso dell’anno passato è concentrato soprattutto nelle famiglie più numerose. L’aumento della condizione di povertà assoluta è più forte tra le famiglie con 4 componenti (da 6,7 del 2014 a 9,5%), soprattutto coppie con 2 figli (da 5,9 a 8,6%) e tra le famiglie di soli stranieri (da 23,4 a 28,3%), che in media sono più numerose. L’incidenza della povertà assoluta aumenta al Nord sia in termini di famiglie (da 4,2 del 2014 a 5,0%) sia di persone (da 5,7 a 6,7%) soprattutto per l’ampliarsi del fenomeno tra le famiglie di soli stranieri (da 24,0 a 32,1%).
Segnali di peggioramento si registrano anche tra le famiglie che risiedono nei comuni centro di area metropolitana (l’incidenza aumenta da 5,3 del 2014 a 7,2%) e tra quelle con persona di riferimento tra i 45 e i 54 anni di età (da 6,0 a 7,5%). L’incidenza di povertà assoluta diminuisce all’aumentare dell’età della persona di riferimento (il valore minimo, 4,0%, tra le famiglie con persona di riferimento ultrasessantaquattrenne) e del suo titolo di studio (se è almeno diplomata l’incidenza è poco più di un terzo di quella rilevata per chi ha al massimo la licenza elementare).
Si amplia l’incidenza della povertà assoluta tra le famiglie con persona di riferimento occupata (da 5,2 del 2014 a 6,1%), in particolare se operaio (da 9,7 a 11,7%). Rimane contenuta tra le famiglie con persona di riferimento dirigente, quadro e impiegato (1,9%) e ritirata dal lavoro (3,8%).
AUMENTA ANCHE LA POVERTÀ RELATIVA
Anche la povertà relativa - calcolata sulla base di una soglia convenzionale di spesa
per consumi al di sotto del quale una famiglia viene definita povera in termini relativi, ovvero 1.050,95 euro per una famiglia composta da sole due persone - è in aumento. Si passa da 2,654 milioni di famiglie a 2,678 mila, pari al 10,4% delle famiglie residenti, e da 7,815 a 8,307 milioni di persone, ovvero il 13,7% delle persone residenti dal 12,9% del 2014).
Analogamente a quanto accaduto per la povertà assoluta, nel 2015 la povertà relativa è più diffusa tra le famiglie numerose, in particolare tra quelle con 4 componenti (da 14,9 del 2014 a 16,6%,) o 5 e più (da 28,0 a 31,1%). L’incidenza di povertà relativa aumenta tra le famiglie con persona di riferimento operaio (18,1% da 15,5% del 2014) o di età compresa fra i 45 e i 54 anni (11,9% da 10,2% del 2014). Peggiorano anche le condizioni delle famiglie con membri aggregati (23,4% del 2015 da 19,2% del 2014) e di quelle con persona di riferimento in cerca di occupazione (29,0% da 23,9% del 2014), soprattutto nel Mezzogiorno (38,2% da 29,5% del 2014) dove risultano relativamente povere quasi quattro famiglie su dieci.
rassegna stampa - la stampa - 14.07.2016
domenica 3 luglio 2016
Fondo pensioni giapponese perde 45 miliardi di euro
Il Gpif, uno dei più grandi fondi mondiali, ha visto le proprie attività
calare drasticamente a causa del crollo dei mercati: il gestore avrebbe
sbagliato strategia concentrandosi troppo sull'azionario
MILANO - Il Gpif, il mega-fondo pensioni pubblico giapponese, il più grande del mondo, ha perso oltre 5mila miliardi di yen (45 miliardi di euro) nell'esercizio 2015-16, concluso a marzo. Lo rivelano fonti ufficiali, secondo le quali la cifra è stata comunicata nel corso di una riunione interna che verrà divulgata solo il 29 luglio, alla presentazione ufficiale dei bilanci. La perdita si sarebbe concentrata nel trimestre da luglio a settembre, periodo nel quale il fondo sarebbe andato in rosso di 60 miliardi euro. Nel 2014 il fondo ha cambiato strategia portando al 50% cioè raddoppiando, la quota azionaria del suo portafoglio, in precedenza legata soprattutto a titoli obbligazionari a basso rendimento. Durante il trimestre in questione il fondo avrebbe subito forti perdite per le turbolenzein borsa legate al rallentamento dell'economia cinese. Il partito democratico, la principale forza di opposizione, ha accusato il premier Shinzo Abe di aver voluto differire la notizia per non doverne rispondere alle elezioni per il rinnovo del Senato in agenda il 10 luglio.
rassegna stampa- la repubblica - 1 luglio 2016
MILANO - Il Gpif, il mega-fondo pensioni pubblico giapponese, il più grande del mondo, ha perso oltre 5mila miliardi di yen (45 miliardi di euro) nell'esercizio 2015-16, concluso a marzo. Lo rivelano fonti ufficiali, secondo le quali la cifra è stata comunicata nel corso di una riunione interna che verrà divulgata solo il 29 luglio, alla presentazione ufficiale dei bilanci. La perdita si sarebbe concentrata nel trimestre da luglio a settembre, periodo nel quale il fondo sarebbe andato in rosso di 60 miliardi euro. Nel 2014 il fondo ha cambiato strategia portando al 50% cioè raddoppiando, la quota azionaria del suo portafoglio, in precedenza legata soprattutto a titoli obbligazionari a basso rendimento. Durante il trimestre in questione il fondo avrebbe subito forti perdite per le turbolenzein borsa legate al rallentamento dell'economia cinese. Il partito democratico, la principale forza di opposizione, ha accusato il premier Shinzo Abe di aver voluto differire la notizia per non doverne rispondere alle elezioni per il rinnovo del Senato in agenda il 10 luglio.
rassegna stampa- la repubblica - 1 luglio 2016
Stress test della Fed, in difficoltà Santander e Deutsche Bank
Bloccati i piani di remunerazione degli azionisti da parte delle due
filiali americane delle banche europee. Bene gli altri colossi di Wall
Street, il sistema si dimostra più solido di quanto accadde con la crisi
del 2008. Anche il Fmi duro su DB: "Maggior fonte di rischi sistemici"
MILANO - Ci sono due tra le maggiori banche europee dietro la lavagna dei cattivi, secondo la Federal Reserve. Ancora una volta le divisioni americane di Deutsche Bank e Santander non hanno superato gli stress test della Banca centrale americana, vedendosi bocciati i loro piani sui capitali, quelli relativi alla distribuzione di dividendi e al riacquisto di titoli propri. Le grandi banche di Wall Street invece hanno ottenuto il semaforo verde, in seguito al quale sono subito corse a premiare gli azionisti (nel caso di Citigroup, promossa per il secondo anno di fila, la cedola è stata triplicata a 16 da 5 centesimi di dollaro). Soltanto Morgan Stanley ha ricevuto un ok condizionale: pur ottenendo l'approvazione sulla distribuzione degli utili ai soci, il gruppo è stato ripreso per la sua "debolezza" nei suoi processi interni. Per questo dovrà ripresentare il suo piano sui capitali entro il 29 dicembre prossimo rispondendo a quelle mancanze. Se sarà comunque insoddisfatta, allora la Fed potrà congelare i programmi della banca.
Per altro, su Deutsche Bank arriva anche una doccia fredda da parte del Fmi che, alla luce di un'esposizione ai derivati pari a circa quindici volte il Pil tedesco, la considera la maggiore fonte potenziale al mondo di shock esterni per il sistema finanziario nel suo Financial Sector Assessment Program. Nel dettaglio, per il Fondo è "il più rilevante contribuente netto ai rischi sistemici tra le banche di rilevanza sistemica globale, seguita da Hsbc e Credit Suisse". Secondo l'istituto di Washington, inoltre, il sistema bancario tedesco pone il maggior grado di rischi di contagio esterni in proporzione ai rischi interni (seguono Francia, Regno Unito e Usa). "La Germania", si legge nel documento, "ha bisogno di studiare se i suoi piani di risoluzione delle banche sono applicabili, dal punto di vista, ad esempio, della tempestiva valutazione delle attività da trasferire, dell'accesso continuo alle infrastrutture dei mercati finanziari e dalla possibilità delle autorità di assicurare controlli su una banca con tempi di risoluzione di pochi giorni, con l'imposizione, se necessario, di una moratoria". A rendere vulnerabile l'istituto teutonico è la colossale esposizione a derivati, stimata dalla Banca dei Regolamenti Internazionali come superiore a 50 mila miliardi di dollari, una cifra pari a duemila volte la capitalizzazione di mercato dell'istituto.
.
Tornando
agli stress test della Fed, sono stati creati dopo la crisi finanziaria
del 2008 e - quelli diffusi ieri e riguardanti 33 gruppi -
rappresentano il secondo round di stress test dopo quelli della
settimana scorsa. Quelli riguardavano i livelli patrimoniali degli
istituti di credito, ben sopra il minimo considerato accettabile dai
regolatori anche nel caso di una recessione ipotetica. Quelli i cui
risultati sono stati diffusi ieri erano concentrati sulla gestione del
rischio e appunto sulle intenzioni delle banche analizzate in materia di
dividendi e buyback.
Le new entry di quest'anno erano BancWest corp, controllata della francese Bnp Paribas, e TD Group U.S. Holdings, controllata dalla canadese Dominion Bank. Tornando alle divisioni americane di DB e Santander, per la controllante tedesca si tratta del secondo anno di fila di bocciatura mentre per quella spagnola del terzo. Santander è l'unica azienda ad avere fallito gli stress test Usa per una striscia temporale così lunga. La Fed ha citato miglioramenti ma ancora "progressi insufficienti" rispetto al marzo 2015. Di conseguenza le due sussidiarie statunitensi non possono distribuire capitali alle controllanti. In generale, il verdetto degli stress test - ufficialmente chiamati comprehensive capital analysis and review - è positivo per il settore bancario Usa: è ben più solido di otto anni fa. E gli investitori hanno motivo di festeggiare, specialmente dopo il colpo subito nel post Brexit.
rassegna stampa- la repubblica - 30 giugno 2016
MILANO - Ci sono due tra le maggiori banche europee dietro la lavagna dei cattivi, secondo la Federal Reserve. Ancora una volta le divisioni americane di Deutsche Bank e Santander non hanno superato gli stress test della Banca centrale americana, vedendosi bocciati i loro piani sui capitali, quelli relativi alla distribuzione di dividendi e al riacquisto di titoli propri. Le grandi banche di Wall Street invece hanno ottenuto il semaforo verde, in seguito al quale sono subito corse a premiare gli azionisti (nel caso di Citigroup, promossa per il secondo anno di fila, la cedola è stata triplicata a 16 da 5 centesimi di dollaro). Soltanto Morgan Stanley ha ricevuto un ok condizionale: pur ottenendo l'approvazione sulla distribuzione degli utili ai soci, il gruppo è stato ripreso per la sua "debolezza" nei suoi processi interni. Per questo dovrà ripresentare il suo piano sui capitali entro il 29 dicembre prossimo rispondendo a quelle mancanze. Se sarà comunque insoddisfatta, allora la Fed potrà congelare i programmi della banca.
Per altro, su Deutsche Bank arriva anche una doccia fredda da parte del Fmi che, alla luce di un'esposizione ai derivati pari a circa quindici volte il Pil tedesco, la considera la maggiore fonte potenziale al mondo di shock esterni per il sistema finanziario nel suo Financial Sector Assessment Program. Nel dettaglio, per il Fondo è "il più rilevante contribuente netto ai rischi sistemici tra le banche di rilevanza sistemica globale, seguita da Hsbc e Credit Suisse". Secondo l'istituto di Washington, inoltre, il sistema bancario tedesco pone il maggior grado di rischi di contagio esterni in proporzione ai rischi interni (seguono Francia, Regno Unito e Usa). "La Germania", si legge nel documento, "ha bisogno di studiare se i suoi piani di risoluzione delle banche sono applicabili, dal punto di vista, ad esempio, della tempestiva valutazione delle attività da trasferire, dell'accesso continuo alle infrastrutture dei mercati finanziari e dalla possibilità delle autorità di assicurare controlli su una banca con tempi di risoluzione di pochi giorni, con l'imposizione, se necessario, di una moratoria". A rendere vulnerabile l'istituto teutonico è la colossale esposizione a derivati, stimata dalla Banca dei Regolamenti Internazionali come superiore a 50 mila miliardi di dollari, una cifra pari a duemila volte la capitalizzazione di mercato dell'istituto.
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L'apporto delle banche ai rischi sistemici globali, secondo il Fmi
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Le new entry di quest'anno erano BancWest corp, controllata della francese Bnp Paribas, e TD Group U.S. Holdings, controllata dalla canadese Dominion Bank. Tornando alle divisioni americane di DB e Santander, per la controllante tedesca si tratta del secondo anno di fila di bocciatura mentre per quella spagnola del terzo. Santander è l'unica azienda ad avere fallito gli stress test Usa per una striscia temporale così lunga. La Fed ha citato miglioramenti ma ancora "progressi insufficienti" rispetto al marzo 2015. Di conseguenza le due sussidiarie statunitensi non possono distribuire capitali alle controllanti. In generale, il verdetto degli stress test - ufficialmente chiamati comprehensive capital analysis and review - è positivo per il settore bancario Usa: è ben più solido di otto anni fa. E gli investitori hanno motivo di festeggiare, specialmente dopo il colpo subito nel post Brexit.
rassegna stampa- la repubblica - 30 giugno 2016
mercoledì 22 giugno 2016
Il fondo sovrano libico chiede 1,2 mld a Goldman Sachs: "Ha plagiato i nostri gestori con prostitute e viaggi premio"
Il caso all'alta corte di Londra, che presto dovrà pronunciarsi
sull'accusa di avere fatto investire malamente i petrodollari di
Gheddafi. La banca d'affari: "Richiesta inusuale e ambiziosa, che
contesteremo con forza"
MILANO - La questione, che potrebbe fare giurisprudenza nei rapporti commerciali tra i banchieri d'affari e i loro ricchi clienti, è annosa. Le prostitute vanno offerte oppure no? Suona grottesco, ma l'alta corte di Londra tra pochi giorni dovrà stabilire se i rapporti tra Goldman Sachs e il fondo sovrano della Libia di Muhammar Gheddafi sono stati inficiati da prebende e pagamenti di vario tipo, compreso il sesso mercenario secondo l'accusa.
La vicenda risale al 2008, prima della crisi finanziaria, quando la banca statunitense aveva convinto un cliente di riguardo, con dotazione di oltre 60 miliardi, a investire circa 1,2 miliardi di dollari in nove operazioni finanziarie. Andarono tutte malissimo, mentre la banca incamerò almeno 200 milioni di dollari netti per quel lavoro. Ora il fondo sovrano libico ha citato in giudizio Goldman Sachs per "aver cercato impropriamente di costringere il suo personale più naïf a consegnare alla banca ricchezze da investire in prodotti che non capiva, designati per generare grossi profitti a vantaggio della banca", e ha chiesto di riavere i suoi 1,2 miliardi indietro. Goldman Sachs ha replicato che "la richiesta è tanto inusuale quanto ambiziosa, priva di merito e pertando la contesteremo vigorosamente", per il fatto che il fondo "è stato vittima di una crisi finanziaria mai vista prima, e impreventivata dalla maggior parte degli operatori del mondo, non certo della cattiva condotta della banca".
Nella documentazione allegata agli atti di accusa non tutto è cristallino però. La Corte giorni fa ha stigmatizzando lo stage offerto ad Haitem Zarti, fratello del direttore del Fondo Mustafa Zarti, che beneficiò di un tirocinio da 51mila dollari nella banca. Il banchiere di Goldman che all'epoca trattava con i libici, Youssef Kabbaj, non avrebbe badato a spese per fornire a quei nuovi protagonisti della finanza internazionale momenti di formazione e di svago. Si parla di vacanze in Marocco e, almeno in un'occasione, voli in prima classe e soggiorni in hotel cinque stelle a Dubai. In quell'occasione Kabbaj avrebbe procurato, sempre secondo l'accusa che ha mostrato sms con una certa Michella, due prostitute per una serata hot, al prezzo di 600 dollari.
Il fondo Lia ha anche prodotto mail per dimostrare come i banchieri di Goldman Sachs fossero consapevoli dell'ingenuità dei libici e la sfruttassero a loro vantaggio: nelle missive i sistemi bancari di Tripoli sono definiti "giurassici", e "non molto sofisticati: chiunque potrebbe violarli". Uno dei vice presidenti della banca d'affari più esclusiva del mondo avrebbe, inoltre, elogiato un collega con questi termini: "Hai appena venduto obbligazioni strutturate a gente che vive nel mezzo del deserto assieme ai cammelli". Goldman ha respinto ogni accusa, e aggiunto che "la formazione dei clienti e l'ospitalità, negli alberghi oppure nelle gare internazionali di rugby o della Champions League calcistica, sono secondarie caratteristiche delle relazioni tra controparti commerciali", in quanto tali "fanno parte della vita societaria", oltre al fatto che le altre banche d'affari riservarono simili trattamenti agli investitori libici.
rassegna stampa, la repubblica - 18-06-16 di Andrea Greco
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/06/18/news/il_fondo_sovrano_libico_chiede_indietro_1_2_miliardi_a_goldman_sachs_ha_plagiato_i_nostri_gestori_con_prostitute_e_viaggi_-142184889/
MILANO - La questione, che potrebbe fare giurisprudenza nei rapporti commerciali tra i banchieri d'affari e i loro ricchi clienti, è annosa. Le prostitute vanno offerte oppure no? Suona grottesco, ma l'alta corte di Londra tra pochi giorni dovrà stabilire se i rapporti tra Goldman Sachs e il fondo sovrano della Libia di Muhammar Gheddafi sono stati inficiati da prebende e pagamenti di vario tipo, compreso il sesso mercenario secondo l'accusa.
La vicenda risale al 2008, prima della crisi finanziaria, quando la banca statunitense aveva convinto un cliente di riguardo, con dotazione di oltre 60 miliardi, a investire circa 1,2 miliardi di dollari in nove operazioni finanziarie. Andarono tutte malissimo, mentre la banca incamerò almeno 200 milioni di dollari netti per quel lavoro. Ora il fondo sovrano libico ha citato in giudizio Goldman Sachs per "aver cercato impropriamente di costringere il suo personale più naïf a consegnare alla banca ricchezze da investire in prodotti che non capiva, designati per generare grossi profitti a vantaggio della banca", e ha chiesto di riavere i suoi 1,2 miliardi indietro. Goldman Sachs ha replicato che "la richiesta è tanto inusuale quanto ambiziosa, priva di merito e pertando la contesteremo vigorosamente", per il fatto che il fondo "è stato vittima di una crisi finanziaria mai vista prima, e impreventivata dalla maggior parte degli operatori del mondo, non certo della cattiva condotta della banca".
Nella documentazione allegata agli atti di accusa non tutto è cristallino però. La Corte giorni fa ha stigmatizzando lo stage offerto ad Haitem Zarti, fratello del direttore del Fondo Mustafa Zarti, che beneficiò di un tirocinio da 51mila dollari nella banca. Il banchiere di Goldman che all'epoca trattava con i libici, Youssef Kabbaj, non avrebbe badato a spese per fornire a quei nuovi protagonisti della finanza internazionale momenti di formazione e di svago. Si parla di vacanze in Marocco e, almeno in un'occasione, voli in prima classe e soggiorni in hotel cinque stelle a Dubai. In quell'occasione Kabbaj avrebbe procurato, sempre secondo l'accusa che ha mostrato sms con una certa Michella, due prostitute per una serata hot, al prezzo di 600 dollari.
Il fondo Lia ha anche prodotto mail per dimostrare come i banchieri di Goldman Sachs fossero consapevoli dell'ingenuità dei libici e la sfruttassero a loro vantaggio: nelle missive i sistemi bancari di Tripoli sono definiti "giurassici", e "non molto sofisticati: chiunque potrebbe violarli". Uno dei vice presidenti della banca d'affari più esclusiva del mondo avrebbe, inoltre, elogiato un collega con questi termini: "Hai appena venduto obbligazioni strutturate a gente che vive nel mezzo del deserto assieme ai cammelli". Goldman ha respinto ogni accusa, e aggiunto che "la formazione dei clienti e l'ospitalità, negli alberghi oppure nelle gare internazionali di rugby o della Champions League calcistica, sono secondarie caratteristiche delle relazioni tra controparti commerciali", in quanto tali "fanno parte della vita societaria", oltre al fatto che le altre banche d'affari riservarono simili trattamenti agli investitori libici.
rassegna stampa, la repubblica - 18-06-16 di Andrea Greco
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/06/18/news/il_fondo_sovrano_libico_chiede_indietro_1_2_miliardi_a_goldman_sachs_ha_plagiato_i_nostri_gestori_con_prostitute_e_viaggi_-142184889/
Bce, le banche in fila per ricevere il denaro a costo zero (o anche meno)
Oggi le richieste di accesso alla nuova serie di aste agevolate per
sostenere il credito all'economia reale. Gli analisti si aspettano una
domanda intorno a 50 miliardi, al netto dei 370 miliardi di
finanziamenti precedenti da rimborsare. Saranno quattro operazioni e
prevedono tassi negativi per le banche più "virtuose", che accrescono
maggiormente i prestiti.
MILANO - Mario Draghi ha blandito i banchieri con l'offerta di denaro in prestito non solo a costo zero, ma finanche a interesse negativo: la Bce è pronta a pagare le istituzioni finanziare europee per prestar loro dei soldi, purché finiscano veicolati all'economia reale. Ora bisogna capire se queste lusinghe hanno fatto breccia nel cuore degli alti dirigenti di banca. Non sarà facile, infatti, vincere quella massa di eccesso di liquidità che è già presente nel sistema (circa 870 miliardi di euro) e che costa cara, visto che la stessa Bce ha imposto una tassa implicita sui denari lasciati parcheggiati presso i c/c di Francoforte, introducendo tassi sui depositi negativi.
Oggi le banche possono inoltrare alla Bce le richieste per accedere alle nuove aste di finanziamento "targeted", ovvero mirato all'erogazione di prestiti alle imprese. Si tratta del secondo programma di Tltro, un esperimento già condotto nei mesi passati dalla Banca centrale e ora portato ancora un passo più in là: la novità annunciata insieme al rilancio del Quantitative easing (esteso anche alle obbligazioni corporate) riguarda proprio il fatto che il tasso al quale le banche prenderanno a prestito i soldi parte a zero, ma può alla fine diventare negativo. In sostanza, le aste prevedono che il tasso di base sia pari al tasso principale della Bce (che è ora a zero). Ma può scendere fino al livello del tasso sui depositi (ora -0,4%) se le banche faranno crescere il valore dei prestiti legati a questa operazione del 2,5% entro la fine di gennaio 2018: chi presta di più spunta condizioni migliorative. Inoltre, si allunga la scadenza dei prestiti che sono ora di quattro anni.
Venerdì ci saranno i responsi di questa operazione, che però è solo la prima di quattro aste. Anche per questa ragione sarà difficile valutarne l'efficacia. Ma già qualche conclusione si potrà trarre. Nel precedente giro di aste Tltro le banche hanno prelevato 426 miliardi di euro a un tasso basso, ma non ancora azzerato. Per Draghi fu un'operazione "abbastanza di successo". Ora, secondo un recente report firmato da Luca Cazzulani di Unicredit, le banche potrebbero richiedere un ammontare lordo di 400-450 miliardi di euro. Bisogna considerare, ricorda il responsabile della strategia sul reddito fisso della banca italiana, che si aspettano rimborsi delle precedenti aste Tltro per 370 miliardi e quindi le banche dovrebbero rimpiazzare quelle linee di finanziamento con queste nuove, che hanno condizioni migliori. Secondo le stime di Bloomberg, la media degli economisti interpellati indica un prelievo netto (quindi al netto dei rimborsi e rifinanziamenti) di 50 miliardi di euro. Non distante, dunque, dal valore indicato da Unicredit.
rassegna stampa: la repubblica, 22.06.2016 - di Raffaele Ricciardi -
http://www.repubblica.it/economia/2016/06/22/news/bce_le_banche_in_fila_per_ricevere_il_denaro_a_costo_zero_o_anche_meno_-142482136/
MILANO - Mario Draghi ha blandito i banchieri con l'offerta di denaro in prestito non solo a costo zero, ma finanche a interesse negativo: la Bce è pronta a pagare le istituzioni finanziare europee per prestar loro dei soldi, purché finiscano veicolati all'economia reale. Ora bisogna capire se queste lusinghe hanno fatto breccia nel cuore degli alti dirigenti di banca. Non sarà facile, infatti, vincere quella massa di eccesso di liquidità che è già presente nel sistema (circa 870 miliardi di euro) e che costa cara, visto che la stessa Bce ha imposto una tassa implicita sui denari lasciati parcheggiati presso i c/c di Francoforte, introducendo tassi sui depositi negativi.
Oggi le banche possono inoltrare alla Bce le richieste per accedere alle nuove aste di finanziamento "targeted", ovvero mirato all'erogazione di prestiti alle imprese. Si tratta del secondo programma di Tltro, un esperimento già condotto nei mesi passati dalla Banca centrale e ora portato ancora un passo più in là: la novità annunciata insieme al rilancio del Quantitative easing (esteso anche alle obbligazioni corporate) riguarda proprio il fatto che il tasso al quale le banche prenderanno a prestito i soldi parte a zero, ma può alla fine diventare negativo. In sostanza, le aste prevedono che il tasso di base sia pari al tasso principale della Bce (che è ora a zero). Ma può scendere fino al livello del tasso sui depositi (ora -0,4%) se le banche faranno crescere il valore dei prestiti legati a questa operazione del 2,5% entro la fine di gennaio 2018: chi presta di più spunta condizioni migliorative. Inoltre, si allunga la scadenza dei prestiti che sono ora di quattro anni.
Venerdì ci saranno i responsi di questa operazione, che però è solo la prima di quattro aste. Anche per questa ragione sarà difficile valutarne l'efficacia. Ma già qualche conclusione si potrà trarre. Nel precedente giro di aste Tltro le banche hanno prelevato 426 miliardi di euro a un tasso basso, ma non ancora azzerato. Per Draghi fu un'operazione "abbastanza di successo". Ora, secondo un recente report firmato da Luca Cazzulani di Unicredit, le banche potrebbero richiedere un ammontare lordo di 400-450 miliardi di euro. Bisogna considerare, ricorda il responsabile della strategia sul reddito fisso della banca italiana, che si aspettano rimborsi delle precedenti aste Tltro per 370 miliardi e quindi le banche dovrebbero rimpiazzare quelle linee di finanziamento con queste nuove, che hanno condizioni migliori. Secondo le stime di Bloomberg, la media degli economisti interpellati indica un prelievo netto (quindi al netto dei rimborsi e rifinanziamenti) di 50 miliardi di euro. Non distante, dunque, dal valore indicato da Unicredit.
rassegna stampa: la repubblica, 22.06.2016 - di Raffaele Ricciardi -
http://www.repubblica.it/economia/2016/06/22/news/bce_le_banche_in_fila_per_ricevere_il_denaro_a_costo_zero_o_anche_meno_-142482136/
martedì 24 maggio 2016
Lavoro, in Italia il record europeo degli "scoraggiati"
I numeri Eurostat: nella Penisola ci sono 3,55 milioni di persone che non cercano lavoro, pur essendo disponibili a lavorare, o lo cercano ma non sarebbero immediatamente pronti a svolgere mansioni
MILANO - Un "serbatoio" di lavoratori da 3,55 milioni di persone. Sono in gran parte "scoraggiati", italiani tra i 15 e i 74 anni che non hanno fatto un tentativo di cercare un lavoro, o che - in minima parte - hanno cercato lavoro ma non si sono dichiarati immediatamente disponibili a svolgere mansioni. Secondo le statistiche ufficiali di Eurostat, nessuno come l'Italia registra un esercito tanto folto di persone che restano ai margini del mercato del lavoro, non indossando la casacca di occupati e neppure quella di persone in cerca di occupazione.
I numeri sono stati pubblicati in settimana
dall'ufficio statistico europeo e il grafico mostra chiaramente come
l'Italia si distanzi dagli altri Paesi. Nel complesso dell'Unione,
infatti, ci sono 11,4 milioni di lavoratori potenziali, un quarto dei
quali risiede tra le Alpi e la Sicilia. In Germania, giusto per fare il
raffronto con i primi della classe, i lavoratori potenziali sono solo un
milione, il 2,4% della forza lavoro complessiva contro il 14% italiano.
Il bacino si divide in due gruppi: chi è disponibile a lavorare, ma non
lo cerca, e chi cerca ma non è immediatamente disponibile. Il primo
sottogruppo è generalmente più ampio del secondo e questo avviene in
maniera rilevante in Italia, a testimoniare una maggior incidenza di
scoraggiati (senza dimenticare il 'sommerso'). Per altro, si tratta di
un esercito di persone che se si riversasse improvvisamente alla ricerca
di lavoro, non trovando sbocchi, innalzerebbe sensibilmente i valori
del tasso di disoccupazione, che sta lentamente scendendo.
Già altri studi, per esempio del Bruegel, indicavano come la crisi avesse esacerbato il problema tra i giovani: l'Italia vanta il poco gioioso primato dei Neet, ragazzi che non sono né al lavoro né agli studi. Eurostat ha invece quantificato che negli anni della crisi (2008-2015) sono cresciute, nel Vecchio continente, il numero di persone che non hanno cercato lavoro pur volendolo (+1,8 milioni), che aggiungono il già duro trend di crescita dei disoccupati (+6,1 milioni).
Il rapporto di Eurostat non si è limitato a indagare il fenomeno della forza lavoro potenziale, ma ha altresì registrato il numero di lavoratori part-time sotto-occupati, cioè che avrebbero volentieri rimpinguato il loro orario di lavoro. Gli europei a tempo parziale sono 44,7 milioni, due su dieci occupati, e di essi sono ben 10 milioni quelli che la statistica considera forzatamente in quella condizione: quasi un quarto (22,4%) di tutti i lavoratori a tempo parziale e il 4,6% del totale degli occupati. Il problema affligge in modo particolare le donne, che sono i due terzi dei sotto-occupati a tempo parziale. Almeno in questo caso, l'Italia non spicca per i suoi numeri: i sotto-occupati sono 748 mila, il 3,3% degli occupati.
Già altri studi, per esempio del Bruegel, indicavano come la crisi avesse esacerbato il problema tra i giovani: l'Italia vanta il poco gioioso primato dei Neet, ragazzi che non sono né al lavoro né agli studi. Eurostat ha invece quantificato che negli anni della crisi (2008-2015) sono cresciute, nel Vecchio continente, il numero di persone che non hanno cercato lavoro pur volendolo (+1,8 milioni), che aggiungono il già duro trend di crescita dei disoccupati (+6,1 milioni).
PAESE | Disponibile ma non cerca | Cerca ma non disponibile subito | Forza potenziale totale | % di donne | % sulla forza lavoro 15-74 |
---|---|---|---|---|---|
UE | 9 255 | 2 184 | 11 440 | 57% | 4.7% |
Belgio | 86 | 54 | 139 | 53% | 2.8% |
Bulgaria | 215 | 23 | 238 | 46% | 7.1% |
Rep. Ceca | 49 | 16 | 65 | 57% | 1.2% |
Danimarca | 44 | 21 | 65 | 47% | 2.2% |
Germania | 533 | 476 | 1 009 | 52% | 2.4% |
Estonia | 28 | 3 | 31 | 56% | 4.5% |
Irlanda | 23 | 13 | 36 | 45% | 1.7% |
Grecia | 100 | 41 | 141 | 66% | 2.9% |
Spagna | 949 | 220 | 1 169 | 65% | 5.1% |
Francia | 674 | 305 | 979 | 53% | 3.3% |
Croazia | 162 | 12 | 174 | 56% | 9.2% |
Italia | 3 451 | 104 | 3 555 | 60% | 14.0% |
Cipro | 20 | 3 | 22 | 61% | 5.3% |
Lettonia | 43 | 5 | 49 | 53% | 4.9% |
Lituania | 13 | 11 | 23 | 46% | 1.6% |
Lussemburgo | 14 | 8 | 22 | 55% | 7.8% |
Ungheria | 145 | 9 | 154 | 50% | 3.4% |
Malta | 2 | : | : | : | : |
Olanda | 344 | 156 | 500 | 54% | 5.6% |
Austria | 161 | 40 | 201 | 50% | 4.6% |
Polonia | 559 | 103 | 662 | 56% | 3.8% |
Portogallo | 260 | 23 | 283 | 58% | 5.5% |
Romania | 357 | : | : | : | : |
Slovenia | 25 | -4 | 29 | 55%) | 2.9%) |
Slovacchia | 56 | 14 | 70 | 56% | 2.5% |
Finlandia | 141 | 65 | 206 | 48% | 7.7% |
Svezia | 123 | 109 | 231 | 51% | 4.4% |
Uk | 681 | 344 | 1 024 | 54% | 3.1% |
Islanda | 8 | 2 | 10 | 56% | 5.0% |
Norvegia | 72 | 24 | 96 | 47% | 3.5% |
Svizzera | 186 | 55 | 241 | 60% | 5.0% |
Macedonia | : | 7 | : | : | : |
Turchia | 1 824 | 62 | 1 886 | 58% | 6.4% |
Il rapporto di Eurostat non si è limitato a indagare il fenomeno della forza lavoro potenziale, ma ha altresì registrato il numero di lavoratori part-time sotto-occupati, cioè che avrebbero volentieri rimpinguato il loro orario di lavoro. Gli europei a tempo parziale sono 44,7 milioni, due su dieci occupati, e di essi sono ben 10 milioni quelli che la statistica considera forzatamente in quella condizione: quasi un quarto (22,4%) di tutti i lavoratori a tempo parziale e il 4,6% del totale degli occupati. Il problema affligge in modo particolare le donne, che sono i due terzi dei sotto-occupati a tempo parziale. Almeno in questo caso, l'Italia non spicca per i suoi numeri: i sotto-occupati sono 748 mila, il 3,3% degli occupati.
PAEASE | Part-time sotto occupati (in migliaia) | % di donne | % sul totale degli occupati |
---|---|---|---|
UE | 10 005 | 66% | 4.6% |
Belgio | 169 | 71% | 3.7% |
Bulgaria | 26 | 53% | 0.9% |
Rep. Ceca | 30 | 70% | 0.6% |
Danimarca | 66 | 64% | 2.4% |
Germania | 1 553 | 72% | 3.9% |
Estonia | 8 | 67% | 1.3% |
Irlanda | 111 | 54% | 5.7% |
Grecia | 244 | 54% | 6.8% |
Spagna | 1 523 | 67% | 8.5% |
Francia | 1 630 | 73% | 6.2% |
Croazia | 43 | 51% | 2.7% |
Italia | 748 | 60% | 3.3% |
Cipro | 33 | 55% | 9.2% |
Lettonia | 27 | 65% | 3.0% |
Lituania | 23 | 64% | 1.7% |
Lussemburgo | 6 | 75% | 2.5% |
Ungheria | 68 | 55% | 1.6% |
Malta | 4 | 56% | 2.3% |
Olanda | 563 | 65% | 6.8% |
Austria | 182 | 73% | 4.4% |
Polonia | 322 | 63% | 2.0% |
Portogallo | 240 | 63% | 5.3% |
Romania | 268 | 33% | 3.1% |
Slovenia | 31 | 64% | 3.4% |
Slovacchia | 58 | 54% | 2.4% |
Finlandia | 99 | 62% | 4.1% |
Svezia | 213 | 65% | 4.4% |
Uk | 1 718 | 64% | 5.6% |
Islanda | 10 | 65% | 5.2% |
Norvegia | 77 | 68% | 2.9% |
Svizzera | 304 | 74% | 6.6% |
Macedonia | 15 | 32% | 2.1% |
Turchia | 317 | 35% | 1.2% |
mercoledì 4 maggio 2016
Anche il fondo norvegese contro i maxi stipendi dei manager
Il fondo sovrano alimentato
con i proventi del petrolio è uno dei maggiori investitori al mondo.
Fino ad ora, la sua presenza in molte aziende è stata "discreta". Ora il
cambio di bassa: basta remunerazioni inappropriate
MILANO - Nelle loro torri
dorate, i grandi manager dell'economia e della finanza globale
probabilmente stanno iniziando a percepire un po' di pressione sulle
loro buste paga: il Fondo sovrano norvegese, uno dei maggiori al mondo
con i suoi 870 miliardi di dollari di potenza di fuoco (grazie ai
proventi dal petrolio), vuole mettere pressione alle società nelle quali
è presente perché ci sia maggior attenzione nella distribuzione di
bonus e stipendi agli alti dirigenti.
Fino ad ora, il Fondo scandinavo ha assunto una posizione "passiva" nelle società delle quali è diventato azionista; soprattutto in tema di remunerazioni, visto che la situazione scandinava è diversa da quella di Usa o Uk e gli stipendi apicali sono meno pesanti, mentre le differenze con i livelli più bassi molto più sottili. Negli ultimi tempi è diventato più attivo per quanto riguarda le tematiche di governance, cioè la scelta dei componenti del cda. Il cambio di passo che allarga l'attenzione anche ai salari, nota il Financial Times, dovrebbe richiamare l'attenzione di molte le società, visto che la massa di denari a disposizione del fondo potrebbe virtualmente essere azionista all'1,3% di tutte le società quotate del mondo. Quindi il potenziale di pressione, da parte del Fondo, c'è tutto.
Fino ad ora, il Fondo scandinavo ha assunto una posizione "passiva" nelle società delle quali è diventato azionista; soprattutto in tema di remunerazioni, visto che la situazione scandinava è diversa da quella di Usa o Uk e gli stipendi apicali sono meno pesanti, mentre le differenze con i livelli più bassi molto più sottili. Negli ultimi tempi è diventato più attivo per quanto riguarda le tematiche di governance, cioè la scelta dei componenti del cda. Il cambio di passo che allarga l'attenzione anche ai salari, nota il Financial Times, dovrebbe richiamare l'attenzione di molte le società, visto che la massa di denari a disposizione del fondo potrebbe virtualmente essere azionista all'1,3% di tutte le società quotate del mondo. Quindi il potenziale di pressione, da parte del Fondo, c'è tutto.
Il fatto non è certo isolato. Gli azionisti si stanno mostrando sempre più intransigenti verso gli schemi di remunerazione dei manager. In particolare, il livello d'attenzione si sta sollevando nel Regno Unito. Gli investitori che detengono il capitale di Weir Group, ad esempio, solo la settimana scorsa hanno bocciato il piano di pagamento dei manager con una maggioranza in assemblea del 72%. Lo scorso mese è successa una piccola rivoluzione in Bp, quando la fetta maggiore dell'assemblea ha respinto la porposta di far salire del 20% la paga del ceo Bob Dudley. In quell'occasione, però, il fondo aveva votato in favore. Era stato contrario alla politica di remunerazione di Anglo American, ma sostenendo che ci fosse un problema strutturale visto che sarebbero state assegnate troppe azioni ai manager. Ora, secondo quanto sostiene il numero uno del Fondo, Yngve Slyngstad, al quotidiano della City, l'intendimento è di stoppare ogni proposta di remunerazione che sia a un livello non appropriato. Non più, quindi, solo questioni di forma o strutturali, ma anche di sostanza e quindi di peso dell'assegno.
rassegna stampa: la repubblica 2 maggio 2016
domenica 17 aprile 2016
INTERVENTO ALL'ASSEMBLEA DEI SOCI DEL MONTE PASCHI DI SIENA
SIENA, 14 Aprile 2016
Caro
Presidente e Gentilissimi Signori Soci,
formulo
il presente intervento per conto di “Etica, dignità e valori –
Associazione Stakeholders Aziende di Credito Onlus”, che ha come
scopo la promozione della finanza etica e della responsabilità
sociale d'impresa nelle banche.
Lo
scorso anno per offrire un contributo costruttivo nel difficile
passaggio della vita gruppo Mps, ci siamo permessi di avanzare le
seguenti proposte, al fine di valorizzare e perseguire effettivamente
la Responsabilità Sociale, in particolare proponevamo:
- che la banca visualizzi nel suo bilancio sociale i derivati in essere, con l'impegno a ridurne l'utilizzo e la consistenza, affinchè questi siano sempre funzionali ad attività trasparenti di copertura e, non ad attività speculative e poco trasparenti.
“Nel
corso dell'esercizio 2015, il gruppo ha chiuso l'operazione
Alexandria con un impatto derivante alla Riserva AFS negativa sui
titoli di Stato Italia connessi alla detta transazione per – 423
milioni;”
Confidiamo
in un ampia informativa nella
rendicontazione del bilancio sociale.
Proponevamo
- che il Monte nel mantenere i livelli di credito a favore dei suoi territori di radicamento si impegnasse e si impegni a promuovere un nuovo rating di affidabilità creditizia per il cliente prenditore (famiglie ed aziende) che tenga conto degli elementi di Responsabilità Sociale d'Impresa insiti nel valore del progetto imprenditoriale e non solo dei pur fondamentali indicatori economici, finanziari e di garanzie reali o personali sottostanti.
Noi
crediamo che chi abbia un progetto che crei occupazione, che promuove
la tutela dell'ambiente e valorizza la Responsabilità Sociale
d'Impresa vada premiato anche sul fronte della definizione del suo
rating e del suo target di pricing. Infatti,
siamo convinti che non perseguendo queste scelte si faccia poco per
superare questa crisi lo dimostra il persistente periodo di
difficoltà nell’accesso al credito che hanno le nuove generazioni,
le start-up, le famiglie e le imprese.
Le
Banche a vocazione etica (vedi il dato di Banca Prossima ad esempio
che vanta percentuali intorno al 2% di perdite sui crediti erogati
contro una media del sistema intorno al 15%) dimostrano, già oggi,
che valorizzare le buone prassi imprenditoriali e sociali del cliente
prenditore, fa crescere anche la sua affidabilità e lealtà a fronte
agli impegni assunti con la banca.
Nel
corso del 2015 abbiamo organizzato in collaborazione con MPS un
convegno a Firenze proprio su questo importante tema e ci risulta che
MPS abbia incaricato l’Università di Siena di studiare un nuovo
rating di merito creditizio che possa accogliere elementi di Esg
(environmental – social and governance).
Ci
auguriamo pertanto che MPS non si sottragga all'esigenza di studiare
un nuovo rating che premi i comportamenti virtuosi del prenditore di
credito, che possa contribuire da un lato a servire meglio imprese e
famiglie, dall'altro migliorare la qualità del credito erogato con
effetti positivi in termini di minor rettifiche e di conto economico.
Proponevamo
allora e proponiamo oggi
- Che il Monte si sappia relazionare con la dimensione dell'internazionalizzazione, accompagnando da un lato le PMI verso nuovi mercati e dall'altro rafforzando le relazioni internazionali con banche ed istituzioni finanziari dei paesi in via di sviluppo e di nuova industrializzazione al fine di avviare partnership societarie, economiche e finanziarie, al fine di aumentare le relazioni culturali per la promozione di politiche di buon vicinato e di pace.
La
strada della collaborazione tra banche, anche con la costituzione
di appositi consorzi tra Istituti, potrebbe rappresentare una
risposta adeguata per una rinnovata presenza, a costi ridotti, delle
nostre istituzioni finanziarie nelle aree delle economie a più alta
crescita e di nuova industrializzazione.
Banca
MPS potrebbe così valorizzare la sua storica presenza con 125
Filiale ed Uffici di Rappresentanza all'estero.
- La crisi della finanza e l’andamento negativo dei mercati finanziari fa crescere nei risparmiatori la ricerca di prodotti finanziari sicuri, che diano anche un senso all’investimento oltre a guardare il rendimento peraltro sempre piu’ spinto verso lo zero.
Auspichiamo
che il Monte promuova con efficacia la Finanza Sociale.
Il
rapporto OCSE dal titolo “Social Impact Investment. Building the
evidence base”, certifica come il mondo impact investment sarà in
forte crescita nei prossimi anni.
Questo
report è stato sostanzialmente ignorato dal nostro paese e
confidiamo che il Monte possa invece studiare la sua applicazione in
Italia, alla luce anche della riforma in corso del terzo settore e
l’introduzione nella nostra legislazione con l’ultima legge di
stabilità delle società benefit, che potrebbero spingere
maggiormente lo studio di prodotti finanziari dedicati per tali
istituzioni.
Tutto
ciò non è solo un compito indifferibile ma è anche indispensabile
visto se oggi 30 banche nel mondo valgono da sole il 76% del Pil
mondiale (dati Sole24 ore 1 dicembre 2015).
L'ipertrofia
della grande finanza non è stata affatto ridimensionata dalla
crisi. Anzi.
Le
grandi banche d'affari americane valgono al momento complessivamente
da sole quanto il 90% del pil americano. Mentre le prime 4 grandi
banche cinesi sommano esposizioni totali che valgono più del 20% in
più di tutto il Pil cinese.
Anche
la grande finanza inglese e francese insieme totalizzano oltre 3
volte la ricchezza lorda prodotta ogni anno dai 2 paesi Francia ed
Inghilterra. Tutto ciò a scapito della ricchezza e dell'economia
reale di tutti i popoli.
E'
indispensabile quindi invertire velocemente questo sviluppo infernale
basato solo sulla finanza e che si alimenta delle politiche espansive
e monetarie delle banche centrali a tasso zero a favore delle grandi istituzioni finanziarie che non investono
nell'economia reale, perchè se mi finanzio gratis ed investo in
strumenti finanziari sapendo che il guadagno è pressoche certo.
Perchè ridurre il rischio se il rischio non c'è?
Ma
che potrebbe accadere se un aumento dei tassi possa invertire queste
dinamiche e possa provocare magari delle maxi-perdite deprezzando
quegli asset finanziari nei portafogli delle 30 big bancarie ed
istituzioni finanziarie che è costituito da una montagna di derivati
(almeno 30 miliardi di dollari)?
Per
questo è indispensabile per un operatore economico come Mps
continuare a finanziare lo sviluppo dell'economia reale del suo
territorio.
Nell'attività
di Stakeholder Engagement svolta con il competente Ufficio CSR del
gruppo bancario nel corso del 2015 abbiamo ulteriormente approfondito
questi temi e ci aspettiamo che essi vengano rendicontati ed
esaminati, in quanto non mere proposte pur legittime di un
associazione, ma piuttosto tematiche di interesse generale per il
bene stesso del gruppo bancario.
Formuliamo
i nostri piu’ cari ringraziamenti per la cordiale attenzione ai
soci, ai dipendenti ed alle autorità civili presenti ed ai
responsabili istituzionali della banca e del gruppo.
Il simbolo di E.DI.VA è l'Araba Fenice che intende rappresentare la grandezza dell'etica, della dignità e dei valori, sempre presenti nella nostra quotidianità e sempre in grado di risorgere e di ricrescere, nonostante le infedeltà, le pochezze e gli errori della nostra condizione umana, quali doni divini.
martedì 23 febbraio 2016
Caporalato, in 400mila lavorano nei campi per meno di 2,5 euro l'ora
MILANO - Più di dodici ore
di lavoro nei campi per un salario di 25-30 euro al giorno, meno di 2
euro e 50 l'ora. È la situazione in cui lavorano in Italia 400 mila
lavoratori sfruttati dal caporalato, stranieri nell'80% dei casi. È
quanto emerge da uno studio di The European House-Ambrosetti su dati
Flai Cgil relativi al 2015, presentato al convegno di
Assosomm-Associazione italiana delle agenzie per il lavoro 'Attiviamo
lavoro. Le potenzialità del lavoro in somministrazione nel settore
dell'agricolturà. Gli oltre 80 distretti agricoli italiani in cui si
pratica il caporalato vedono in 33 casi condizioni di lavoro "indecenti"
e in 22 casi condizioni di lavoro "gravemente sfruttato" e sottraggono
alle casse dello Stato circa 600 milioni di euro ogni anno.
Alla paga di chi lavora sotto caporali, pari alla metà di quanto stabilito dai contratti nazionali, inoltre, devono essere sottratti i costi del trasporto, circa 5 euro, l'acquisto di acqua e cibo, l'affitto degli alloggi ed eventualmente l'acquisto di medicinali. Infatti il 74% lavoratori impiegati sotto i caporali è malato e presenta disturbi che all'inizio della stagionalità non si erano manifestati. Le malattie riscontrate sono per lo più curabili con una semplice terapia antibiotica ma si cronicizzano in assenza di un medico a cui rivolgersi e di soldi per l'acquisto delle medicine.
Ad aggravare la situazione contribuisce poi il sovraccarico di lavoro, l'esposizione alle intemperie, l'assenza di accesso all'acqua corrente, che riguarda il 64% dei lavoratori, e ai servizi igienici, che riguarda il 62%. Solo nell'estate 2015 lo studio stima che le vittime del caporalato sono state almeno 10.
I crudi dati hanno richiamato l'attenzione del ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, presente al convegno Assosomm: "Questi numeri non vanno sottovalutati perché dietro ci sono storie di vita e di sfruttamento intollerabili. Serve alzare le misure di contrasto per sconfiggere questa piaga. Il governo è in campo da mesi con scelte concrete e strumenti già operativi come la Rete del lavoro agricolo di qualità. Il disegno di legge contro il caporalato in agricoltura, che abbiamo presentato e che è all'esame del Senato, va in questa direzione. Prevediamo indennizzi per le vittime, un piano di interventi per l'accoglienza dei lavoratori agricoli stagionali, l'inasprimento degli strumenti penali con arresti e confisca dei beni. Allo stesso tempo è necessario lavorare a livello territoriale con un'attenzione particolare al sistema di trasporto dei lavoratori agricoli. Andiamo avanti tenendo conto che, per combattere questo fenomeno, serve un gioco di squadra tra Istituzioni, sindacati e associazioni d'impresa. Tutti devono fare la loro parte".
rassegna stampa:la repubblica, 23 febbraio 2016
https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=353240452088341648#editor/src=sidebar
Alla paga di chi lavora sotto caporali, pari alla metà di quanto stabilito dai contratti nazionali, inoltre, devono essere sottratti i costi del trasporto, circa 5 euro, l'acquisto di acqua e cibo, l'affitto degli alloggi ed eventualmente l'acquisto di medicinali. Infatti il 74% lavoratori impiegati sotto i caporali è malato e presenta disturbi che all'inizio della stagionalità non si erano manifestati. Le malattie riscontrate sono per lo più curabili con una semplice terapia antibiotica ma si cronicizzano in assenza di un medico a cui rivolgersi e di soldi per l'acquisto delle medicine.
Ad aggravare la situazione contribuisce poi il sovraccarico di lavoro, l'esposizione alle intemperie, l'assenza di accesso all'acqua corrente, che riguarda il 64% dei lavoratori, e ai servizi igienici, che riguarda il 62%. Solo nell'estate 2015 lo studio stima che le vittime del caporalato sono state almeno 10.
I crudi dati hanno richiamato l'attenzione del ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, presente al convegno Assosomm: "Questi numeri non vanno sottovalutati perché dietro ci sono storie di vita e di sfruttamento intollerabili. Serve alzare le misure di contrasto per sconfiggere questa piaga. Il governo è in campo da mesi con scelte concrete e strumenti già operativi come la Rete del lavoro agricolo di qualità. Il disegno di legge contro il caporalato in agricoltura, che abbiamo presentato e che è all'esame del Senato, va in questa direzione. Prevediamo indennizzi per le vittime, un piano di interventi per l'accoglienza dei lavoratori agricoli stagionali, l'inasprimento degli strumenti penali con arresti e confisca dei beni. Allo stesso tempo è necessario lavorare a livello territoriale con un'attenzione particolare al sistema di trasporto dei lavoratori agricoli. Andiamo avanti tenendo conto che, per combattere questo fenomeno, serve un gioco di squadra tra Istituzioni, sindacati e associazioni d'impresa. Tutti devono fare la loro parte".
rassegna stampa:la repubblica, 23 febbraio 2016
https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=353240452088341648#editor/src=sidebar
giovedì 11 febbraio 2016
Peggiora il Misery Index di Confcommercio, cresce il disagio sociale
Confcommercio traccia gli effetti dell'aumento della disoccupazione, mentre l'inflazione è rimasta stagnante. Segnali dell'incapacità della ripresa economica italiana di rafforzarsi
MILANO
- La ripresa economica non si rafforza e la stentata ripartenza
italiana si ripercuote anche sulla vita quotidiana dei cittadini. Ne è
testimonianza la risalita del Misery Index di Confcommercio, relativo al
mese di dicembre: l'indicatore sale a 19,2 punti, in aumento di due
decimi di punto. Si tratta dell'indice del "disagio sociale", che
contempera la situazione relativa alla disoccupazione e quella
dell'inflazione nel tracciare un quadro sullo stato di salute
dell'Italia. A differenza dell'indice tradizionale, nel quale entrambe
le voci hanno peso uguale, nel caso di Confcommercio l'inflazione vale
un po' meno nel conteggio complessivo.
La risalita del disagio di dicembre, spiega l'associazione, si inserisce
in un contesto in cui la ripresa dell'economia stenta ad assumere ritmi
di sviluppo sostenuti. Le dinamiche registrate negli ultimi mesi
dall'indice e dalle sue componenti indicano, dopo il calo rilevato nei
mesi estivi, una stabilizzazione, in linea con un andamento del mercato
del lavoro che, seppure in miglioramento nell'arco del 2015, non è stato
in grado di garantire un significativo e continuo aumento dei livelli
occupazionali e un ridimensionamento della disoccupazione estesa,
soprattutto di quella parte riconducibile agli scoraggiati.
A dicembre, ricorda Confcommercio, "il tasso di disoccupazione ufficiale
si è attestato all'11,4%, valore analogo a quello rilevato a novembre,
in riduzione di un punto percentuale su base annua. Il numero di
disoccupati è aumentato di 18mila unità sul mese precedente e si è
ridotto di 254mila unità rispetto a dicembre del 2014. Il numero di
occupati è diminuito di 21mila unità rispetto al mese precedente e
aumentato di 109mila nei confronti dello stesso mese del 2014". I dati
positivi visti sul fronte della Cassa integrazione (-52,3% sul 2014
delle ore autorizzate), possono esser stati influenzati, come nel mese
precedente, dal "blocco autorizzativo sostanzialmente disposto dall'Inps
e finalizzato all'allineamento delle procedure alle disposizioni
normative" sugli ammortizzatori sociali. "Sulla base di questa stima si è
calcolato che le ore di Cig utilizzate siano diminuite di 8mila unità
su base mensile e di 79mila unità su base annua. Anche a dicembre il
numero di scoraggiti è stimato in contenuto aumento. Il combinarsi
dell'aumento dei disoccupati ufficiali e degli scoraggiati con una
diminuzione del numero di persone in CIG ha comportato un modesto
incremento del tasso di disoccupazione esteso salito al 15,2%".
Poche variazioni, invece, sul fronte dei prezzi dei beni e dei servizi
ad alta frequenza d'acquisto sono rimasti invariati (-0,1% a novembre ed
ottobre).
rassegna stampa: la repubblica 9 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/mercati/2016/02/09/news/peggiora_il_misery_index_di_confcommercio_cresce_il_disagio_sociale-133025916/
Anche Deutsche Bank nel ciclone dei mercati
Il primo istituto tedesco deve smentire ufficialmente i dubbi circa la
sua crisi di liquidità, che renderebbe impossibile il pagamento di
alcune cedole su titoli subordinati. Il titolo ha perso il 55% in sei
mesi
MILANO - Anche la prima banca di Germania vive giornate di tensione in questa fase delicatissima per i mercati, a testimonianza di quanto sia tempestoso il mare nel quale navigano gli investitori. Continuano le vendite su Deutsche Bank, all'indomani del tonfo che ha portato il titolo ai minimi di sempre a causa dei timori sulla capacità dell'istituto di rimborsare le cedole di un bond subordinato. Oggi l'azione ha provato a reagire, ma come il resto dei mercati ha poi virato di nuovo al ribasso.
E' durato poco il beneficio derivante dall'intervento ufficiale sul mercato da parte della banca tedesca: una nota in cui spiegava di avere la liquidità sufficiente per i rimborsi. "Nel 2016 la nostra capacità di pagamento è prevista a circa 1 miliardo di euro, sufficiente per coprire il coupon AT1 che al 30 aprile sarà circa di 350 milioni di euro", ha scritto Deutsche Bank nella nota, aggiungendo: "Nel 2017 la capacità di pagamento stimata è di 4,3 miliardi prima dell'impatto del risultato operativo, grazie al completamento della cessione del 19,99% di Hua Xia Bank of China e di ulteriori riserve pari a circa 1,9 miliardi a disposizione per compensare le perdite future".
I titoli del gruppo sono crollati dopo le dichiarazioni degli analisti di Creditsights, secondo cui il colosso tedesco potrebbe far fatica a pagare i coupon sui co-co bonds qualora i risultati operativi dovessero essere peggiori del previsto o i costi di litigation superiori alle attese. Su questi timori, i cds sul debito del gruppo - assicurazioni contro il suo fallimento - sono saliti ieri a 236 punti, un livello non raggiunto nemmeno nemmeno nei momenti più bui della crisi finanziaria del 2008. La corsa è poi proseguita anche oggi, come mostra il grafico.
A poco, quindi, sono servite le parole del co-amministratore delegato John Cryan che ha detto: "Ai clienti potete comunicare che Deutsche Bank resta assolutamente e fondamentalmente solida, data la sua forte posizione di capitale e sul rischio".
rassegna stampa: la repubblica, 9 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/09/news/anche_deutsche_bank_nel_ciclone_dei_mercati-133049112/
MILANO - Anche la prima banca di Germania vive giornate di tensione in questa fase delicatissima per i mercati, a testimonianza di quanto sia tempestoso il mare nel quale navigano gli investitori. Continuano le vendite su Deutsche Bank, all'indomani del tonfo che ha portato il titolo ai minimi di sempre a causa dei timori sulla capacità dell'istituto di rimborsare le cedole di un bond subordinato. Oggi l'azione ha provato a reagire, ma come il resto dei mercati ha poi virato di nuovo al ribasso.
E' durato poco il beneficio derivante dall'intervento ufficiale sul mercato da parte della banca tedesca: una nota in cui spiegava di avere la liquidità sufficiente per i rimborsi. "Nel 2016 la nostra capacità di pagamento è prevista a circa 1 miliardo di euro, sufficiente per coprire il coupon AT1 che al 30 aprile sarà circa di 350 milioni di euro", ha scritto Deutsche Bank nella nota, aggiungendo: "Nel 2017 la capacità di pagamento stimata è di 4,3 miliardi prima dell'impatto del risultato operativo, grazie al completamento della cessione del 19,99% di Hua Xia Bank of China e di ulteriori riserve pari a circa 1,9 miliardi a disposizione per compensare le perdite future".
I titoli del gruppo sono crollati dopo le dichiarazioni degli analisti di Creditsights, secondo cui il colosso tedesco potrebbe far fatica a pagare i coupon sui co-co bonds qualora i risultati operativi dovessero essere peggiori del previsto o i costi di litigation superiori alle attese. Su questi timori, i cds sul debito del gruppo - assicurazioni contro il suo fallimento - sono saliti ieri a 236 punti, un livello non raggiunto nemmeno nemmeno nei momenti più bui della crisi finanziaria del 2008. La corsa è poi proseguita anche oggi, come mostra il grafico.
L'impennata dei cds di Deutsche Bank. I
credit default swap sono dei derivati sul rischio di credito:
assicurazioni che offrono la possibilità di coprirsi dall'eventuale
insolvenza di un debitore contro il pagamento di un premio periodico.
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A poco, quindi, sono servite le parole del co-amministratore delegato John Cryan che ha detto: "Ai clienti potete comunicare che Deutsche Bank resta assolutamente e fondamentalmente solida, data la sua forte posizione di capitale e sul rischio".
rassegna stampa: la repubblica, 9 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/09/news/anche_deutsche_bank_nel_ciclone_dei_mercati-133049112/
mercoledì 10 febbraio 2016
Credit Suisse, l'amministratore delegato si riduce lo stipendio
Il franco-ivoriano Tidjane
Thiam ha annunciato di voler rinunciare a una parte del suo bonus. Il
suo compenso netto ammonta oggi a circa 9 milioni di euro
di FRANCO ZANTONELLI
LUGANO - L'azienda ha qualche problema e, allora, l'amministratore delegato si autoriduce il bonus. È quello che ha annunciato, in un'intervista al settimanale SonntagsZeitung di Zurigo, Tidjane Thiam, amministratore delegato di Credit Suisse, seconda banca svizzera per importanza. "Non posso esigere sacrifici dai miei collaboratori e io non farne alcuno", ha dichiarato il manager franco-ivoriano. In effetti, nel 2015, Credit Suisse è stato costretto a pianificare un taglio di 4mila dipendenti, chiudendo inoltre l'esercizio con una perdita di 2,4 miliardi di franchi, oltre 2 miliardi e 150 milioni di euro. Da non dimenticare, poi, la multa di 2,5 miliardi di dollari, inflitta a Credit Suisse nel maggio del 2014 dalla giustizia statunitense che ha riconosciuto la grande banca svizzera colpevole di complicità in evasione fiscale. L'istituto guidato da Tidjame Thiam, stando agli analisti, non avrebbe ancora oggi le gambe saldissime a causa di prestiti per 16 miliardi di dollari, concessi ad aziende ritenute economicamente fragili. La mossa del numero uno di ridursi il bonus, peraltro non si sa di quanto, perché al riguardo il top manager ha preferito glissare, è comunque un segnale di inversione di tendenza, quanto alla disponibilità dei grandi dirigenti di azienda di adeguare le loro retribuzioni ai successi e agli insuccessi dei gruppi da loro diretti.
"Direi che, visto che Thiam è lì da poco più di un anno, non avendo quindi responsabilità sui cattivi risultati della banca, il suo annuncio può essere interpretato come un gesto di trasparenza", è l'opinione espressa a Repubblica.it dal professor Giovanni Barone Adesi, docente di Finanza all'Università della Svizzera Italiana di Lugano. "In sostanza il ceo di Credit Suisse lancia questo messaggio: giudicatemi su ciò che farò. Non voglio, invece, premi su quello che non ho ancora dimostrato di meritare". Quanto all'entità del taglio del bonus di Tidjame Thiam, vista la sua ritrosia a snocciolare cifre, i giornali elvetici si sbizzariscono ricordando che, complessivamente, per l'insieme del personale, c'è stata una riduzione dell'11 per cento. Il top manager franco-ivoriano non sarà, comunque, ridotto a una vita di ristrettezze, visto che il suo stipendio annuo, bonus a parte, supera abbondantemente i 9 milioni di euro. Da non dimenticare, infine, che di recente é stato costretto a respingere le accuse di spese eccessive in hotel di lusso e in voli in prima classe, oltre a quella di privilegiare gli spostamenti in elicottero.
rassegna stampa, la repubblica. 8 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/08/news/credit_suisse_l_amministratore_delegato_si_riduce_lo_stipendio-132962283/
di FRANCO ZANTONELLI
LUGANO - L'azienda ha qualche problema e, allora, l'amministratore delegato si autoriduce il bonus. È quello che ha annunciato, in un'intervista al settimanale SonntagsZeitung di Zurigo, Tidjane Thiam, amministratore delegato di Credit Suisse, seconda banca svizzera per importanza. "Non posso esigere sacrifici dai miei collaboratori e io non farne alcuno", ha dichiarato il manager franco-ivoriano. In effetti, nel 2015, Credit Suisse è stato costretto a pianificare un taglio di 4mila dipendenti, chiudendo inoltre l'esercizio con una perdita di 2,4 miliardi di franchi, oltre 2 miliardi e 150 milioni di euro. Da non dimenticare, poi, la multa di 2,5 miliardi di dollari, inflitta a Credit Suisse nel maggio del 2014 dalla giustizia statunitense che ha riconosciuto la grande banca svizzera colpevole di complicità in evasione fiscale. L'istituto guidato da Tidjame Thiam, stando agli analisti, non avrebbe ancora oggi le gambe saldissime a causa di prestiti per 16 miliardi di dollari, concessi ad aziende ritenute economicamente fragili. La mossa del numero uno di ridursi il bonus, peraltro non si sa di quanto, perché al riguardo il top manager ha preferito glissare, è comunque un segnale di inversione di tendenza, quanto alla disponibilità dei grandi dirigenti di azienda di adeguare le loro retribuzioni ai successi e agli insuccessi dei gruppi da loro diretti.
"Direi che, visto che Thiam è lì da poco più di un anno, non avendo quindi responsabilità sui cattivi risultati della banca, il suo annuncio può essere interpretato come un gesto di trasparenza", è l'opinione espressa a Repubblica.it dal professor Giovanni Barone Adesi, docente di Finanza all'Università della Svizzera Italiana di Lugano. "In sostanza il ceo di Credit Suisse lancia questo messaggio: giudicatemi su ciò che farò. Non voglio, invece, premi su quello che non ho ancora dimostrato di meritare". Quanto all'entità del taglio del bonus di Tidjame Thiam, vista la sua ritrosia a snocciolare cifre, i giornali elvetici si sbizzariscono ricordando che, complessivamente, per l'insieme del personale, c'è stata una riduzione dell'11 per cento. Il top manager franco-ivoriano non sarà, comunque, ridotto a una vita di ristrettezze, visto che il suo stipendio annuo, bonus a parte, supera abbondantemente i 9 milioni di euro. Da non dimenticare, infine, che di recente é stato costretto a respingere le accuse di spese eccessive in hotel di lusso e in voli in prima classe, oltre a quella di privilegiare gli spostamenti in elicottero.
rassegna stampa, la repubblica. 8 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/08/news/credit_suisse_l_amministratore_delegato_si_riduce_lo_stipendio-132962283/
I vertici Mps devolvono parte dello stipendio ai dipendenti
Il presidente Tononi offre i 500mila euro della retribuzione al fondo
Mpsolidale, per pagare 6mila giornate di permessi straordinari. L'ad
Viola dona 250mila euro
di Andrea Greco
MILANO - I vertici di Mps compiono un gesto di attenzione nei confronti dei dipendenti della banca. Subito dopo l'intesa sull'integrativo interno, il presidente Massimo Tononi ha deciso di devolvere tutti i 500mila euro della sua retribuzione annuale al fondo Mpsolidale, uno strumento grazie al quale i dipendenti potranno fruire di permessi retribuiti straordinari per le loro esigenze. L'amministratore delegato Fabrizio Viola, invece, lascerà 250mila euro del suo complessivo compenso al fondo (nel 2014 Viola ha percepito dall'istituto 1,3 milioni di euro). Grazie al beau geste dei due banchieri il fondo interno potrà creare un monte di 6mila giornate lavorative a disposizione dei circa 25mila dipendenti.
"La decisione è un atto di responsabilità, soprattutto in una fase così difficile della banca, in cui i dipendenti hanno dato, ancora una volta, un contributo concreto al sostegno dell'azienda - ha detto Giulio Romani, segretario generale di First Cisl - Gli accordi aziendali siglati hanno sempre evidenziato un sistema di relazioni industriali che ha saputo valorizzare il senso di appartenenza dei lavoratori alla banca, puntando anche su strumenti di mutualità interna tra i più avanzati del settore. Nessuna prospettiva sarebbe garantita all'azienda se non potesse contare su uno straordinario attaccamento dei propri dipendenti. Ci auguriamo che questo sia un esempio per tutti i top manager delle banche, sul quale costruire un modello retributivo responsabile".
Già il predecessore di Tononi, Alessandro Profumo, che si era insediato nel 2012 a Siena, aveva deciso di lasciare alla banca la gran parte delle sue retribuzioni nel triennio. Profumo aveva intascato 38 milioni di euro di buonuscita dopo un decennio alla guida operativa di Unicredit.
Anche se Mps ha tagliato di molto i costi operativi (circa di un quarto nella gestione di Viola) ha cercato di tenere desta l'attenzione per i lavoratori della banca, messi alla prova da anni di profonda crisi interna. Due settimane fa è stato siglato il nuovo accordo integrativo. "L'accordo rappresenta un importante traguardo per l'azienda e per i dipendenti poiché rinnova la contrattazione di secondo livello, arricchendola con importanti misure che rafforzano l'equità sociale in un'ottica redistributiva e solidale - ha detto Ilaria Dalla Riva, responsabile direzione risorse umane della banca -. L'accordo, inoltre, disciplina l'assetto della retribuzione variabile con l'introduzione del nuovo premio variabile di risultato, legato al raggiungimento degli obiettivi di rafforzamento di piano industriale in termini patrimoniali, di liquidità e di redditività e articolato su più quote per premiare i risultati e valorizzare le performance distintive, con un'attenzione a modalità di erogazione tipiche del welfare".
rassegna stampa: la Repubblica, 8 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/2016/02/08/news/i_vertici_mps_devolvono_parte_dello_stipendio_ai_dipendenti-132973180/
di Andrea Greco
MILANO - I vertici di Mps compiono un gesto di attenzione nei confronti dei dipendenti della banca. Subito dopo l'intesa sull'integrativo interno, il presidente Massimo Tononi ha deciso di devolvere tutti i 500mila euro della sua retribuzione annuale al fondo Mpsolidale, uno strumento grazie al quale i dipendenti potranno fruire di permessi retribuiti straordinari per le loro esigenze. L'amministratore delegato Fabrizio Viola, invece, lascerà 250mila euro del suo complessivo compenso al fondo (nel 2014 Viola ha percepito dall'istituto 1,3 milioni di euro). Grazie al beau geste dei due banchieri il fondo interno potrà creare un monte di 6mila giornate lavorative a disposizione dei circa 25mila dipendenti.
"La decisione è un atto di responsabilità, soprattutto in una fase così difficile della banca, in cui i dipendenti hanno dato, ancora una volta, un contributo concreto al sostegno dell'azienda - ha detto Giulio Romani, segretario generale di First Cisl - Gli accordi aziendali siglati hanno sempre evidenziato un sistema di relazioni industriali che ha saputo valorizzare il senso di appartenenza dei lavoratori alla banca, puntando anche su strumenti di mutualità interna tra i più avanzati del settore. Nessuna prospettiva sarebbe garantita all'azienda se non potesse contare su uno straordinario attaccamento dei propri dipendenti. Ci auguriamo che questo sia un esempio per tutti i top manager delle banche, sul quale costruire un modello retributivo responsabile".
Già il predecessore di Tononi, Alessandro Profumo, che si era insediato nel 2012 a Siena, aveva deciso di lasciare alla banca la gran parte delle sue retribuzioni nel triennio. Profumo aveva intascato 38 milioni di euro di buonuscita dopo un decennio alla guida operativa di Unicredit.
Anche se Mps ha tagliato di molto i costi operativi (circa di un quarto nella gestione di Viola) ha cercato di tenere desta l'attenzione per i lavoratori della banca, messi alla prova da anni di profonda crisi interna. Due settimane fa è stato siglato il nuovo accordo integrativo. "L'accordo rappresenta un importante traguardo per l'azienda e per i dipendenti poiché rinnova la contrattazione di secondo livello, arricchendola con importanti misure che rafforzano l'equità sociale in un'ottica redistributiva e solidale - ha detto Ilaria Dalla Riva, responsabile direzione risorse umane della banca -. L'accordo, inoltre, disciplina l'assetto della retribuzione variabile con l'introduzione del nuovo premio variabile di risultato, legato al raggiungimento degli obiettivi di rafforzamento di piano industriale in termini patrimoniali, di liquidità e di redditività e articolato su più quote per premiare i risultati e valorizzare le performance distintive, con un'attenzione a modalità di erogazione tipiche del welfare".
rassegna stampa: la Repubblica, 8 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/2016/02/08/news/i_vertici_mps_devolvono_parte_dello_stipendio_ai_dipendenti-132973180/
lunedì 8 febbraio 2016
da Eticanews: Mps cerca rating creditizio targato Csr
Incarico all'università di Siena per calcolare anche rischi ESG
Lo ha annunciato un manager della banca, in occasione di un convegno sul tema del merito di credito e Csr organizzato da Ediva. Il cui presidente Vernocchi chiede di inserire nei rating anche elementi aggiuntivi che premino le politiche di responsabilità aziendale.
Banca Mps ha affidato un incarico all’Università di Siena per definire i rischi di controparte che tengano conto anche degli elementi propri della Csr al fine di integrare gli attuali rating. Ad annunciare l’iniziativa è stato il responsabile Servizio Rating della banca senese, riconoscendo che gli attuali rating hanno limiti, e che sia necessario adeguarli e renderli più realistici. Il manager ha parlato in occasione della tavola rotonda “Rating di merito creditizio e Csr: idee e proposte per un accesso al credito solidale ed affidabile”, organizzata il 29 gennaio a Firenze da Ediva (Etica dignità e valori).
La tavola rotonda si è aperta con l’interrogativo posto dal presidente di Ediva Gianni Vernocchi: è possibile che, per poter concedere il credito, le banche utilizzino esclusivamente come valutazione del merito creditizio, con i suoi relativi rating discriminanti, solo gli aspetti economici e finanziari? Poiché questi ultimi non hanno funzionato, il suggerimento è quello di «inserire elementi aggiuntivi di valutazione quali l’incremento dell’occupazione, la tutela ambientale, il pagare le tasse, il porre l’attenzione concreta ai vari stakeholders e premiare quelle aziende che perseguono politiche virtuose di responsabilità sociale d’impresa».
Al convegno, Federica Ielasi, del Dipartimento di Scienze per l’economia e l’impresa dell’Università di Firenze, ha sostenuto che è possibile costruire rating di merito creditizio che premino l’impresa ad alto impatto sociale e valoriale, basta che si possa tenere conto degli elementi che non siano unicamente dati economici e finanziari. Ielasi, a sostegno della tesi, ha sottolineato come esista un vantaggio competitivo reale quando c’è correlazione tra risultati finanziari e fattori Esg (environmental, social, governance), facendo riferimento a uno studio di Harvard School. La ricerca ha comparato, su un periodo di 18 anni, 90 aziende ad alta attenzione sociale e 90 aziende a bassa attenzione sociale, e ha rilevato come le 90 aziende ad alta attenzione sociale abbiano riscontrato un vantaggio competitivo rispetto alle altre.
Giuseppina De Lorenzo, dell’Assessorato Attività produttive, credito e lavoro della Regione Toscana, è intervenuta ricordando l’impegno regionale a sviluppare e sostenere azioni di microcredito, facilitando piani di rientro e finanziando anche la liquidità. Ha evidenziato che il basso livello attuale di sofferenze registrato sta a dimostrare come l’accesso al credito debba risentire di azioni correlate con la responsabilità sociale d’impresa.
da Eticanews 8 febbraio 2016
http://www.eticanews.it/csr/mps-cerca-rating-creditizio-targato-csr/
Lo ha annunciato un manager della banca, in occasione di un convegno sul tema del merito di credito e Csr organizzato da Ediva. Il cui presidente Vernocchi chiede di inserire nei rating anche elementi aggiuntivi che premino le politiche di responsabilità aziendale.
Banca Mps ha affidato un incarico all’Università di Siena per definire i rischi di controparte che tengano conto anche degli elementi propri della Csr al fine di integrare gli attuali rating. Ad annunciare l’iniziativa è stato il responsabile Servizio Rating della banca senese, riconoscendo che gli attuali rating hanno limiti, e che sia necessario adeguarli e renderli più realistici. Il manager ha parlato in occasione della tavola rotonda “Rating di merito creditizio e Csr: idee e proposte per un accesso al credito solidale ed affidabile”, organizzata il 29 gennaio a Firenze da Ediva (Etica dignità e valori).
La tavola rotonda si è aperta con l’interrogativo posto dal presidente di Ediva Gianni Vernocchi: è possibile che, per poter concedere il credito, le banche utilizzino esclusivamente come valutazione del merito creditizio, con i suoi relativi rating discriminanti, solo gli aspetti economici e finanziari? Poiché questi ultimi non hanno funzionato, il suggerimento è quello di «inserire elementi aggiuntivi di valutazione quali l’incremento dell’occupazione, la tutela ambientale, il pagare le tasse, il porre l’attenzione concreta ai vari stakeholders e premiare quelle aziende che perseguono politiche virtuose di responsabilità sociale d’impresa».
Al convegno, Federica Ielasi, del Dipartimento di Scienze per l’economia e l’impresa dell’Università di Firenze, ha sostenuto che è possibile costruire rating di merito creditizio che premino l’impresa ad alto impatto sociale e valoriale, basta che si possa tenere conto degli elementi che non siano unicamente dati economici e finanziari. Ielasi, a sostegno della tesi, ha sottolineato come esista un vantaggio competitivo reale quando c’è correlazione tra risultati finanziari e fattori Esg (environmental, social, governance), facendo riferimento a uno studio di Harvard School. La ricerca ha comparato, su un periodo di 18 anni, 90 aziende ad alta attenzione sociale e 90 aziende a bassa attenzione sociale, e ha rilevato come le 90 aziende ad alta attenzione sociale abbiano riscontrato un vantaggio competitivo rispetto alle altre.
Giuseppina De Lorenzo, dell’Assessorato Attività produttive, credito e lavoro della Regione Toscana, è intervenuta ricordando l’impegno regionale a sviluppare e sostenere azioni di microcredito, facilitando piani di rientro e finanziando anche la liquidità. Ha evidenziato che il basso livello attuale di sofferenze registrato sta a dimostrare come l’accesso al credito debba risentire di azioni correlate con la responsabilità sociale d’impresa.
da Eticanews 8 febbraio 2016
http://www.eticanews.it/csr/mps-cerca-rating-creditizio-targato-csr/
domenica 7 febbraio 2016
Belpietro: "Ecco chi sta con la Merkel". I politici che votano contro i risparmiatori
Matteo Renzi si è fatto spesso vanto
del fatto che il Pd sia il partito più votato d' Europa. Come è noto,
alle elezioni del 2014 a nessun altro - nemmeno alla Cdu di Angela
Merkel - è riuscito il colpo di conquistare il 40 per cento dei voti e
dunque di spedire una nutrita pattuglia di onorevoli a Bruxelles. Ma
stanti così i fatti, sarà bene che il presidente del Consiglio informi i
suoi eurodeputati che non sono stati mandati in Europa per turismo, ma
per occuparsi degli interessi di questo Paese.
E per evitare che altri varino norme capestro nei confronti dell' Italia. Purtroppo abbiamo già visto che cos' è accaduto con il bail in, ovvero con la direttiva in cui si scaricano sui clienti i crac bancari. Varata dalla Commissione, la direttiva è stata votata senza batter ciglio da tutta una serie di parlamentari, con il risultato che al fondo salva banche italiano è stato impedito il salvataggio di quattro istituti di credito sull' orlo del fallimento (Etruria, Marche, Ferrara e Chieti) e i risparmiatori hanno visto andare in fumo i loro investimenti in azioni e obbligazioni subordinate. Ora la storia rischia di ripetersi, e anche in peggio.
In pratica a Bruxelles è stata votata una mozione che, dietro alle parole fumose, vuol dire una sola cosa: se una banca ha in portafoglio un certo numero di titoli di Stato non può essere considerata esente da rischi. Tradotto, significa che quei soldi non sono da considerare patrimonio, ma debito e, per mettersi in regola con le norme internazionali, gli istituti di credito devono accantonare denaro per far fronte al rischio di eventuali perdite. Se si vuole essere ancora più chiari, basta leggere ciò che una commissione di saggi ha preparato a Bruxelles. Si tratta di un piano in cui, in sostanza, si sostiene che i titoli di uno Stato - siccome quest' ultimo rischia di fallire come una qualunque società e di non pagare Bot, Cct e così via - non sono a rischio zero.
Dunque, se l' Italia non garantisce un bel niente, per dare garanzia di essere solidi gli istituti di credito devono mettere da parte un capitale pari a circa il 70 per cento del portafoglio investito in titoli di Stato.
Se il presidente della Bce Mario Draghi per riportare alla normalità le quotazioni del sistema bancario nelle scorse settimane ha usato il cannone, l' Europa a trazione tedesca si appresta quindi a sganciare una bomba atomica, che rischia però di sterminare il nostro sistema bancario e non solo. È risaputo infatti che gli istituti di credito sono acquirenti abituali dei titoli di Stato italiani e una recente indagine stima che abbiano in carico almeno 400 miliardi, ossia una cifra molto vicina al 20 per cento del totale del nostro debito pubblico.
Avete idea di quanti soldi servirebbero, in aumenti di capitale, per mettere da parte il 70 per cento del denaro investito in Bot e Btp? Duecentottanta miliardi, cioè circa il 13 per cento del nostro debito pubblico. Per le banche sarebbe una sventola da capogiro, ma anche per lo Stato, che vedrebbe salire lo spread come un palloncino pieno di elio, e pure per i risparmiatori.
Dietro alla mozione dell' Europarlamento votata anche dai deputati italiani e dietro lo studio dei saggi, ci sarebbe secondo il Corriere della Sera lo zampino di Wolfgang Schaeuble, ossia del ministro delle Finanze tedesco, il falco della Germania, colui che avrebbe voluto mandare al fallimento la Grecia e che non ha mollato un attimo la presa su Alexis Tsipras fino a che questi non ha alzato bandiera bianca. L' operazione in pratica vorrebbe dire che, se si riconosce la possibilità che uno Stato fallisca, le banche non possono detenere titoli ad alto rischio. Non solo: così facendo si estende il criterio del bail in dalle banche agli Stati, prevedendo che siano i risparmiatori e gli investitori a pagare il debito, con effetti devastanti sugli istituti di credito e sulla clientela. L' Italia è nel mirino: dato che non vuole decidersi a ridurre il debito pubblico con misure draconiane (tipo una patrimoniale e una robusta spending review) la si mette con le spalle al muro con la minaccia di tagliare il legame tra banche e debito pubblico.
Insomma, mentre Matteo Renzi litiga con l' Europa chiedendo maggiore flessibilità, Schaeuble e le sturmtruppen si preparano a regalarci maggior rigore. E i nostri europarlamentari che fanno? Dormono. Anzi no, peggio, votano una mozione in cui si vincola la Ue a separare Stati e banche, costringendo queste ultime a ridurre l' esposizione nei confronti del debito sovrano, ossia dell' Italia.
Perfetto. Dei geni. Anzi: dei nemici in casa.
Maurizio Belpietro
rassegna stampa: Libero Quotidiano - 7 febbraio 2016 -
http://www.liberoquotidiano.it/news/opinioni/11875923/maurizio-belpietro-voto-politici-contro-risparmiatore-crac-banche.html
E per evitare che altri varino norme capestro nei confronti dell' Italia. Purtroppo abbiamo già visto che cos' è accaduto con il bail in, ovvero con la direttiva in cui si scaricano sui clienti i crac bancari. Varata dalla Commissione, la direttiva è stata votata senza batter ciglio da tutta una serie di parlamentari, con il risultato che al fondo salva banche italiano è stato impedito il salvataggio di quattro istituti di credito sull' orlo del fallimento (Etruria, Marche, Ferrara e Chieti) e i risparmiatori hanno visto andare in fumo i loro investimenti in azioni e obbligazioni subordinate. Ora la storia rischia di ripetersi, e anche in peggio.
In pratica a Bruxelles è stata votata una mozione che, dietro alle parole fumose, vuol dire una sola cosa: se una banca ha in portafoglio un certo numero di titoli di Stato non può essere considerata esente da rischi. Tradotto, significa che quei soldi non sono da considerare patrimonio, ma debito e, per mettersi in regola con le norme internazionali, gli istituti di credito devono accantonare denaro per far fronte al rischio di eventuali perdite. Se si vuole essere ancora più chiari, basta leggere ciò che una commissione di saggi ha preparato a Bruxelles. Si tratta di un piano in cui, in sostanza, si sostiene che i titoli di uno Stato - siccome quest' ultimo rischia di fallire come una qualunque società e di non pagare Bot, Cct e così via - non sono a rischio zero.
Dunque, se l' Italia non garantisce un bel niente, per dare garanzia di essere solidi gli istituti di credito devono mettere da parte un capitale pari a circa il 70 per cento del portafoglio investito in titoli di Stato.
Se il presidente della Bce Mario Draghi per riportare alla normalità le quotazioni del sistema bancario nelle scorse settimane ha usato il cannone, l' Europa a trazione tedesca si appresta quindi a sganciare una bomba atomica, che rischia però di sterminare il nostro sistema bancario e non solo. È risaputo infatti che gli istituti di credito sono acquirenti abituali dei titoli di Stato italiani e una recente indagine stima che abbiano in carico almeno 400 miliardi, ossia una cifra molto vicina al 20 per cento del totale del nostro debito pubblico.
Avete idea di quanti soldi servirebbero, in aumenti di capitale, per mettere da parte il 70 per cento del denaro investito in Bot e Btp? Duecentottanta miliardi, cioè circa il 13 per cento del nostro debito pubblico. Per le banche sarebbe una sventola da capogiro, ma anche per lo Stato, che vedrebbe salire lo spread come un palloncino pieno di elio, e pure per i risparmiatori.
Dietro alla mozione dell' Europarlamento votata anche dai deputati italiani e dietro lo studio dei saggi, ci sarebbe secondo il Corriere della Sera lo zampino di Wolfgang Schaeuble, ossia del ministro delle Finanze tedesco, il falco della Germania, colui che avrebbe voluto mandare al fallimento la Grecia e che non ha mollato un attimo la presa su Alexis Tsipras fino a che questi non ha alzato bandiera bianca. L' operazione in pratica vorrebbe dire che, se si riconosce la possibilità che uno Stato fallisca, le banche non possono detenere titoli ad alto rischio. Non solo: così facendo si estende il criterio del bail in dalle banche agli Stati, prevedendo che siano i risparmiatori e gli investitori a pagare il debito, con effetti devastanti sugli istituti di credito e sulla clientela. L' Italia è nel mirino: dato che non vuole decidersi a ridurre il debito pubblico con misure draconiane (tipo una patrimoniale e una robusta spending review) la si mette con le spalle al muro con la minaccia di tagliare il legame tra banche e debito pubblico.
Insomma, mentre Matteo Renzi litiga con l' Europa chiedendo maggiore flessibilità, Schaeuble e le sturmtruppen si preparano a regalarci maggior rigore. E i nostri europarlamentari che fanno? Dormono. Anzi no, peggio, votano una mozione in cui si vincola la Ue a separare Stati e banche, costringendo queste ultime a ridurre l' esposizione nei confronti del debito sovrano, ossia dell' Italia.
Perfetto. Dei geni. Anzi: dei nemici in casa.
Maurizio Belpietro
rassegna stampa: Libero Quotidiano - 7 febbraio 2016 -
http://www.liberoquotidiano.it/news/opinioni/11875923/maurizio-belpietro-voto-politici-contro-risparmiatore-crac-banche.html
Banche, siamo sicuri che "grande è bello"?
Aggregare, fondere, ridurre di numero. E' la parola d'ordine per le
banche, non da oggi, ma da molti anni, e in tutto il mondo. Che ci
facciamo con quasi 400 piccole Banche di credito cooperativo, quasi
tutte monosportello? Aggregare, che diventino una sola. Pensa che
risparmio, unificare tutte le struttura possibili, che eliminazione di
sprechi, che guadagni di efficienza. E poi vuoi mettere, da 400
banchette insignificanti ne viene fori una bella grossa. Ma mica solo
quelle bisogna fondere, anche quelle più grosse, come Monte Paschi, Ubi e
compagnia. Perché noi abbiamo ancora solo due banche "di dimensione
europea", Intesa e Unicredit.
Già, di dimensione europea. Bell'esempio le banche europee (e non parliamo delle americane), ottima riuscita. Solide, non si sono quasi accorte della crisi. E poi mai uno scandalo, mai un imbroglio, mai una strategia sbagliata. Soprattutto, mai un dubbio che quella del gigantismo sia la strada giusta. Che importa se poi la crisi di una grande banca può far fallire un intero paese, e quindi bisogna salvarla per forza? Tanto basta aumentare le tasse ai cittadini, azzerare il welfare, togliere qualsiasi garanzia ai lavoratori e poi il Pil ricomincia a crescere, guardate com'è stata brava l'Irlanda.
Sì, ma i risparmi, l'efficienza? Beh, se per verificare l'efficienza contano i risultati, forse non ci siamo. E i risparmi possono anche non essere la strada migliore rispetto all'obiettivo da raggiungere. Già, qual è l'obiettivo? Perché sono parecchi anni che a questa domanda si dà una sola risposta: l'obiettivo è che "l'azienda guadagni", sia competitiva rispetto alle altre dello stesso settore, "crei valore per gli azionisti". Che tutto questo crei valore anche per la società si dà per scontato, ci pensa "la mano invisibile". La "mano invisibile" è come la Provvidenza: i suoi disegni sono imperscrutabili, ma è guidata dallo spirito divino, quindi mica si può dubitare che alla fine produca il migliore dei mondi possibili.
A pensarci bene, questa strategia dell'aggregazione si potrebbe attuare anche nella scuola. Che ci facciamo con un milione di insegnanti? Che spreco, che modo inutile di spendere i soldi delle tasse. Adesso c'è Internet, ci sono le videoconferenze. Di professori ne basterebbero un centinaio, uno per materia, e gli allievi tutti davanti a un video ad ascoltare. Che impennata dell'efficienza!
Come? Non è la stessa cosa? Insomma, c'è da discuterne. Cominciamo dal principio, cioè dall'obiettivo delle banche: quello prioritario dovrebbe essere il credito all'economia, o no? Tutto il resto dovrebbe venire dopo, compreso il fatto di fare più profitti possibile. Certo, non devono perdere. E per non perdere dovrebbero prestare in modo oculato. Per fare questo c'è bisogno di due cose: avere le competenze necessarie per capire se l'impresa a cui si fa il prestito è valida e conoscere i clienti. Il primo punto è critico da sempre, nella piccole banche come nelle grandi: bisognerebbe affrontarlo, ma lì la dimensione non conta. Il secondo punto comporta che non si possa ridurre troppo il personale, così come non si possono ridurre gli insegnanti senza rinunciare alla relazione personale che è un aspetto fondamentale della questione: in questo secondo caso avremo un apprendimento scadente, nell'altro aumenteranno i prestiti sbagliati.
Le banche stanno da tempo seguendo la strada opposta. Formazione rispetto ai problemi delle imprese niente, accentramento dei poteri decisionali (ormai un direttore di filiale ha poteri limitatissimi), standardizzazione delle procedure quando un credito oculato andrebbe studiato caso per caso. Certo, sui costi si risparmia, ma davvero è il modo migliore di fare banca? Nel frattempo l'informatica ha ridotto la necessità di personale che svolga lavoro di routine. E che ci si fa con questi dipendenti in sovrappiù? In parte si riducono con tutti i mezzi possibili (ah, che risparmi sul costo del lavoro!) e in parte gli si fa formazione: per renderli adeguati a decidere a chi prestare? Ma no: per farli diventare venditori di prodotti finanziari, visto che ormai si guadagna con quelli, mica prestando all'economia. Poi dice che le sofferenze aumentano...
Una rete di banche non enormi, con dipendenti debitamente istruiti e in grado di attuare un controllo di merito sui prestiti che si fanno e sull'andamento delle aziende affidate, sarebbe adatta alla struttura della nostra economia, dove il 90% delle imprese sono piccole o piccolissime. E vogliamo restare così? Chi assisterà le imprese più grandi, chi darà loro i mezzi per farle crescere? A parte che mantenere le banche piccole non significa che non ne debbano esistere alcune grandi, c'è un altro aspetto da considerare, ossia il ruolo che possono avere le banche d'affari: che neanch'esse debbono per forza essere gigantesche. Goldman Sachs è un mostro, ma quando Kkr organizzò il più grande leveraged buyout che si fosse visto fino ad allora, quello sulla Rjr Nabisco, era una piccola boutique del credito. Mediobanca, che ha guidato per quasi quarant'anni ogni più piccola mossa del capitalismo italiano, era di dimensioni modeste, e così Lazard. Per organizzare le grandi operazioni serve un nucleo pensante che può essere anche di dimensioni ridotte, e poi propone l'affare a un certo numero di banche le quali, se il proponente è di prestigio perché ha dimostrato di saper fare affari, partecipano al finanziamento. Tra l'altro, se l'affare va male - cosa che può sempre accadere - le perdite sono suddivise tra più aziende di credito, che in questo modo non subiscono un colpo drammatico. Agli investitori si dice sempre di "non mettere tutte le uova in un solo paniere", cioè di diversificare il rischio. Il principio è valido anche per le operazioni creditizie, tanto più che i dati sulla composizione delle sofferenze bancarie mostrano che sono i prestiti di importo più elevato ad essere più a rischio.
Bisognerebbe chiedersi come mai ciò accada. In parte probabilmente perché il "capitalismo di relazione", in cui contano più i rapporti di potere che l'andamento dell'impresa, è ancora tutt'altro che un ricordo. In parte perché i grandi clienti sono naturalmente appetiti, e quando vanno in crisi la banca tende a sostenerli anche oltre il ragionevole, in accordo con il vecchio detto che "un piccolo debito è un problema tuo, un grande debito è un problema della banca". La soluzione che i grandi prestiti siano organizzati da una merchant bank potrebbe evitare entrambi questi problemi: un istituto che proponga affari non perché hanno buone possibilità, ma in seguito a pressioni politiche o interessi di altro genere, durerebbe poco sul mercato: nessuna banca aderirebbe alle sue proposte dopo i primi affari andati male.
Una delle obiezioni più diffuse è che le piccole banche siano per la maggior parte covi di clientele, dove i prestiti vengono erogati, appunto, per lo più con criteri discutibili. Indubbiamente ci sono stati - e sempre ci saranno - casi in cui questo accade. Ma una banca piccola è priva di quella rete di sicurezza che in gergo si chiama "rilevanza sistemica", come invece hanno le banche "troppo grandi per fallire". E dunque, se sbaglia per incapacità o per malafede, si può "risolvere" - come si dice nell'ambiente - senza troppi problemi. E la consapevolezza di questo fatto dovrebbe tenere a bada quell'"azzardo morale" (cioè assumere rischi eccessivi perché si conta su un salvataggio senza il quale si creerebbe un disastro a macchia d'olio, come il caso Lehman ha insegnato) che ha provocato catastrofi in tutto il mondo.
E forse sta proprio qui uno dei motivi della corsa alla grande dimensione: diventa molto grande, e sarai quasi al sicuro, tanto più che raramente la rovina di una banca trascina con sé anche gli azionisti e i manager, che in un modo o nell'altro restano quasi sempre a galla. L'altro motivo è di potere: giganti il cui attivo è superiore al Pil della maggior parte degli Stati (e spesso superiore a quello del paese dove hanno sede) finanziano partiti e candidati, bloccano o modificano le leggi, sono al di fuori e al di sopra di ogni controllo politico. E' una delle cause più rilevanti del deperimento della democrazia a livello mondiale. E basterebbe questo (o meglio: "dovrebbe" bastare) per impedire che le aziende - non solo quelle del credito - diventino giganti che non solo non si possono controllare, ma che a controllare sono loro.
C'è poi un altro fattore da non trascurare. Il "Vangelo" delle fusioni e acquisizioni è predicato da chi su queste operazioni ci guadagna, grandi gruppi finanziari e agenzie di rating a cui sempre si deve ricorrere per valutazioni, ingegneria finanziaria, eventuali collocamenti di titoli. Sono gli stessi che in un altro capitolo di questa Vangelo raccomandano di privatizzare tutto il possibile e anche di più. Si può capire, alimentano il loro mercato. Quello che si capisce meno è perché tutti gli diano retta: è un po' come chiedere: "Oste, il tuo vino è buono?".
L'Italia, dal punto di vista dello strapotere dei gruppi finanziari, è ancora relativamente indietro (per fortuna), almeno per quel che riguarda le questioni interne. Ma un po' di pazienza: lo abbiamo visto, la parola d'ordine è "aggregare". Tra un po' sarà così anche da noi.
rassegna stampa: la repubblica, 30 gennaio 2016 di Carlo Clericetti
http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2016/01/30/banche-siamo-sicuri-che-grande-e-bello/
Già, di dimensione europea. Bell'esempio le banche europee (e non parliamo delle americane), ottima riuscita. Solide, non si sono quasi accorte della crisi. E poi mai uno scandalo, mai un imbroglio, mai una strategia sbagliata. Soprattutto, mai un dubbio che quella del gigantismo sia la strada giusta. Che importa se poi la crisi di una grande banca può far fallire un intero paese, e quindi bisogna salvarla per forza? Tanto basta aumentare le tasse ai cittadini, azzerare il welfare, togliere qualsiasi garanzia ai lavoratori e poi il Pil ricomincia a crescere, guardate com'è stata brava l'Irlanda.
Sì, ma i risparmi, l'efficienza? Beh, se per verificare l'efficienza contano i risultati, forse non ci siamo. E i risparmi possono anche non essere la strada migliore rispetto all'obiettivo da raggiungere. Già, qual è l'obiettivo? Perché sono parecchi anni che a questa domanda si dà una sola risposta: l'obiettivo è che "l'azienda guadagni", sia competitiva rispetto alle altre dello stesso settore, "crei valore per gli azionisti". Che tutto questo crei valore anche per la società si dà per scontato, ci pensa "la mano invisibile". La "mano invisibile" è come la Provvidenza: i suoi disegni sono imperscrutabili, ma è guidata dallo spirito divino, quindi mica si può dubitare che alla fine produca il migliore dei mondi possibili.
A pensarci bene, questa strategia dell'aggregazione si potrebbe attuare anche nella scuola. Che ci facciamo con un milione di insegnanti? Che spreco, che modo inutile di spendere i soldi delle tasse. Adesso c'è Internet, ci sono le videoconferenze. Di professori ne basterebbero un centinaio, uno per materia, e gli allievi tutti davanti a un video ad ascoltare. Che impennata dell'efficienza!
Come? Non è la stessa cosa? Insomma, c'è da discuterne. Cominciamo dal principio, cioè dall'obiettivo delle banche: quello prioritario dovrebbe essere il credito all'economia, o no? Tutto il resto dovrebbe venire dopo, compreso il fatto di fare più profitti possibile. Certo, non devono perdere. E per non perdere dovrebbero prestare in modo oculato. Per fare questo c'è bisogno di due cose: avere le competenze necessarie per capire se l'impresa a cui si fa il prestito è valida e conoscere i clienti. Il primo punto è critico da sempre, nella piccole banche come nelle grandi: bisognerebbe affrontarlo, ma lì la dimensione non conta. Il secondo punto comporta che non si possa ridurre troppo il personale, così come non si possono ridurre gli insegnanti senza rinunciare alla relazione personale che è un aspetto fondamentale della questione: in questo secondo caso avremo un apprendimento scadente, nell'altro aumenteranno i prestiti sbagliati.
Le banche stanno da tempo seguendo la strada opposta. Formazione rispetto ai problemi delle imprese niente, accentramento dei poteri decisionali (ormai un direttore di filiale ha poteri limitatissimi), standardizzazione delle procedure quando un credito oculato andrebbe studiato caso per caso. Certo, sui costi si risparmia, ma davvero è il modo migliore di fare banca? Nel frattempo l'informatica ha ridotto la necessità di personale che svolga lavoro di routine. E che ci si fa con questi dipendenti in sovrappiù? In parte si riducono con tutti i mezzi possibili (ah, che risparmi sul costo del lavoro!) e in parte gli si fa formazione: per renderli adeguati a decidere a chi prestare? Ma no: per farli diventare venditori di prodotti finanziari, visto che ormai si guadagna con quelli, mica prestando all'economia. Poi dice che le sofferenze aumentano...
Una rete di banche non enormi, con dipendenti debitamente istruiti e in grado di attuare un controllo di merito sui prestiti che si fanno e sull'andamento delle aziende affidate, sarebbe adatta alla struttura della nostra economia, dove il 90% delle imprese sono piccole o piccolissime. E vogliamo restare così? Chi assisterà le imprese più grandi, chi darà loro i mezzi per farle crescere? A parte che mantenere le banche piccole non significa che non ne debbano esistere alcune grandi, c'è un altro aspetto da considerare, ossia il ruolo che possono avere le banche d'affari: che neanch'esse debbono per forza essere gigantesche. Goldman Sachs è un mostro, ma quando Kkr organizzò il più grande leveraged buyout che si fosse visto fino ad allora, quello sulla Rjr Nabisco, era una piccola boutique del credito. Mediobanca, che ha guidato per quasi quarant'anni ogni più piccola mossa del capitalismo italiano, era di dimensioni modeste, e così Lazard. Per organizzare le grandi operazioni serve un nucleo pensante che può essere anche di dimensioni ridotte, e poi propone l'affare a un certo numero di banche le quali, se il proponente è di prestigio perché ha dimostrato di saper fare affari, partecipano al finanziamento. Tra l'altro, se l'affare va male - cosa che può sempre accadere - le perdite sono suddivise tra più aziende di credito, che in questo modo non subiscono un colpo drammatico. Agli investitori si dice sempre di "non mettere tutte le uova in un solo paniere", cioè di diversificare il rischio. Il principio è valido anche per le operazioni creditizie, tanto più che i dati sulla composizione delle sofferenze bancarie mostrano che sono i prestiti di importo più elevato ad essere più a rischio.
Bisognerebbe chiedersi come mai ciò accada. In parte probabilmente perché il "capitalismo di relazione", in cui contano più i rapporti di potere che l'andamento dell'impresa, è ancora tutt'altro che un ricordo. In parte perché i grandi clienti sono naturalmente appetiti, e quando vanno in crisi la banca tende a sostenerli anche oltre il ragionevole, in accordo con il vecchio detto che "un piccolo debito è un problema tuo, un grande debito è un problema della banca". La soluzione che i grandi prestiti siano organizzati da una merchant bank potrebbe evitare entrambi questi problemi: un istituto che proponga affari non perché hanno buone possibilità, ma in seguito a pressioni politiche o interessi di altro genere, durerebbe poco sul mercato: nessuna banca aderirebbe alle sue proposte dopo i primi affari andati male.
Una delle obiezioni più diffuse è che le piccole banche siano per la maggior parte covi di clientele, dove i prestiti vengono erogati, appunto, per lo più con criteri discutibili. Indubbiamente ci sono stati - e sempre ci saranno - casi in cui questo accade. Ma una banca piccola è priva di quella rete di sicurezza che in gergo si chiama "rilevanza sistemica", come invece hanno le banche "troppo grandi per fallire". E dunque, se sbaglia per incapacità o per malafede, si può "risolvere" - come si dice nell'ambiente - senza troppi problemi. E la consapevolezza di questo fatto dovrebbe tenere a bada quell'"azzardo morale" (cioè assumere rischi eccessivi perché si conta su un salvataggio senza il quale si creerebbe un disastro a macchia d'olio, come il caso Lehman ha insegnato) che ha provocato catastrofi in tutto il mondo.
E forse sta proprio qui uno dei motivi della corsa alla grande dimensione: diventa molto grande, e sarai quasi al sicuro, tanto più che raramente la rovina di una banca trascina con sé anche gli azionisti e i manager, che in un modo o nell'altro restano quasi sempre a galla. L'altro motivo è di potere: giganti il cui attivo è superiore al Pil della maggior parte degli Stati (e spesso superiore a quello del paese dove hanno sede) finanziano partiti e candidati, bloccano o modificano le leggi, sono al di fuori e al di sopra di ogni controllo politico. E' una delle cause più rilevanti del deperimento della democrazia a livello mondiale. E basterebbe questo (o meglio: "dovrebbe" bastare) per impedire che le aziende - non solo quelle del credito - diventino giganti che non solo non si possono controllare, ma che a controllare sono loro.
C'è poi un altro fattore da non trascurare. Il "Vangelo" delle fusioni e acquisizioni è predicato da chi su queste operazioni ci guadagna, grandi gruppi finanziari e agenzie di rating a cui sempre si deve ricorrere per valutazioni, ingegneria finanziaria, eventuali collocamenti di titoli. Sono gli stessi che in un altro capitolo di questa Vangelo raccomandano di privatizzare tutto il possibile e anche di più. Si può capire, alimentano il loro mercato. Quello che si capisce meno è perché tutti gli diano retta: è un po' come chiedere: "Oste, il tuo vino è buono?".
L'Italia, dal punto di vista dello strapotere dei gruppi finanziari, è ancora relativamente indietro (per fortuna), almeno per quel che riguarda le questioni interne. Ma un po' di pazienza: lo abbiamo visto, la parola d'ordine è "aggregare". Tra un po' sarà così anche da noi.
rassegna stampa: la repubblica, 30 gennaio 2016 di Carlo Clericetti
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