La tempesta perfetta
di GIUSEPPE BORELLO, LORENZO GIROFFI e ANDREA SCERESINI
VALENCIA - Sull'autobus che conduce alla periferia meridionale non c'è neanche lo spazio per passarsi una mano sulla fronte e asciugarsi il sudore. I più audaci viaggiano all'esterno della vettura aggrappati ad altre persone, basterebbe una sterzata improvvisa o una buca per farli piombare sull'asfalto. All'interno l'allegra melodia della salsa viene sparata a tutto volume ma gli sguardi sono assenti. L'unica preoccupazione grida un passeggero è: "Speriamo che questa volta ci sia farina per tutti". È l'alba e dai finestrini scorre una lunga fila di persone in attesa di entrare in un supermercato, molte sono donne coi bambini in braccio. "Fermati! Facci scendere!" si urla, la musica ormai non si riesce più a sentire. Scene di ordinaria quotidianità, nel Venezuela del dopo-Chavez sconquassato dalla crisi economica. Siamo nella città di Valencia, circa centocinquanta chilometri a ovest di Caracas: una piccola metropoli da tre milioni di abitanti famosa per essere il cuore produttivo del Paese, oggi però buona parte dei suoi cittadini combatte contro la povertà. Da tempo i dati ufficiali non vengono divulgati e così per tastare il polso della Repubblica Bolivariana bisogna affidarsi a organizzazioni non governative e internazionali. Secondo la ong Provea nel 2015 si avranno 11 milioni di poveri in Venezuela e il collettore di questa miseria galoppante diventa la città. Basta lasciarsi alle spalle il centro di Valencia per Plaza de Toros, dove si trova la più grande arena per corride del Sud America. In questa periferia meridionale le linee perfette degli architetti vengono cancellate da sterminati "barrios" di baracche fatiscenti, per i valenciani è "el Sur".
Quando un pollo vale più di un uomo. Proprio in zona si trova l'emblema della crisi venezuelana: il supermercato "El Bicentenario", il più grande dell'intera provincia. È stato nazionalizzato per volere del governo e ogni giorno - dal tramonto all'alba - è assediato da decine di migliaia di persone. I beni di prima necessità sono venduti a prezzi politici. Un litro d'olio, ad esempio, costa 103 bolivar, l'equivalente di 15 centesimi di euro. Per procurarselo, però, bisogna mettersi in fila per diverse ore, sperando di raggiungere la cassa prima dell'esaurimento scorte. Una volta terminata l'attesa, sarà necessario esibire la propria carta d'identità - la cosiddetta "cedula": "Oggi vendono olio e farina - spiega una signora anziana -. La distribuzione è riservata a coloro il cui numero di documento finisce con uno, due o tre. Gli altri dovranno presentarsi o domani o dopodomani, e così via con gli altri prodotti.
Venezuela, supermercati vuoti e lunghe file per i generi di prima necessità
Non ci sono grosse alternative: l'unica è morire di fame". Non di rado, le lunghe attese sotto il sole si risolvono in immense risse tra disperati, con un immancabile corollario di morti e feriti. Nel solo "Bicentenario", durante la prima settimana di agosto, hanno perso la vita ben due persone, una anziana e un bambino: entrambi sono stati travolti dalla folla in corsa, in seguito all'apertura di una nuova cassa. "È arrivato il pollo e tutti ci siamo messi a correre - ricorda Margarita, una testimone - . È stato in quel momento che hanno atterrato una signora anziana. Nella caduta si è rotta la testa e nonostante il sangue sul pavimento, la gente continuava a camminarle sopra. Infine quando siamo arrivati alla cassa ci hanno detto: 'No, abbiamo smesso di vendere'".
Pistole e coltelli. Oggi il punto vendita è presidiato da decine di soldati in divisa verde oliva, con tanto di kalashnikov a tracolla: sbirciando tra le file serrate, nonostante la loro presenza, non è per niente raro veder luccicare un coltello, un coccio di bottiglia o il calcio di una pistola. È una drammatica guerra tra poveri, combattuta per accaparrarsi poco più del nulla. Basta guardarsi un po' attorno per rendersi conto che buona parte degli scaffali sono desolatamente vuoti. Shampoo e sapone sono praticamente introvabili. Lo stesso vale per tante medicine, per i preservativi, e addirittura per l'acqua minerale. Per salvare almeno le apparenze, i responsabili del punto vendita hanno ripiegato su una soluzione grottesca: laddove le mensole andavano svuotandosi, hanno iniziato a riempirle con ogni genere di avanzo di magazzino - lumini per le tombe, detersivi per parabrezza, fiori di plastica. Il tutto ripetuto ossessivamente, in sprezzo a qualsiasi senso del ridicolo, come in un eterno film dell'orrore.
La tentazione dei petrodollari. Di chi sono le colpe? La "vox populi", almeno da questo punto di vista, è piuttosto concorde: "Gobierno criminal", mormora la gente in coda. Il Venezuela è il dodicesimo produttore di petrolio al mondo e negli anni ha basato il suo modello di sviluppo unicamente sulla vendita dell'oro nero, raggiungendo il 96 per cento delle esportazioni. Il boom del greggio degli ultimi 15 anni, con il barile oltre i 100 dollari, ha trainato il Pil venezuelano, passato da 98 a 509 miliardi di dollari. L'enorme afflusso di banconote verdi ha permesso al "comandante eterno" Hugo Chavez di promuovere politiche di distribuzione della ricchezza e altri piani di intervento come le "Misiones Bolivarianas". Mentre la rivoluzione socialista macinava consensi sia all'estero che alle urne, Chavez ha dato inizio a un piano di nazionalizzazioni ed espropriazioni che ha interessato tutti i settori. Così molte terre e industrie sono passate sotto il controllo statale minando la fiducia degli investitori privati. La doccia fredda è arrivata nel 2014: la concorrenza dei produttori di shale gas, il rischio dell'uscita della Grecia dall'Unione europea, i timori sul raffreddamento della crescita cinese e l'accordo Tehran-Washington che inonderà il mercato di petrolio iraniano; questi elementi hanno spinto il prezzo del barile sotto i 50 dollari.
"Perché il Venezuela è arrivato al collasso"
Per il professore Pablo Polo, responsabile della facoltà di economia dell'università di Valencia, il crollo dell'oro nero ha scoperto la fragilità dell'economia di Caracas: "Non ci sono dollari a sufficienza quindi non si importa e non si produce per mancanza di materie prime, anch'esse importate. La risposta del governo? Stampare più moneta locale". Il bolivar si è svalutato rapidamente generando così un processo di iperinflazione senza precedenti: "la tempesta perfetta", lo hanno soprannominato. Secondo i bollettini periodici della Banca centrale venezuelana l'inflazione nel 2014 ha sfiorato il 70 per cento. Mentre per quest'anno le previsioni sono da incubo, la Bank of America stima un aumento dei prezzi del 170 per cento.
Senza farina ma con la benzina gratis. La sua drammatica entità è riassumibile in un pugno di dati. Secondo il cambio ufficiale, per acquistare un dollaro sono necessari 6,3 bolivar. Questa equivalenza, tuttavia, è valida solo sulla carta. La quotazione reale viene dettata dal mercato nero, in base alle contrattazioni che avvengono ogni giorno nel tratto di giungla al confine con la Colombia e che riguarda i prodotti venezuelani calmierati. Tra questi questi c'è la benzina, a Valencia un automobilista spende l'equivalente di un centesimo di euro per un pieno, oltre confine ci vogliono 25 euro per 40 litri. Un paradiso per i contrabbandieri. Tali dati vengono poi pubblicati su internet sul sito Dolar Today, e attraverso la rete dettano l'agenda economica del Paese. Per acquistare un dollaro sono attualmente necessari almeno 700 bolivar, ovvero oltre cento volte ciò che predica il governo.
Il gap continua ad aumentare, giorno dopo giorno, e con esso i prezzi dei prodotti non calmierati. La banconota di taglio più alto, quella da cento bolivar, vale poco più di dieci centesimi di dollaro. Le monete hanno smesso di circolare, mentre i tagli cartacei più piccoli - uno, due, cinque e dieci bolivar - sono così svalutati che il loro valore nominale è diventato più basso di quello materiale. Letteralmente, dunque: non valgono la carta sulla quale sono stampati. In un simile contesto, il mondo legale e quello illegale hanno finito ben presto col capovolgersi: il cambio clandestino ha soppiantato quello ufficiale, mentre il mercato nero sta letteralmente fagocitando l'intera economia.
Il mercato nero ha soppiantato quello regolamentato. È nata una nuova figura lavorativa, quella del "bachaquero". Alla lettera, significa "formichina": è colui che ogni giorni si mette in fila di fronte ai supermercati, facendo incetta di prodotti di prima necessità e rivendendoli poi, per strada o nelle piazze, a prezzi sensibilmente maggiorati. Se nei negozi non si trova nulla, ai "bachaquero" si può domandare di tutto: a patto, ovviamente, di avere i soldi necessari per pagare. Così la nostra bottiglia d'olio, che ufficialmente costa 103 bolivar, può essere agevolmente recuperata sul mercato nero - senza risse né code - al prezzo di duecentocinquanta Bolivar. Lo stesso vale per le medicine, per il sapone, per i preservativi e per l'acqua. È tutta questione di soldi, il che effettivamente suona piuttosto paradossale - in un Paese che a sedici anni dal trionfo di Chavez continua a definirsi "socialista".
I nemici stranieri. Negli scorsi giorni, la polizia venezuelana ha espulso dal Paese circa millecento cittadini colombiani, rei - secondo le accuse di Maduro - "di aver fomentato il contrabbando e aver dato vita a gruppi paramilitari antigovernativi". Una tesi che appare piuttosto scricchiolante, dal momento che tra i deportati figurano anche diversi anziani e almeno duecento bambini. Decine di abitazioni sarebbero state distrutte dalle forze dell'ordine di Caracas, che avrebbero intimato agli occupanti di sgomberare immediatamente e senza alcun preavviso. "Come si può dire che una povera anziana deportata è colpevole della scarsità di prodotti di base di cui soffre il popolo venezuelano?", ha dichiarato senza mezzi termini il presidente colombiano Juan Manuel Santos. Da parte sua, l'erede di Chavez parla di "mistificazioni e falsità", ma nel frattempo la tensione continua a crescere. È lo spettro della cosiddetta "guerra economica", un presunto complotto internazionale orchestrato da Washington, con l'appoggio dei Paesi limitrofi, che secondo Maduro sarebbe il principale responsabile della crisi nella quale versa la nazione.
La tesi viene riproposta in ogni occasione, per mezzo dei media governativi: "Dobbiamo unirci tutti, civili e militari, in una grande controffensiva economica - ha annunciato il presidente -. Solo in questo modo potremo porre fine alla guerra economica che sta affamando il nostro popolo". Lo specchietto per le allodole ha il duplice ruolo di sviare l'attenzione dalle vere responsabilità del governo, giustificandone - nel contempo - ogni campagna politica. Prima di scagliarsi contro la Colombia, Maduro aveva duramente attaccato la Guyana, colpevole - secondo una vecchia tesi nazionalistica - di aver occupato fin dal lontano 1899 alcuni territori appartenenti al Venezuela. L'antica disputa ha tenuto banco per tutta l'estate, in una grottesca sciarada sciovinista che ha raggiunto il suo apice con la seguente dichiarazione del presidente: "L'obiettivo della Guyana è provocare il Venezuela".
L'opposizione politica dietro le sbarre. A meno di tre mesi dalle elezioni parlamentari del 6 dicembre, le autorità di Caracas sono alla disperata ricerca di nuove mosse propagandistiche. I sondaggi danno ormai per certa la vittoria dell'opposizione, anche se sono fuori gioco i suoi leader più carismatici tra cui Leopoldo López, guida del partito d'opposizione venezuelano Voluntad Popular, condannato a 13 anni di carcere con l'accusa di aver fomentato le rivolte dell'anno scorso contro il governo. Esclusa anche María Corina Machado, altra leader di Voluntad Poular, che non potrà candidarsi per alcune presunte irregolarità nella dichiarazione dei buoni pasto, in passato è stata accusata di ordire un piano per assassinare Maduro. Dopo l'arresto l'oppositrice sta cercando di svegliare le coscienze dei venezuelani pronti ad andare alle urne: "È una sentenza contro un uomo innocente senza che ci siano prove. Il cammino della libertà di Leopoldo Lopez è nelle mani di ogni venezuelano".
Fuori anche l'ex sindaco di San Cristobal Daniel Ceballos recluso per aver provocato disordini. Ma l'ultima parola per il partito socialista unito del Venezuela non è ancora stata detta. Pechino concederà al Paese latinoamericano un prestito di cinque miliardi di dollari. Nel contempo, è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione decennale, che riguarderà lo sviluppo del settore energetico, l'agricoltura e la tecnologia: i capitali cinesi potranno forse donare un po' di ossigeno alla disastrate finanze del post-chavismo. Dal canto suo, Caracas ricambierà con l'unica moneta di scambio che ancora gli resta a disposizione: greggio a basso costo.
Un bollettino di guerra. L'illegalità, del resto, ha sempre un suo prezzo da pagare: mercato nero uguale business, business uguale denaro, denaro uguale mafia. Per difendere i loro fiorenti imperi, i trafficanti locali hanno messo in piedi decine di bande armate, i cui scagnozzi seminano il panico in ogni angolo della nazione. Oggi il Venezuela è il secondo Paese più violento al mondo, dopo l'Honduras. L'anno scorso si sono contati circa 25mila omicidi. Nella sola regione di Valencia - lo stato Carabobo - sono state uccise nel mese di luglio di quest'anno 139 persone, per la maggior parte adolescenti. La chiamano crisi economica. Forse, bisognerebbe ribattezzarla guerra civile.
L'ambasciatore: "Ecco il vero Paese"
di DANIELE MASTROGIACOMO
ROMA - Ambasciatore Diaz: cosa accade in Venezuela?
"E' il sintomo di quello che sta accadendo in tutta l'America latina".
Ma in Venezuela c'è penuria di generi di prima necessità, una violenza inarrestabile, una conflittualità politica esasperante....
"Quello che leggiamo, ascoltiamo e spesso vediamo sui mezzi di comunicazione non testimonia sempre la realtà del paese che rappresento. Non voglio certo negare le difficoltà economiche in cui ci troviamo, la conflittualità politica con le opposizioni. Ma la sensibilità di voi europei è diversa da quella che si prova e si vive non solo in Venezuela ma in tutto il Continente latinoamericano. Per raggiungere una tappa di un processo sociale di trasformazione occorrono 2-300 anni. Voi avete avuto il tempo di uscire dal medio evo, dalle rivoluzioni, dalle grandi guerre prima di raggiungere una democrazia. L'America latina è ancora immersa in una società feudale. Siamo ad un terzo del percorso, dobbiamo seguirlo e compierlo per intero. Dateci il nostro tempo".
Julian Isaias Rodriguez Diaz è un docente di Diritto colto e raffinato. Già ambasciatore in Spagna, oggi rappresenta il Venezuela in Italia. Il suo eloquio è da politico di lungo corso: un militante che conosce bene il suo paese perché lo ha vissuto in tutte le sue diverse fasi. Nel 1967 ha fondato con Luis Beltràn Prieto Figueroa il "Movimento elettorale del popolo", una formazione socialdemocratica nata dalla scissione con il Partito socialcristiano in quel momento al potere. Nel 2000 è stato per un anno vicepresidente della Repubblica bolivariana e per sette Procuratore generale e poi giudice della "Sala Costituzionale del Tribunale Supremo". Nelle sue parole non c'è l'enfasi populista che accomuna molti politici della Revoluciòn bolivariana. C'è analisi, visione globale, capacità critica. Una rarità anche per un diplomatico chiamato a spiegare le ragioni di una crisi che mettono a nudo un sistema in affanno.
"La dominazione della Spagna e del Portogallo", ricorda l'ambasciatore Diaz, "ha provocato un grande e lungo silenzio sull'America latina. E' stata svuotata la sua stessa identità. Inghilterra e Francia hanno giocato un ruolo molto importante sostituendo il dominio della Corona di Madrid. Gli Usa, approfittando delle Guerra fredda, hanno infine impresso al Continente un criterio unipolare. Impulso che ora, per fortuna, ha lasciato il passo ad un approccio multipolare. La sua migliore espressione, se vuole, è la recente riunione di Vienna dove si è applicato un criterio diverso per affrontare una crisi globale come quella provocata dalla guerra in Siria".
Un approccio che è mancato con l'America latina?
"La lunga dominazione coloniale ha finito per essere una dominazione cerebrale oltre che economica. Tutti i grandi politici e dirigenti del Continente, fino all'apparizione sulla scena politica del Che e di Fidel, erano condizionati dagli effetti della dottrina Monroe. La lotta armata contro le diverse oligarchie e i fronti golpisti fu alla fine sconfitta. Prevalse una soluzione diversa: la dialettica politica. I problemi si potevano risolvere, quando si poteva, in modo pacifico. Con le elezioni. Tutto questo per noi rappresentava una vera rivoluzione. Per voi era semplicemente democrazia".
Questo è stato un processo lungo. Ma in Venezuela si ha l'impressione che ci sia un ritorno al passato. Si ricorre alla violenza per far valere le proprie ragioni.
"Ci sono due diverse visioni del mondo e delle società. In questi giorni in Inghilterra i laburisti hanno candidato Jeremy Corbyn. E' un parlamentare di 33 anni e rappresenta quella che era la socialdemocrazia originaria di Olof Palme, il leader svedese poi assassinato. Ecco, raccogliendo quegli stessi principi, oggi Corbyn rilancia alcune proposte che sintetizzano una di queste visioni: eliminare le privatizzazioni, estendere a tutti la salute e l'educazione, lottare contro l'austerità perché fonte di disparità economica e sociale. Il Venezuela è sulla stessa scia".
Eppure le diseguaglianze sociali persistono anche nel suo paese.
"In Brasile sono molto più forti".
Effetti della globalizzazione? Ma quanto pesano gli errori umani, le scelte dei singoli che guidano i paesi?
"In tutti i processi sociali, come quello venezuelano, la lotta alla diseguaglianza sociale incontra molti ostacoli. Ti trovi a lottare contro i poteri creati. Locali e internazionali: quelli che chiamiamo genericamente l'establishment. Corbyn lotta per riscattare gli esclusi, colmare le diseguaglianze. Riprende un percorso che l'Europa aveva compiuto in parte e poi abbandonato. Noi abbiamo appena iniziato e vogliamo raggiungere quello che voi avete già ottenuto".
Ma poi pesano gli errori. Sia Chavez sia Maduro ne hanno commessi...
"Gli errori ci sono stati. E' impossibile, in un processo sociale così complesso e difficile, non commetterli. Chavez cercò di colmarli con altre scelte: tentò di diversificare l'economia venezuelana che dipendeva troppo dal petrolio. Tentò di avviare una rivoluzione agraria all'interno del paese".
Il Venezuela ha vissuto i suoi momenti d'oro. Come negli anni 70 del secolo scorso. Sembrava l'Eldorado sudamericano. Oggi si fatica a mettere insieme un pranzo.
"Ho vissuto in pieno quel periodo. C'era il petrolio, enormi riserve, tantissimo denaro. Ma tutto concentrato in alcune mani. Si comprava ogni cosa a prezzi esorbitanti. C'era una corsa frenetica, compulsiva agli acquisti. All'estero. Si importava al doppio, triplo dei costi. Si sperperava più che spendere. Ma lo facevano solo alcune grandi famiglie: il 10 per cento della popolazione. Il resto, la stragrande maggioranza, ne era escluso. Restava ai margini".
Il sogno è crollato?
"E' stato in quel periodo che si sono create le condizioni per quello che è avvenuto dopo. Chavez, all'epoca, raccoglieva un 7 per cento di consensi. Ma quel 90 per cento di esclusi, di invisibili, gente che non aveva lavoro, sanità, istruzione, lo sostenne. Chavez è una creatura del popolo. Non il contrario".
Fino al suo trionfo. Poi è arrivata la crisi, i consumi si sono ridotti, come le esportazioni. Il prezzo del petrolio è sprofondato. Tutti gli introiti sono stati dirottati sul progetto bolivariano...
"No. Poi è morto Chavez. E il suo processo si è interrotto. Abbiamo sconfitto l'analfabetizzazione, dato a tutti l'accesso alla salute; siamo secondi solo a Cuba, in tutto il Continente, per il più alto numero di matricole all'università. Questo si è scontrato con le forze che rappresentavano i vecchi poteri. Molte fabbriche sono andate all'estero, sono rimaste solo quelle essenziali. Il lavoro di riscatto e di uguaglianza sociale non si è fermato. Stiamo parlando di un processo che dura, di solito, 150 anni".
Ma la gente ha bisogno di soluzioni immediate. Vuole vedere progressi.
"Se Bolivar fosse morto prima del tempo il Venezuela non sarebbe stato liberato dal dominio spagnolo".
L'opposizione è divisa. C'è un vuoto nell'arena politica del paese che nuoce al dibattito. Alla stessa democrazia.
"Certo. Ma le divisioni nascono quando manca un progetto serio e credibile. Le proposte sono delle singole persone che aspirano al potere. Leopoldo Lopez si divide da Enrique Capriles perché minaccia di sottrargli la leadership. Senza una visione collettiva si sbaglia e si perde. Chavez lo capì bene e il suo successo è proprio dovuto a questo".
Pesa l'assenza di una nuova idea, di un progetto forte?
"Accade anche in Italia. Per anni, nel Continente europeo, era il paese più importante dopo l'allora Urss. Ma c'era stato Antonio Gramsci. Oggi manca un pensatore del suo calibro; stupisce che un partito di sinistra non lo abbia più come punto di riferimento. Perché Gramsci ebbe il merito di sollevare il problema dell'egemonia. Il grande dibattito politico-culturale di questi anni non è più la lotta di classe ma l'egemonia del pensiero dominante. Bisogna offrire alla gente gli strumenti per un'analisi critica. Devi insegnare loro nuovamente a pensare. C'è un grande vuoto che va colmato".
Leopoldo Lopez è stato condannato a 13 anni e 9 mesi di carcere. Per aver ispirato le proteste di piazza del 2014. Come ex magistrato non trova che sia una condanna eccessiva?
"Le risponderò come uomo di legge. Il nostro Diritto risale al 1905. Ha grossi limiti e va riscritto, non riformato. Deve adeguarsi ai tempi. Il codice di procedura prevede un arco di condanne molto ampio per certi tipi di reati. Anche volendo, non sei in grado di comminare delle condanne al di sotto di un limite".
E' un problema quindi solo tecnico?
"Il Venezuela ha una lunghissima storia di violenze. I primi desaparecidos sono apparsi qui, solo dopo in Argentina e Cile. Oppositori uccisi, torturati, lanciati nel vuoto dagli elicotteri. La nostra sensibilità è diversa dalla vostra. Proprio a causa di questa terribile scia di sangue. Lopez, con i suoi appelli alla rivolta e ai blocchi stradali, si è reso responsabile della morte di 43 persone".
Uno dei rappresentanti della pubblica accusa è fuggito perché, sostiene, è stato sottoposto a enormi pressioni per sostenere prove false.
"Non sono in grado di valutare certe scelte e dichiarazioni senza aver letto gli atti del processo".
Ma si sarà fatto una idea.
"So che in passato si condannava un bambino a 9 anni di carcere per aver rubato una mela".
Verità e bugie sui giorni delle "guarimbas"
(d.m.) La protesta scattò all'improvviso: un centinaio di giovani si riversò per le strade di San Cristòbal, nello Stato di Tàchira, e iniziò a bloccare il transito con delle barricate. Restarono lì per un giorno intero prima che arrivassero i soldati della Guardia nacional. Poi, iniziarono gli scontri. Con i primi morti e i primi feriti. Era il 4 febbraio del 2014: una data rimasta impressa nella storia politica del Venezuela. Ma anche nella memoria di milioni di uomini e di donne divisi dalla durissima battaglia tra una maggioranza di chavisti al governo e una opposizione incapace di elaborare una proposta alternativa convincente.
In questo abisso fatto di violenze, dolore, sangue e da una crisi economica che ha paralizzato il paese, in molti cercano ancora un barlume di giustizia e di verità su quelli che tutti conoscono come i giorni delle guarimbas. Un nome che significa "nascondino": il classico gioco da bambini e che in Venezuela affonda le sue radici negli anni 50 del secolo scorso quando la sinistra messa al bando combatteva contro la dittatura di Marcos Pérez Jiménez (1952-1958).
Barricate. La protesta, il 12 febbraio, raggiunge anche la capitale Caracas. Sostenuta dagli appelli lanciati dal Foro general venezuelano, il Fronte che univa tutti i partiti di opposizione, migliaia di studenti e di semplici cittadini iniziarono a bloccare incroci, piazze e vie con delle barricate. Nei video messi in rete si vedono giovani e meno giovani, uomini e donne, il volto coperto da fazzoletti e magliette, che si scontrano con la polizia. Tra lanci di pietre, razzi, raffiche di candelotti lacrimogeni e altissime barriere di fuoco attizzate dalle molotov iniziano a spuntare le armi. Soprattutto di alcuni cecchini che iniziarono a far fuoco. Non si sa ancora chi fossero. Alcuni sostengono che facevano parte di qualche apparato dei Servizi segreti; altri puntano il dito sui manifestanti e ricordano che i proiettili esplosi provenivano da armi private, da difesa personale. Fucili di precisione capaci di colpire da grandi distanze.
Golpe bianco. Sotto il piombo di questi fantomatici killer mai individuati caddero 43 persone (oppositori, sostenitori del governo accorsi a fronteggiare le rivolte, funzionari e agenti della Guardia nazionale), altri 486 risultaronono feriti e 1854 furono arrestati. La rivolta durò una decina di giorni e l'intero paese fu messo a ferro e fuoco. Scattò il coprifuoco, il governo decretò leggi severissime contro quello che fu definito il golpe bianco. Vennero emessi dei mandati di cattura nei confronti dei principali leader dell'opposizione accusati di essere gli ispiratori della protesta. Il presidente Nicolas Maduro parlò apertamente di azione da parte di "fascisti" e indicò gli Usa come sostenitori e finanziatori del tentativo di rovesciare con la forza "un governo eletto democraticamente". Ossessionato dai complotti, infuriato dalla decisione statunitense di inserire una decina di alti esponenti del governo e di imprenditori in una lista di personalità non gradite, colpito da un blocco delle importazioni che ha finito per alimentare la spira inflazionistica, il capo dello Stato ha accusato anche la vicina Colombia di ordire trame contro il suo governo. Ha indicato l'ex presidente della destra radicale Alvaro Uribe e una serie di mercenari fotografati lungo il confine di preparere un golpe. Accuse mai provate che sono però servite ad alimentare la sindrome dell'assedio e a distogliere l'attenzione sui reali problemi del paese.
"Un cecchino ha ucciso mio marito"
La fuga del Pm dell'accusa. La deputata Maria Corina Machado, l'ex sindaco di Chacao Leopoldo Lopez, Antonio Ledezma e Daniel Cabellos, tutti leader dell'opposizione, furono incriminati per istigazione pubblica, associazione a delinquere, danni a proprietà dello Stato, incendio doloso. Molti vennero incarcerati, altri affrontarono processi con durissime condanne. Leopoldo Lopez è ancora rinchiuso nel carcere di Ramo Verde e pochi giorni fa gli sono stati inflitti 13 anni e 9 mesi di carcere in un dibattimento da lui definito " una farsa". Al di là della pesante condanna, è comunque vero che molte garanzie previste per gli imputati non sono state rispettate. Il ruolo dei diversi leader incriminati, il loro profilo politico, la loro stessa attività vengono messi in discussione. I seguaci di Hugo Chavez li considerano espressione di quella destra radicale che ha sempre cercato un riscatto dopo il trionfo del Comandante morto nel 2013; l'opposizione si definisce invece legata a principi liberali e socialdemocratici. Quello di Lopez è destinato a diventare un caso. Non solo per le modalità del processo e l'entità delle pena, tra le più criticate negli ultimi anni nel paese. Ma per la fuga, improvvisa e inaspettata, di uno dei due pm che sostenne la pubblica accusa nel dibattimento. Giovedì 22 ottobre è cominciata a girare la voce a Caracas che il procuratore Franklin Nieves aveva lasciato il Venezuela per una vacanza nelle Antille olandesi. Ma ben presto la versione edulcorata del governo si è trasformata in un boomerang che ha scosso il paese. Lo stesso magistrato ha messo in rete un breve video nel quale annuncia di essere stato costretto ad abbandonare il Venezuela per l'isola di Aruba e di essere deciso ad andare negli Usa dove chiederà asilo politico. "Ho deciso di lasciare il mio paese", spiega il giudice, "per le forti pressioni che ho ricevuto dall'Esecutivo e dai miei superori gerarchici. Pretendevano che continuassi a sostenere la false prove che hanno portato alla condanna di Leopoldo Lòpez". Chiamato a sostenere l'accusa anche nel processo d'appello con la sua collega Narda Sanabria, il magistrato ha sostenuto che la sua coscienza gli "impediva di continuare a sostenere la fondatezza di prove e di vedere un uomo relegato ingiustamente in carcere". La difesa di Lopez ha commentato in modo lapidario: "Un magistrato che deve lasciare il suo paese per sostenere la verità è la dimostrazione più lampante del livello di democrazia esistente in Venezuela". Sei ex presidenti di altrettanti paesi latinoamericani hanno criticato il processo e l'"ingiusta detenzione di Lopez e di tanti altri esponenti politici". Felipe Calderon (Messico), Laura Chinchilla( Costa Rica), Ricardo Lagos (Cile), Jorge Quiroga (Bolivia) e Alejandro Toledo (Perù), tutti membri del Club di Madrid, chiedono che il presidente Maduro venga sospeso dal Consiglio dei Diritti umani dell'Onu dove occupa un seggio perchè, a loro parere, "non rispetta tali diritti nel suo paese".
Repressione. Sullo sfondo di una polemica rovente e di una repressione durissima, giustificata dal governo che gridava al colpo di Stato, restano quei 43 morti di cui nessuno si assume la responsabilità. La tesi della maggioranza che punta il dito contro i manifestanti è stata smentita da una controinchiesta dei media locali. Nel video che vi proponiamo parlano due esponenti del "Comitato vittime delle guarimbas e del golpe continuato": Oscar Carrero e Yendry Zulay Velasquez. Sono venuti in Europa e in Italia per sostenere la loro battaglia di verità e giustizia. Hanno incontrato esponenti parlamentari del M5 stelle e di Sel, gruppi di difesa dei diritti umani, rappresentanti del Vaticano. Il primo è un camionista che si è visto mozzare la mano destra per un razzo lanciato contro il suo mezzo rovesciato e assaltato. La seconda è un tenente della Guardia nazionale venezuelana che negli scontri ha perso il marito, il capitano Ramzor Ernesto Bracho Bravo. Raccontano quello che hanno visto. Una verità che resta ancora avvolta da molti misteri.
La guerra del contrabbando con la Colombia
di ROSITA RIJTANO
CARACAS - Una bomba a orologeria. La frontiera tra Venezuela e Colombia è sempre stata così. Con i suoi 2mila e passa chilometri di estensione, e spazi difficili da pattugliare. Una terra di mezzo, segnata da problemi endemici. Prima di tutto, la presenza di gruppi di guerriglieri colombiani, sia legati alle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) sia all'Esercito di liberazione nazionale (Eln). Poi l'attività quotidiana dei contrabbandieri. Certo, i narcotrafficanti. Ma anche spacciatori di benzina, come di beni di prima necessità. Dal latte alla farina, passando per il riso. Tutti alimenti che, grazie all'intervento statale, in Venezuela sono a basso costo. E perciò vengono trafugati per poi essere rivenduti sul mercato nero del paese vicino, a costi maggiorati. Con l'obiettivo di ricavare grandi profitti. Un'operazione illegale. "Oltre il 40 per cento dei beni sovvenzionati dal nostro governo finisce a Bogotà", è da tempo l'accusa lanciata da Caracas. Da qui una dura battaglia, iniziata oltre un anno fa: sono state 19mila le tonnellate di materiale sequestrate nel primo periodo d'attività, stando alle stime istituzionali. Mica poche. Numeri importanti, sotto cui si nascondeva una polveriera pronta ad esplodere. Fino all'accensione della miccia.
Frontiere chiuse. È il 19 agosto scorso, quando quattro venezuelani - un civile e tre militari a caccia di trafficanti - rimangono feriti in un conflitto a fuoco nella città di San Antonio del Táchira, un crocevia tra i due Stati limitrofi. I colpevoli? "Forze paramilitari colombiane", assicura il governo del Venezuela. I risultati? Frontiere chiuse, trentamila uomini schierati nelle zone critiche, perquisizioni "casa per casa" in duemila abitazioni di confine. E la deportazione di circa 1500 immigrati colombiani irregolari. Ecco le misure immediatamente adottate dal Presidente della Repubblica Bolivariana, Nicolás Maduro. "Prima si applica il laccio emostatico per fermare l'emorragia. E poi si cura la ferita", la sua filosofia. "Questo proteggerà il nostro popolo dagli attacchi dei paramilitari, dei contrabbandieri e dei trafficanti di droga". Dall'altra parte però ci sono famiglie divise, diritti umani violati, un regime di polizia. È l'opposta faccia della medaglia, denunciata dalle associazioni umanitarie. Gli effetti sociali sono immediati: secondo le Nazioni Unite, sono circa 20mila le persone coinvolte dalle manovre. Tra chi è stato esiliato con la forza e chi invece ha scelto la fuga in maniera volontaria, spinto da un clima xenofobo sempre più pressante. Sì, perché l'episodio ha consentito a Maduro non solo di attuare una repressione fisica. Ma pure di alzare i toni della propria propaganda contro la Colombia. E di accusare il suo corrispettivo a Bogotà, Juan Manuel Santos, di essere alla guida di un "complotto contro rivoluzionario". Ma la verità è che in questa zona di confine contrabbando, paramilitari e narcotraffico esistono anche grazie a un radicato sistema di corruzione bilaterale. E non sono affatto una novità. "Questi problemi ci sono da sempre, per diverse ragioni. E sono stati combattuti dallo Stato, con maggiore o minore efficacia. La soluzione non passa per una chiusura della frontiera", commenta a Repubblica. it Agrivalca Ramsenia Canelon Silva, docente di Comunicazione politica all'Universidad de La Sabana, in Colombia. "Inoltre, i provvedimenti non migliorano né la fiducia né la cooperazione che dovrebbero esistere tra i due paesi. E hanno effetti negativi diretti sulla qualità della vita nelle zone coinvolte".
Perché adottarli? Per gli oppositori di Maduro, la risposta può essere cercata nelle prossime elezioni per il rinnovo dell'Assemblea Nazionale, previste il 6 dicembre: una data simbolica, dato che proprio lo stesso giorno, anno 1998, Hugo Chávez fu eletto presidente con il 56 per cento dei voti. Passato e presente si fondono. Con una grande differenza: al contrario del "caudillo", infatti, il suo erede è ora in grossa difficoltà.
Capro espiatorio. Così la Colombia diventa un perfetto capro espiatorio per sviare l'attenzione pubblica dai problemi interni. Come suggerisce al Time l'analista politico di Caracas, Luis Vicente León. Senza dimenticare che l'accordo di pace in diritturea d'arrivo tra il presidente Santos e il leader delle Farc Timoleon Jimenez, detto Timochenko, potrebbe riabilitare Bogotà sui mercati internazionali, a scapito del Venezuela. Il blocco di confine? Un'operazione di politica interna, quindi, e a sostegno di questa tesi c'è il fatto che, oltre alla chiusura delle frontiere, il presidente venezuelano ha decretato lo stato d'eccezione in alcuni municipi di confine. Una misura prevista negli articoli 337 e 339 della costituzione Bolivariana. E che comporta, tra le altre cose, dei limiti nella libertà di manifestare. Non solo. "Paventando l'ipotesi di un conflitto con uno stato terzo, Maduro potrebbe anche decidere di sospendere le elezioni in caso di risultato anti-chavista", conclude Canelon Silva. Del resto, la tattica non è poi così inusuale: da Fidel Castro allo stesso Chávez, che per anni hanno cavalcato la propaganda contro l'imperialismo statunitense, passando per il conflitto delle isole Falkland, usato dalla giunta militare argentina per rafforzare l'identità nazionale. Tutti a caccia del nemico esterno, pur di non dover affrontare quello interno.
rassegna stampa: la Repubblica 6 novembre 2015
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2015/11/06/news/venezuela_sull_orlo_del_vulcano-125210734/?ref=HREC1-35