Aggregare, fondere, ridurre di numero. E' la parola d'ordine per le
banche, non da oggi, ma da molti anni, e in tutto il mondo. Che ci
facciamo con quasi 400 piccole Banche di credito cooperativo, quasi
tutte monosportello? Aggregare, che diventino una sola. Pensa che
risparmio, unificare tutte le struttura possibili, che eliminazione di
sprechi, che guadagni di efficienza. E poi vuoi mettere, da 400
banchette insignificanti ne viene fori una bella grossa. Ma mica solo
quelle bisogna fondere, anche quelle più grosse, come Monte Paschi, Ubi e
compagnia. Perché noi abbiamo ancora solo due banche "di dimensione
europea", Intesa e Unicredit.
Già, di dimensione europea. Bell'esempio le banche europee (e non
parliamo delle americane), ottima riuscita. Solide, non si sono quasi
accorte della crisi. E poi mai uno scandalo, mai un imbroglio, mai una
strategia sbagliata. Soprattutto, mai un dubbio che quella del
gigantismo sia la strada giusta. Che importa se poi la crisi di una
grande banca può far fallire un intero paese, e quindi bisogna salvarla
per forza? Tanto basta aumentare le tasse ai cittadini, azzerare il
welfare, togliere qualsiasi garanzia ai lavoratori e poi il Pil
ricomincia a crescere, guardate com'è stata brava l'Irlanda.
Sì, ma i risparmi, l'efficienza? Beh, se per verificare l'efficienza
contano i risultati, forse non ci siamo. E i risparmi possono anche non
essere la strada migliore rispetto all'obiettivo da raggiungere. Già,
qual è l'obiettivo? Perché sono parecchi anni che a questa domanda si dà
una sola risposta: l'obiettivo è che "l'azienda guadagni", sia
competitiva rispetto alle altre dello stesso settore, "crei valore per
gli azionisti". Che tutto questo crei valore anche per la società si dà
per scontato, ci pensa "la mano invisibile". La "mano invisibile" è come
la Provvidenza: i suoi disegni sono imperscrutabili, ma è guidata dallo
spirito divino, quindi mica si può dubitare che alla fine produca il
migliore dei mondi possibili.
A pensarci bene, questa strategia dell'aggregazione si potrebbe
attuare anche nella scuola. Che ci facciamo con un milione di
insegnanti? Che spreco, che modo inutile di spendere i soldi delle
tasse. Adesso c'è Internet, ci sono le videoconferenze. Di professori ne
basterebbero un centinaio, uno per materia, e gli allievi tutti davanti
a un video ad ascoltare. Che impennata dell'efficienza!
Come? Non è la stessa cosa? Insomma, c'è da discuterne. Cominciamo
dal principio, cioè dall'obiettivo delle banche: quello prioritario
dovrebbe essere il credito all'economia, o no? Tutto il resto dovrebbe
venire dopo, compreso il fatto di fare più profitti possibile. Certo,
non devono perdere. E per non perdere dovrebbero prestare in modo
oculato. Per fare questo c'è bisogno di due cose: avere le competenze
necessarie per capire se l'impresa a cui si fa il prestito è valida e
conoscere i clienti. Il primo punto è critico da sempre, nella piccole
banche come nelle grandi: bisognerebbe affrontarlo, ma lì la dimensione
non conta. Il secondo punto comporta che non si possa ridurre troppo il
personale, così come non si possono ridurre gli insegnanti senza
rinunciare alla relazione personale che è un aspetto fondamentale della
questione: in questo secondo caso avremo un apprendimento scadente,
nell'altro aumenteranno i prestiti sbagliati.
Le banche stanno da tempo seguendo la strada opposta. Formazione
rispetto ai problemi delle imprese niente, accentramento dei poteri
decisionali (ormai un direttore di filiale ha poteri limitatissimi),
standardizzazione delle procedure quando un credito oculato andrebbe
studiato caso per caso. Certo, sui costi si risparmia, ma davvero è il
modo migliore di fare banca? Nel frattempo l'informatica ha ridotto la
necessità di personale che svolga lavoro di routine. E che ci si fa con
questi dipendenti in sovrappiù? In parte si riducono con tutti i mezzi
possibili (ah, che risparmi sul costo del lavoro!) e in parte gli si fa
formazione: per renderli adeguati a decidere a chi prestare? Ma no: per
farli diventare venditori di prodotti finanziari, visto che ormai si
guadagna con quelli, mica prestando all'economia. Poi dice che le
sofferenze aumentano...
Una rete di banche non enormi, con dipendenti debitamente istruiti e
in grado di attuare un controllo di merito sui prestiti che si fanno e
sull'andamento delle aziende affidate, sarebbe adatta alla struttura
della nostra economia, dove il 90% delle imprese sono piccole o
piccolissime. E vogliamo restare così? Chi assisterà le imprese più
grandi, chi darà loro i mezzi per farle crescere? A parte che mantenere
le banche piccole non significa che non ne debbano esistere alcune
grandi, c'è un altro aspetto da considerare, ossia il ruolo che possono
avere le banche d'affari: che neanch'esse debbono per forza essere
gigantesche. Goldman Sachs è un mostro, ma quando Kkr organizzò il più
grande leveraged buyout che si fosse visto fino ad allora, quello sulla
Rjr Nabisco, era una piccola boutique del credito. Mediobanca, che ha
guidato per quasi quarant'anni ogni più piccola mossa del capitalismo
italiano, era di dimensioni modeste, e così Lazard. Per organizzare le
grandi operazioni serve un nucleo pensante che può essere anche di
dimensioni ridotte, e poi propone l'affare a un certo numero di banche
le quali, se il proponente è di prestigio perché ha dimostrato di saper
fare affari, partecipano al finanziamento. Tra l'altro, se l'affare va
male - cosa che può sempre accadere - le perdite sono suddivise tra più
aziende di credito, che in questo modo non subiscono un colpo
drammatico. Agli investitori si dice sempre di "non mettere tutte le
uova in un solo paniere", cioè di diversificare il rischio. Il principio
è valido anche per le operazioni creditizie, tanto più che i dati sulla
composizione delle sofferenze bancarie mostrano che sono i prestiti di
importo più elevato ad essere più a rischio.
Bisognerebbe chiedersi come mai ciò accada. In parte probabilmente
perché il "capitalismo di relazione", in cui contano più i rapporti di
potere che l'andamento dell'impresa, è ancora tutt'altro che un ricordo.
In parte perché i grandi clienti sono naturalmente appetiti, e quando
vanno in crisi la banca tende a sostenerli anche oltre il ragionevole,
in accordo con il vecchio detto che "un piccolo debito è un problema
tuo, un grande debito è un problema della banca". La soluzione che i
grandi prestiti siano organizzati da una merchant bank potrebbe evitare
entrambi questi problemi: un istituto che proponga affari non perché
hanno buone possibilità, ma in seguito a pressioni politiche o interessi
di altro genere, durerebbe poco sul mercato: nessuna banca aderirebbe
alle sue proposte dopo i primi affari andati male.
Una delle obiezioni più diffuse è che le piccole banche siano per la
maggior parte covi di clientele, dove i prestiti vengono erogati,
appunto, per lo più con criteri discutibili. Indubbiamente ci sono stati
- e sempre ci saranno - casi in cui questo accade. Ma una banca piccola
è priva di quella rete di sicurezza che in gergo si chiama "rilevanza
sistemica", come invece hanno le banche "troppo grandi per fallire". E
dunque, se sbaglia per incapacità o per malafede, si può "risolvere" -
come si dice nell'ambiente - senza troppi problemi. E la consapevolezza
di questo fatto dovrebbe tenere a bada quell'"azzardo morale" (cioè
assumere rischi eccessivi perché si conta su un salvataggio senza il
quale si creerebbe un disastro a macchia d'olio, come il caso Lehman ha
insegnato) che ha provocato catastrofi in tutto il mondo.
E forse sta proprio qui uno dei motivi della corsa alla grande
dimensione: diventa molto grande, e sarai quasi al sicuro, tanto più che
raramente la rovina di una banca trascina con sé anche gli azionisti e i
manager, che in un modo o nell'altro restano quasi sempre a galla.
L'altro motivo è di potere: giganti il cui attivo è superiore al Pil
della maggior parte degli Stati (e spesso superiore a quello del paese
dove hanno sede) finanziano partiti e candidati, bloccano o modificano
le leggi, sono al di fuori e al di sopra di ogni controllo politico. E'
una delle cause più rilevanti del deperimento della democrazia a livello
mondiale. E basterebbe questo (o meglio: "dovrebbe" bastare) per
impedire che le aziende - non solo quelle del credito - diventino
giganti che non solo non si possono controllare, ma che a controllare
sono loro.
C'è poi un altro fattore da non trascurare. Il "Vangelo" delle
fusioni e acquisizioni è predicato da chi su queste operazioni ci
guadagna, grandi gruppi finanziari e agenzie di rating a cui sempre si
deve ricorrere per valutazioni, ingegneria finanziaria, eventuali
collocamenti di titoli. Sono gli stessi che in un altro capitolo di
questa Vangelo raccomandano di privatizzare tutto il possibile e anche
di più. Si può capire, alimentano il loro mercato. Quello che si capisce
meno è perché tutti gli diano retta: è un po' come chiedere: "Oste, il
tuo vino è buono?".
L'Italia, dal punto di vista dello strapotere dei gruppi finanziari, è
ancora relativamente indietro (per fortuna), almeno per quel che
riguarda le questioni interne. Ma un po' di pazienza: lo abbiamo visto,
la parola d'ordine è "aggregare". Tra un po' sarà così anche da noi.
rassegna stampa: la repubblica, 30 gennaio 2016 di Carlo Clericetti
http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2016/01/30/banche-siamo-sicuri-che-grande-e-bello/
@GORA' :
@GORA' :
UN LABORATORIO DI PENSIERO E RIFLESSIONE FATTO DAI LAVORATORI:
il diario della crisi
Post più popolari
-
Siena, Ambrogio Lorenzetti: il buon governo La democrazia economica è un piccolo passo per un singolo lavoratore ma un grande balzo per ...
-
La banca senese ha ceduto un pacchetto di 18mila posizioni non garantite, che già da prima del 2009 sono ...
-
L'intervento dopo accertamenti della procura di Milano. L'istituto Banca prende atto e stima impatto negativo su 2015 per 130 milio...