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UN LABORATORIO DI PENSIERO E RIFLESSIONE FATTO DAI LAVORATORI:
il diario della crisi

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sabato 28 novembre 2015

Una partita Iva su quattro vive in povertà


Lavoratori autonomi a rischio povertà
Sono loro i più colpiti dalla crisi

Cgia: una partita Iva su quattro sotto la soglia

L'allarme della Cgia di Mestre: "L'anno scorso il 24,9% delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo ha vissuto con una disponibilità economica inferiore a 9.455 euro annui"

Una partita Iva su quattro vive in povertà    MILANO - La crisi travolge gli lavoratori autonomi. Quelli che - secondo la Cgia di Mestre - nel 2014 sono stati colpiti più di tutti dalla povertà in ambito professionale. L'anno scorso il 24,9% delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo ha vissuto con una disponibilità economica inferiore a 9.455 euro annui, ovvero sotto la soglia di povertà definita dall'Istat. Per le famiglie con reddito da pensioni o trasferimenti sociali l'incidenza si è attestata al 20,9%, mentre per i lavoratori dipendenti il dato scende al 14,6%.

A causa della crisi economica da cui l'Italia ancora fatica a riprendersi, tra il 2010 e il 2014 la quota di nuclei familiari in cattive condizioni economiche è aumentata, per la Cgia, di 1,2 punti percentuali. Per i pensionati la povertà è scesa dell'1%, mentre tra i dipendenti è aumentata dell'1%: tra il popolo delle partite Iva l'incremento è stato del 5,1%, anche se va sottolineato che nell'ultimo anno la variazione è stata pressoché nulla.

"Purtroppo - segnala il coordinatore dell'Ufficio studi della Cgia Paolo Zabeo - questi dati dimostrano che la precarietà presente nel mondo del lavoro si concentra soprattutto tra il popolo delle partite Iva. Sia chiaro, la questione non va affrontata ipotizzando di togliere alcune garanzie ai lavoratori dipendenti per darle agli autonomi, ma allargando l'impiego di alcuni ammortizzatori sociali anche a questi ultimi che, almeno in parte, dovrebbero finanziarseli".

Zabeo sottolinea la disparità di trattamento tra le due posizioni lavorative: "Quando un lavoratore dipendente perde momentaneamente il posto di lavoro può disporre di diverse misure di sostegno al reddito e nel caso venga licenziato può contare anche su una indennità di disoccupazione. Un autonomo, invece, non ha alcun paracadute. Una volta chiusa l'attività è costretto a rimettersi in gioco affrontando una serie di sfide per molti versi impossibili".

Dall'inizio della crisi, nel 2008, al primo semestre di quest'anno, gli autonomi sono diminuiti di quasi 260 mila unità pari al 4,8%. La platea dei lavoratori dipendenti, invece, si è ridotta di 408.400 unità, anche se in termini percentuali è diminuita "solo" del 2,4% cioè della metà. La contrazione peggiore tra gli autonomi si è avuta in Emilia Romagna (-14,6%), seguita da Campania (-13,7%) e Calabria (13,3%). Di rilievo, invece, la performance ottenuta dal Lazio (+10,1%) e dal Veneto (+5,3%).



rassegna stampa: la Repubblica 28 novembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/11/28/news/crisi_cgia_lavoro_autonomo-128337220/

giovedì 26 novembre 2015

Il Pil del Mezzogiorno è la metà del Nord, il reddito un terzo in meno

I dati Istat sul 2014. La spesa per consumi finali passa dai quasi 19mila euro del Nord ai 12.600 euro del Sud. Ma la crisi ha colpito maggiormente le famiglie del Nord-ovest

Il Pil del Mezzogiorno è la metà del Nord, il reddito un terzo in meno     MILANO - Il Pil per abitante nel 2014 risulta pari a 32,5mila euro nel Nord-ovest, a 31,4mila euro nel Nord-est e a 29,4mila euro nel Centro. E' quanto rileva l'Istat nei conti economici territoriali. Il Mezzogiorno, con un livello di Pil pro capite di 17,6mila euro, presenta un differenziale negativo molto ampio, inferiore del 43,7% rispetto a quello del Centro-Nord (-43,2% nel 2013). In termini di reddito disponibile, il divario si riduce al 33,3% (-34,0% nel 2013): le famiglie residenti nel Nord-ovest dispongono del livello di reddito disponibile per abitante più elevato, 20,7mila euro, seguite da quelle residenti nel Nord-est, con 19,9mila euro. Nel Centro il livello è pari a circa 18,5mila euro. Più basso risulta il reddito disponibile per abitante nel Mezzogiorno (circa 13,2mila euro), con un differenziale negativo del 24,6% rispetto alla media nazionale.

La spesa per consumi finali delle famiglie a prezzi correnti è di 18,9mila euro nel Nord-est e nel Nord-ovest, 17,2mila euro al Centro e 12,6mila euro nel Mezzogiorno. Il divario negativo tra Mezzogiorno e Centro-Nord è del 31,5%. Nel 2014 il Pil in volume, a fronte di una riduzione a livello nazionale dello 0,4% rispetto all'anno precedente, ha registrato un incremento dello 0,4% nel Centro e una flessione pari all'1,1% nel Mezzogiorno, allo 0,8% nel Nord-ovest e allo 0,2% nel Nord-est.

Tra il 2011 e il 2014 le aree che hanno registrato i più marcati cali del Pil sono il Nord-ovest e il Mezzogiorno (rispettivamente -5,7% e -5,6%). La flessione è stata più contenuta nel Nord-est (-4,3%) e nel Centro (-4,2%). Nel periodo 2011-2014 solo il Lazio e la Provincia Autonoma di Trento registrano variazioni positive dell'occupazione mentre Calabria, Liguria, Puglia e Campania segnano le cadute più ampie (con diminuzioni comprese tra il 6% e il 4%).

Il reddito disponibile per abitante in termini nominali è pari nel 2014 a circa 20,7mila euro nel Nord-ovest, 19,9mila euro nel Nord-est, 18,5mila euro nel Centro e 13,2mila euro nel Mezzogiorno. La graduatoria delle regioni per livello di reddito disponibile pro capite nel 2014 vede al primo posto la Provincia Autonoma di Bolzano, con circa 22,5mila euro, e all'ultimo la Calabria, con 12,3mila euro. Nel 2014 il reddito disponibile segna una flessione dello 0,6% nel Nord-est e dello 0,1% nel Nord-ovest, mentre aumenta dello 0,5% sia nel Centro, sia nel Mezzogiorno. Nel 2013 Milano è la provincia con il livello di valore aggiunto per abitante più elevato, 44,6mila euro; seguono Bolzano con 36,4mila e Bologna con 33,6mila euro.


rassegna stampa: la Repubblica 26 novembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/11/26/news/il_pil_del_mezzogiorno_e_la_meta_del_nord_il_reddito_un_terzo-128192887/ 


Barclays, multa da 100 milioni per non aver controllato i clienti più ricchi









La Fca ha inflitto alla banca inglese una multa da circa 100 milioni per operazioni relative a clienti facoltosi non adeguatamente controllate: Barclays non avrebbe seguito le procedure, preferendo acquisire questi clienti velocemente e non disturbandoli, perché "politicamente esposti"

Barclays, multa da 100 milioni per non aver controllato i clienti più ricchi      MILANO - Maxi multa per Barclays nel Regno Unito: l'ha comminata la Financial conduct authority (Fca) che ha disposto una sanzione da 72 milioni di sterline (oltre 102 milioni di euro) all'istituto di credito londinese per non avere effettuato i controlli appropriati su clienti molto facoltosi, per non disturbarli. Nel mirino dell'autorità di conbtrollo una transazione da 1,9 miliardi di sterline effettuata tra il 2011 e il 2012 per alcuni clienti top ritenuti dalla stessa Fca persone politicamente esposte che avrebbero potuto subire abusi finanziari. Un elemento che avrebbe obbligato Barclays a effettuare controlli più accurati sugli stessi clienti, che invece non ci furono.

"Barclays non seguì le procedure standard preferendo invece accettare i clienti il più rapidamente possibile generando entrate per 53,2 milioni per l'istituto", ha spiegato la Fca in un comunicato. Barclays, ha dichiarato Mark Steward, direttore della vigilanza di mercato alla Fca, "ha ignorato - riporta la Bbc - il suo stesso procedimento creato per proteggersi dai crimini finanziari e ha trascurato ovvi segnali di pericolo per avere nuovi affari e generare entrate significative. Questo è inaccettabile".

Barclays era stata recentemente coinvolta nello scandalo per la manipolazione del tasso libor per il quale dovette pagare una multa da 453 milioni di dollari nel 2012 comminata dalle autorità britanniche e statunitensi.

rassegna stampa: la repubblica 26 novembre 2015


mercoledì 25 novembre 2015

Arrestato Esteves, ad di Btg Pactual e socio di Mps e Carige

Il banchiere brasiliano è stato fermato dalla polizia nell'ambito di un'inchiesta sulla corruzione all'interno di Petrobras, la compagnia nazionale petrolifera

Arrestato Esteves, ad di Btg Pactual e socio di Mps e Carige      MILANO -  La polizia brasiliana ha arrestato il miliardadio André Esteves, amministratore delegato di Btg Pactual, la banca d'affari carioca molto attiva in Italia con partecipazioni che comprendono quote in Mps come in Carige. Gli investigatori hanno anche sequestrato diversi documenti in casa del manager e presso la sede centrale della banca. Insieme a Esteves è stato arrestato il senatore Delcidio Amaral, capo del partito di maggioranza: l'operazione è scattata al seguito di una maxi indagine sulla corruzione focalizzata sulla gestione di Petrobras, la compagnia petrolifera di Stato. I due sono gli arrestati di più alto profilo dall'inizio delle indagini iniziate a marzo dello scorso anno che hanno portato al fermo di oltre 100 persone.

Il manager, sconosciuto in Italia fino a pochi anni fa, è balzato agli onori delle cronache prima per essersi comprato - per 40 milioni di euro - una delle più belle tenute del Brunello di Montalcino, quella di Argiano a Sant'Angelo in Colle; poi per aver rilevato il 2% del Monte Paschi di Siena dalla Fondazione Mps. Il gruppo brasiliano, però, ha una quota in Carige e lo scorso anno ha rilevato da Generali per 1,24 miliardi di euro la Banca della Svizzera Italiana (1,24 miliardi di euro).

Esteves nel 2006 ha venduto Banco Pactual a Ubs per 2,6 miliardi di dollari prima di spostarsi a Londra a lavorare proprio in Ubs: nel 2008 ha lanciato un'offerta per rilevare il controllo della banca nel pieno della crisi finanziaria ricevendo però il rifiuto degli azionisti. Esteves lasciò quindi la banca per lanciare Btg, l'acronimo di Better than Goldman (meglio di Goldman, una delle principali banche d'affari del mondo, ndr). L'anno dopo Ubs ha rivenduto Pactual a Btg per 2,5 miliardi.


 rassegna stampa: la Repubblica 25 novembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/11/25/news/btp_pactual_arresto-128123249/


Deutsche Bank paga una multa da 31 mln agli Usa: "Ha aiutato a evadere il fisco in Svizzera"

Una divisione svizzera della banca tedesca ha raggiunto un accordo con il governo americano per archiviare accuse secondo cui ha aiutato clienti americani ad evadere le tasse. Per questo verserà una multa pari a 31 milioni di dollari

 
(reuters) Deutsche Bank paga una multa da 31 mln agli Usa: "Ha aiutato a evadere il fisco in Svizzera"MILANO - Una divisione svizzera della tedesca Deutsche Bank ha raggiunto un accordo con il governo americano per archiviare accuse secondo cui ha aiutato clienti americani ad evadere le tasse. Per questo verserà una multa pari a 31 milioni di dollari. L'intesa è stata siglata nell'ambito dello "Swiss bank program", iniziato nel 2013 e pensato per portare gli istituti di credito a risolvere contenziosi con i governi in materia di evasione.

"Deutsche Bank Suisse ha offerto una gamma di servizi e ha permesso alcune pratiche che sapeva avrebbero e hanno aiutato i contribuenti Usa a nascondere asset e redditi" all'internal revenue service, l'equivalente americano dell'Agenzia delle Entrate italiana. E' quanto spiegato in un comunicato diffuso ieri dal dipartimento di giustizia, secondo cui Deutsche Bank Suisse, con quartier generale a Ginevra, ha aiutato i contribuenti statunitensi a non versare tasse al fisco Usa per cinque anni a partire dall'agosto 2008. Secondo il Dipartimento stesso la divisione svizzera della banca contava 1.072 account legati a clienti Usa con un valore massimo di 7,7 miliardi di dollari.

Come parte del patteggiamento, Deutsche Bank ha dovuto fornire alle autorità una serie di informazioni sugli account e ha dovuto chiudere quelli facenti capo a persone che non hanno rispettato i loro doveri nei confronti del Fisco Usa. Secondo il Dipartimento di Giustizia, il gruppo tedesco ha cooperato nelle indigani.


rassegna stampa: la Repubblica 25 novembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/11/25/news/deutsche_bank_paga_una_multa_da_31_mln_agli_usa_ha_aiutato_a_evadere_il_fisco_in_svizzera_-128113579/ 


martedì 24 novembre 2015

Il rischio povertà non molla la presa, riguarda più di un italiano su quattro

I dati Istat: l'indicatore del rischio povertà o esclusione sociale rimane stabile rispetto al 2013. Diminuisce la quota di persone in famiglie "gravemente deprivate" (la stima passa dal 12,3% all'11,6%), ma viene compensata dall'aumento delle persone a bassa intensità lavorativa (dall'11,3% al 12,1%). Il 20% più ricco delle famiglie residenti in Italia percepisce il 37,5% del reddito totale, al 20% solo il 7,7%

Il rischio povertà non molla la presa, riguarda più di un italiano su quattro       MILANO - In Italia c'è più di una persona su quattro a rischio di povertà o esclusione sociale. E' quanto rileva l'Istat nello studio sulle condizioni di vita dell'anno scorso: si attesta al 28,3% la stima delle persone a rischio di povertà o esclusione sociale residenti in Italia, secondo la definizione adottata nell'ambito della strategia Europa 2020 e quindi la quota di cittadin che sperimenta almeno una delle seguenti condizioni: rischio di povertà (calcolato sui redditi 2013), grave deprivazione materiale e bassa intensità di lavoro (calcolata sul numero totale di mesi lavorati dai componenti della famiglia durante il 2013).

Nel dettaglio del 2014, le persone a rischio di povertà sono stimate pari al 19,4%, quelle che vivono in famiglie gravemente deprivate l'11,6%, mentre le persone appartenenti a famiglie dove l'intensità lavorativa è bassa rappresentano il 12,1%. L'indicatore del rischio povertà o esclusione sociale rimane stabile rispetto al 2013: la diminuzione della quota di persone in famiglie gravemente deprivate (la stima passa dal 12,3% all'11,6%) viene infatti compensata dall'aumento della quota di chi vive in famiglie a bassa intensità lavorativa (dall'11,3% al 12,1%); la stima del rischio di povertà è invece invariata. Per il secondo anno consecutivo, il calo della grave deprivazione è determinato dal fatto che scendono le quote di individui in famiglie che, se lo volessero, non potrebbero permettersi un pasto proteico adeguato ogni due giorni (dal 13,9% al 12,6%), una settimana di ferie all'anno lontano da casa (dal 51,0% al 49,5%) o una spesa imprevista pari a 800 euro (dal 40,2% al 38,8%).

La stima della grave deprivazione diminuisce soprattutto nel Mezzogiorno, tra i single e le coppie (soprattutto se anziani) e tra le coppie con un solo figlio, anche minore. Ancora grave la condizione dei genitori soli, delle famiglie con almeno tre minori o di altra tipologia, famiglie, queste ultime, che tra il 2013 e il 2014 hanno mostrato un ulteriore deterioramento della loro condizione (dal 15,9% al 20,2%). L'aumento della bassa intensità lavorativa ha riguardato, in particolare, gli individui in famiglie che vivono nel Mezzogiorno (la stima va dal 18,9% al 20,9%) o in famiglie numerose: coppie con figli (dall'8,3% al 9,7%), soprattutto minori (dal 7,5% all'8,9%), e famiglie con membri aggregati (dal 17,8% al 20,5%).

Sul fronte dei redditi, invece, la stima riferita al 2013 "mostra stabilità rispetto all'anno precedente. Le uniche informazioni disponibili sulla dinamica reddituale tra il 2013 e il 2014 sono quelle diffuse dalla contabilità nazionale e segnalano un leggero aumento in termini di ammontare e una sostanziale stabilità in termini pro-capite". Nel 2013, si stima che la metà delle famiglie residenti in Italia abbia percepito un reddito netto non superiore a 24.310 euro l'anno (circa 2.026 euro al mese); questo valore scende a 20.188 euro nel Mezzogiorno (circa 1.682 euro mensili). Le famiglie con tre o più percettori hanno un reddito mediano nel 2013 quasi triplo delle monoreddito (44.900 contro 16.690 euro), mentre quelle con fonte principale da lavoro dipendente dispongono di circa 10 mila euro in più di quelle che vivono prevalentemente di pensione o trasferimenti pubblici (29.527 contro 19.441 euro). Nel Mezzogiorno, ai più bassi livelli di reddito si associa anche una maggiore disuguaglianza: nel 2013, la stima dell'indice di Gini, pari a 0,296 a livello nazionale, nel Mezzogiorno si attesta a 0,305. Il 20% più ricco delle famiglie residenti in Italia percepisce il 37,5% del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta solo il 7,7%.

Calcola se il tuo stipendio è ok

"I dati di oggi dell'Istat ci dicono quanto sia necessario investire nell'inclusione sociale e non abbassare la guardia nel contrasto alla povertà alimentare che riguarda ancora circa 6 milioni di cittadini in Italia - afferma il ministro per le Politiche Agricole Maurizio Martina  che sottolinea l'importanza del recupero degli sprechi alimentari-  Un impegno sul quale il governo ha messo in campo una strategia coordinata tra ministeri dell'Agricoltura e del Lavoro per garantire assistenza alimentare agli indigenti fino al 2020 attraverso il prezioso lavoro degli enti caritativi. Quest'anno abbiamo distribuito 100mila tonnellate di cibo e vogliamo ancora crescere anche grazie a un lavoro virtuoso sul fronte del recupero degli sprechi. Già oggi riusciamo a salvare e destinare a chi ne ha bisogno 550mila tonnellate di eccedenze alimentari, l'obiettivo è arrivare a 1 milione entro il 2016. Possiamo raggiungerlo con interventi mirati come quello che abbiamo introdotto con la legge di stabilità: ora è più conveniente per le imprese donare il cibo che sprecarlo, visto che abbiamo tagliato la burocrazia per le donazioni fino a 15mila euro. È importante poi arrivare a una rapida approvazione della legge contro gli sprechi che è ora in discussione in Parlamento, perché parliamo di un fenomeno che in Italia vale 12 miliardi di euro all'anno".
 

rassegna stampa: la Repubblica 23 novembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/11/23/news/redditi_istat_poverta_-127972246/ 

 

domenica 22 novembre 2015

Quattro banche «buone» e una «cattiva». Come funziona il salvataggio e chi paga

        Quello deciso dal Consiglio dei ministri è il primo salvataggio bancario con le nuove regole europee ma senza l'adozione del bail in (le disposizioni in questo campo in Italia entrano in vigore solo il primo gennaio prossimo). «La soluzione adottata assicura la continuità operativa delle banche e il loro risanamento, nell'interesse dei territori in cui esse sono insediate; tutela i risparmi di famiglie e imprese investiti nella forma di depositi, conti correnti e obbligazioni ordinarie, preserva tutti i rapporti di lavoro in essere; non utilizza denaro pubblico».
Così Governo e Banca d'Italia hanno spiegato il senso dell'intervento di risanamento. Questo ha richiesto un decreto del Consiglio dei ministri per creare ex novo (ma con il benestare della Commissione europea e quello della Bce) le 4 banche-ponte che lunedì mattina aprono i battenti al posto delle vecchie quattro banche, da tempo in amministrazione straordinaria e che sono state messe in liquidazione coatta amministrativa. Si tratta, come si sa, di Banca Marche, Banca popolare dell'Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e Carichieti, aziende che nel complesso hanno una quota di mercato pari all'uno per cento dei depositi. Per ciascuna delle quattro banche infatti la parte “buona” è stata separata da quella cattiva del bilancio e tutti gli asset cattivi, vale a dire le attività in sofferenza di più dubbio realizzo, sono stati segregati in un'unica bad bank. A ciascuna banca-ponte sono state conferite tutte le attività diverse dai prestiti in sofferenza. E, a fronte di queste attività in bonis, vi sono i depositi, i conti correnti e le obbligazioni ordinarie. Il neonato Fondo di risoluzione (previsto dalle norme europee e amministrato da Bankitalia) ha ricostituito il capitale delle 4 banche-ponte, che in totale è ora pari a 1,8 miliardi. Questi sono soldi che verranno recuperati quando le banche ponte saranno vendute al migliore offerente. Le banche- ponte, che saranno gestite sotto la supervisione dell'unità di risoluzione della Banca d'Italia, saranno presiedute da Roberto Nicastro (ex direttore generale di Unicredit).
Ma le uscite di cassa del Fondo di risoluzione, necessarie per finanziare questa operazione, contemplano anche i fondi a copertura delle perdite accumulate dalle quattro vecchie banche, che ammontano a 1,7 miliardi. Inoltre, circa 140 milioni servono per il capitale della bad bank unica. Alle sofferenze è stato applicato un criterio prudenziale molto rigoroso: dal loro valore originario di 8,5 miliardi si è scesi a un valore di 1,5 miliardi. Questi attivi deteriorati dopo essere stati certificati saranno poi venduti a specialisti nel recupero crediti. In totale, quindi i soldi pronta cassa che affluiscono al fondo di risoluzione sono circa 3,6 miliardi.
Chi paga per l'intera operazione? In primo luogo, non paga il contribuente. L'intero onere del salvataggio viene posto innanzitutto a carico degli azionisti e dei titolari delle azioni subordinate delle quattro banche (anche se non si fa ricorso al bail in, e dunque non si tirano in ballo i titolari di depositi superiori a 100 mila euro, viene utilizzato comunque un criterio di burden sharing). Il carico finanziario ricade però in prevalenza sul complesso del sistema bancario italiano. Come? La liquidità necessaria al Fondo di risoluzione per cominciare a operare è stata anticipata da tre grandi banche (Intesa-San Paolo, Unicredit e Ubi-Banca) con un finanziamento a tassi di mercato e scadenza massima di diciotto mesi. Ma l'intero sistema creditizio è chiamato a contribuire al Fondo di risoluzione, con una rata annua di 600 milioni che può essere rinnovata altre 3 volte (ed entro il 31 dicembre 2015 questi altri introiti saranno conferiti). Banca d'Italia, nel suo comunicato, fa infine un commento significativo: «Questa è la soluzione compatibile con le norme sugli aiuti di Stato che è emersa dopo che altre proposte erano state ritenute non compatibili durante le discussioni con la Commissione europea. Infine, le autorità italiane hanno adottato questa soluzione, che ha effetti immediati ed evita il prolungamento dello stallo per le quattro banche, al fine di risolverne la crisi».

rassegna stampa: il Sole 24 Ore 22 novembre 2015 di Rossella Bocciarelli
 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-11-22/quattro-banche-buone-e-cattiva-ecco-come-funziona-salvataggio-4-popolari-e-chi-paga-201122.shtml?uuid=ACYxwJfB


Nasce Nuova Banca Marche: correntisti salvi




Azzerate azioni e obbligazioni subordinate. Il nuovo istituto sarà venduto sul mercato

di LUIGI LUMINATI 

Pesaro, 22 novembre 2015 - Banca Marche è salva. I correntisti non saranno minimamente toccati. I loro risparmi non saranno coinvolti nella soluzione della grande crisi bancaria.
L’istituto di credito cambierà nome: «Nuova Banca Marche». Diventerà una banca ponte che sarà messa sul mercato. Sarà totalmente finanziata - per 900 milioni di euro - dal sistema bancario italiano.
Non sono salve le le vecchie azioni: azzerate totalmente (e con esse gran parte del capitale delle Fondazioni di Pesaro, Jesi e Macerata).
Ma anche le obbligazioni subordinate (circa 400 milioni di euro), convertite in vecchie azioni per poi fare la stessa fine.
Tanto da far esultare la commissaria europea alla concorrenza, Margrethe Vestager, che ha contributo fortemente a costringere il governo e Bankitalia a questa decisione: «È cruciale che siano azionisti e creditori subordinati a farsi carico dei costi e delle perdite dei fallimenti bancari piuttosto che i contribuenti».
Bankitalia e governo (tanto da riunire di domenica il consiglio dei ministri) hanno così scelto la strada del doppio intervento del sistema bancario. Salvando i correntisti delle 4 banche (oltre all’istituto marchigiano, Ferrara, Chieti ed Etruria), facendo investire 3,6 miliardi complessivi al sistema attraverso il fondo di risoluzione utilizzato per la prima volta nella storia: «L’impegno finanziario immediato del Fondo di Risoluzione è, complessivamente così suddiviso – scrive Bankitalia –: circa 1,7 miliardi a copertura delle perdite delle banche originarie (recuperabili forse in piccola parte); circa 1,8 miliardi per ricapitalizzare le banche buone (recuperabili con la vendita delle stesse), circa 140 milioni per dotare la banca cattiva del capitale minimo necessario a operare». In totale, circa 3,6 miliardi.
«La soluzione adottata assicura la continuità operativa delle banche e il loro risanamento, nell’interesse dell’economia dei territori in cui esse sono insediate; tutela – aggiunge Bankitalia – pienamente i risparmi di famiglie e imprese detenuti nella forma di depositi, conti correnti e obbligazioni ordinarie; preserva tutti i rapporti di lavoro in essere; non utilizza denaro pubblico».
Come richiesto dall’Unione Europea. «Le perdite accumulate nel tempo da queste banche, valutate con criteri estremamente prudenti, sono state assorbite – prosegue la nota di Bankitalia – in prima battuta dagli strumenti di investimento più rischiosi: le azioni e le “obbligazioni subordinate”, queste ultime per loro natura anch’esse esposte al rischio d’impresa. Il ricorso alle azioni e alle obbligazioni subordinate per coprire le perdite è espressamente richiesto come precondizione per la soluzione ordinata delle crisi bancarie dalle norme europee recepite nell’ordinamento italiano dallo scorso 16 novembre».
Per Banca Marche, così come per gli altri istituti «la parte “buona” è stata separata da quella “cattiva” del bilancio», dice Bankitalia. I prestiti in sofferenza sono stati conferiti ad una sola bad bank per tutti gli istituti. Mentre a presiedere le 4 ‘banche buone’ sarà Roberto Nicastro, ex direttore generale di Unicredit. «Gli amministratori hanno il preciso impegno di vendere la banca buona in tempi brevi al miglior offerente, con procedure trasparenti e di mercato, e quindi retrocedere al Fondo di Risoluzione i ricavi della vendita».
Il destino della Nuova Banca Marche è dunque segnato, probabilmente attraverso uno ‘spezzatino’ tra più istituti di credito. Mentre quello degli azionisti e dei detentori delle obbligazioni convertibili è stato deciso in questa domenica grigia. Una fetta di risparmio marchigiano si è definitivamente volatilizzato. E con esso anche la storia di solidarietà e cultura delle fondazioni bancarie.

rassegna stampa: Il Resto del Carlino 22 novembre 2015
http://www.ilrestodelcarlino.it/pesaro/banca-marche-nuova-salva-azioni-obbligazioni-1.1510946



mercoledì 18 novembre 2015

Le grandi banche a prova di scandali. Multe per 219 miliardi, ma utili boom

I colossi del credito stanziano una cifra superiore al Pil della Grecia per far fronte alle sanzioni sui mutui, l'aiuto a evasori e stati canaglia e le manipolazioni di mercato. Ma i conti vanno lo stesso a gonfie vele e Moody's vede rosa malgrado i nuovi salassi in arrivo dalle authority


Le grandi banche a prova di scandali. Multe per 219 miliardi, ma utili boom 

MILANO - Hanno venduto mutui capestro ai loro clienti. Fatto affari con stati canaglia. Aiutato gli evasori a nascondere i loro soldi. Truccato a fine di lucro il mercato valutario. Alterato artificialmente i tassi d’interesse e le quotazioni di argento, platino e palladio per gonfiare il proprio conto economico. Tutto però ha un prezzo. E così le banche mondiali hanno deciso ristabilire la propria onorabilità – messa a dura prova dalle inchieste del dopo-Lehman – mettendo da parte un tesoretto di 219 miliardi di dollari per pagare le multe legate alle loro vicissitudini giudiziarie. Una cifra superiore al Pil della Grecia, il pedaggio necessario per dare una ripulita alla propria fedina e continuare, per il momento senza ulteriori conseguenze, a macinare affari e profitti.

A fare il punto sui contenziosi del credito mondiale è stata Moody’s, ponendosi una semplice domanda: che conseguenze hanno avuto le sanzioni record affibbiate dalle autorità di sorveglianza ai big del settore nel dopo Lehman? E quali avranno quelle, altrettanto sostanziose, in arrivo? La risposta è semplice: nessuna, a meno che l’esito delle indagini penali (improbabile ma non impossibile) costringa i grandi clienti ad abbandonare le loro banche. I regolatori sono andati giù, in apparenza, con la mano pesante: Bank of America è stata costretta a pagare 16,6 miliardi di dollari per chiudere con una transazione bonaria e senza strascichi penali le sue aggressive politiche sui mutui. Jp Morgan ne ha sborsati 13.  Gli effetti finanziari sui loro risultati sono stati però minimi, come una multa per divieto di sosta arrivata nella casella postale di un milionario.

I 15 maggiori istituti di credito mondiali hanno accantonato in perdita nel 2014 ben 58 miliardi per far fronte alla numerose cause aperte nei loro confronti, destinate con ogni probabilità a chiudersi con accordi extra-giudiziari per evitare gli strascichi penali. I loro bilanci si sono chiusi però con utili per complessivi 69 miliardi. Un cuscinetto di liquidità più che sufficiente a dormire sonni tranquilli “anche in vista del più che probabile arrivo di nuove sanzioni in futuro”, come prevedono gli analisti di Moody’s.  I francesi di Banque National de Paris (Bnp) sono l’esempio più chiaro di questa resistenza agli choc esterni: le autorità Usa hanno patteggiato con i transalpini una multa da 9 miliardi di dollari per gli affari sottobanco con Cuba, Sudan e Iran (paesi sotto embargo) dal 2002 al 2012, cifra pagata sull’unghia lo scorso anno. Eppure i conti di Bnp si sono chiusi lo stesso in utile per 157 milioni.

I colossi del credito mondiale, insomma, sono davvero “too big to fail”. Troppo ricchi per farsi scalfire da multe che per qualsiasi altro settore o azienda – salvo forse i colossi hi-tech - sarebbero una sorta di condanna a morte. L’unico rischio reale, dice Moody’s, è che qualche causa penale si concluda con una condanna. In quel caso le gatte da pelare sarebbero di più, perché i regolamenti di molti grandi fondi e istituzioni impediscono di fare affari con realtà incappate in disavventure di questo tipo. Resta invece remota la possibilità che a qualche grande banca recidiva (quasi tutte sono state pescate con le mani nella marmellata in più d’una delle inchieste in corso) venga ritirata la licenza. L’hanno minacciato gli Stati Uniti per convincere le più riottose a firmare le transazioni. E’ stato ventilato nel luglio 2015 quando a Deutsche Bank, Ubs e Royal Bank of Scotland è stata provvisoriamente negata la possibilità di gestire fondi pensione negli Usa. Il futuro, quini è roseo, vaticina l’agenzia di rating. E il 2015, malgrado le nuove multe, si preannuncia come un nuovo anno record per i conti del credito.

rassegna stampa: la Repubblica 18 novembre 2015
 

martedì 17 novembre 2015

Mps, la vedova di David Rossi: "Ora voglio i nomi degli assassini di mio marito" .

Siena, "da subito c'erano elementi che lasciavano molti dubbi", ha detto Antonella Tognazzi dopo che la procura ha riaperto le indagini per la morte del responsabile della comunicazione della Banca senese deceduto il 6 marzo 2013 dopo essere caduto dalla finestra del suo ufficio. Il perito: "Nel vicolo c'erano delle persone"

 "Mio marito era preoccupato, ma non si sarebbe mai suicidato". Lo ha detto Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, il responsabile della comunicazione di Mps deceduto il 6 marzo 2013 dopo essere caduto dalla finestra del suo ufficio. "E ora voglio i nomi degli assassini", ha detto la vedova. Le indagini su quella morte sono state riaperte.

Mps, la vedova di David Rossi: "Ora voglio i nomi degli assassini di mio marito"

Caso David Rossi, la moglie: "Mio marito era preoccupato ma non si sarebbe mai suicidato"












 Lo ha detto Antonella Tognazzi, moglie di David Rossi, il responsabile della comunicazione di Mps deceduto il 6 marzo 2013 dopo essere caduto dalla finestra del suo ufficio. "E ora voglio i nomi degli assassini", ha detto la vedova. Le indagini su quella morte sono state riaperte.


"Non capiva cosa la finanza o i magistrati avessero da chiedere a lui", ha risposto la signora ai giornalisti che le chiedevano se il marito fosse entrato in ansia per le perquisizioni ordinate all'epoca. "Era preoccupato e sicuramente pressato dalla situazione lavorativa, la banca non attraversava certamente un bel periodo", ha spiegato la vedova. "Mio marito non aveva nulla da dire in Procura, ne sono certa, ma evidentemente qualcuno con la coscienza poco pulita ha avuto un momento di panico", ha risposto ai cronisti a proposito di presunte rivelazioni che Rossi avrebbe voluto fare. Sulla riapertura delle indagini sulla morte di Rossi, decisa ieri dal procuratore della Repubblica di Siena, Tognazzi ha detto "è una magra consolazione ma è motivo di soddisfazione anche per chi con me ha seguito questa vicenda".

Il corpo di Davide Rossi rimase per più di un'ora a terra senza che nessuno lo vedesse, e questo anche a causa del fatto che alcuni mezzi erano parcheggiati in quel vicolo e presumibilmente anche all'ingresso: questo avrebbe impedito di fatto la vista dell'uomo, ha detto il perito Luca Scarselli che ha parlato anche di una "attività all'inizio del vicolo, c'erano delle persone". Una in particolare emerge dal filmato cinque minuti dopo la caduta di Rossi, quando ancora l'uomo era vivo (il giornalista respirò per 22 minuti dopo la caduta) "ma scompare dopo mezzo secondo, presumibilmente entrando nel portone dietro al furgoncino parcheggiato". Certo è che "quando il corpo viene trovato, il mezzo non si vede più e il filmato, che dura dalle 19,59 alle 21,04, si interrompe pochi minuti prima che arrivino i soccorsi, che ad oggi non si sa da chi siano stati chiamati". "Credo che un fatto del genere non possa essere avvenuto senza che nessuno abbia udito alcun rumore", ha concluso il perito, il quale ha precisato che il filmato è stato "estratto in un formato che non è quello che ci è stato consegnato".

Caso David Rossi, il legale: "Ecco perché la Procura ha riaperto l'inchiesta"

 













Caso David Rossi, il legale: "Ecco perché la Procura ha riaperto l'inchiesta"

Il caso era stato archiviato come un suicidio. Rossi morì dopo essere caduto dalla finestra del suo ufficio a Rocca Salimbeni, Palazzo Sansedoni. In una breve nota la procura conferma ora che il 6 novembre scorso è stata depositata richiesta di riapertura delle indagini presentata, a mezzo del proprio difensore, da Antonella Tognazzi, la vedova di Rossi.  Secondo quanto spiegato dalla procura senese, a spingere verso nuove indagini sono "gli aspetti segnalati nell'istanza di riapertura, corredata da consulenze di parte sui punti per i quali viene proposta la necessità di approfondimento". Aspetti, spiega la nota della procura, che  "sono stati oggetto di valutazione", e che hanno portato alla "decisione di procedere alla riapertura dell'indagine sui temi di prova evidenziati". Stando alla tesi dell'avvocato della vedova Rossi Luca Goracci, l'ex responsabile della comunicazione Mps sarebbe stato ucciso da "almeno due persone". Sulla base di questa tesi sostenuta da tre nuove perizie il legale ha presentato il 6 novembre scorso in tribunale a Siena la richiesta di riapertura del caso, inizialmente archiviato come suicidio, ed oggi accolta dal procuratore Salvatore Vitello.

rassegna stampa: la Repubblica 17 novembre2015

 

Intesa e Unicredit, accordi per vendere Bankitalia

Le due banche hanno firmato contratti preliminari. La banca milanese è il primo azionista di Via Nazionale con una partecipazione del 36,7%; in due anni, dalla privatizzazione, l'istituto ha incassato 305 milioni di dividendi. Unicredit possiede il 22%


Intesa e Unicredit, accordi per vendere BankitaliaMILANO - Intesa Sanpaolo ha firmato i contratti preliminari per vendere una quota del 5,7% della Banca d'Italia. Il corrispettivo è pari a 430 milioni, un valore in linea con il prezzo di carico della partecipazione di Via Nazionale sui bilanci della banca. Gli acquirenti sono quasi esclusivamente enti previdenziali: Enpam, Inarcassa, Cassa Forense, Enpaia, Cassa Ragionieri, oltre alla Banca del Piemonte. La banca milanese rimane comunque il primo azionista di Via Nazionale con una partecipazione del 36,7% circa. "La finalizzazione di ciascuna operazione - scrive una nota della banca - è subordinata all'esito positivo della verifica - da parte del Consiglio Superiore della Banca d'Italia - della sussistenza, in capo all'acquirente, dei necessari requisiti".

Da quando è stata privatizzata Banca d'Italia, si è posto l'obiettivo di creare un circuito secondario delle quote, per favorire la libera circolazione delle varie partecipazioni, e anche ridurre la concentrazione di alcuni azionisti, a partire da Intesa Sanpaolo. Una concentrazione frutto delle successivi processi di fusione e aggregazioni tra gli istituti bancari, che hanno portato la banca milanese al primo posto (al 42,4% prima di questa cessione) seguita da Unicredit, intorno al 22%.

Fino a questo momento però un mercato secondario per queste particolarissime "azioni" non si è ancora creato (anche perché le singole transazioni sono soggette al benestare di Via Nazionale). I destinatari naturali sono però gli investitori istituzionali, dagli enti previdenziali alle Fondazioni. In due anni Intesa ha incassato complessivamente 305 milioni di dividendi.

In serata anche Unicredit ha annunciato di aver avviato la riduzione della partecipazione al capitale della Banca d'Italia. L'istituto ha sottoscritto i contratti preliminari per la cessione del 3,2% del capitale per circa 240 milioni. Unicredit controlla 66.342 quote di Bankitalia, pari al 22,1% del capitale. Nel gennaio 2014 un provvedimento del governo ha stabilito la rivalutazione delle quote di Bankitalia da 156mila euro - valore fermo dai 1936 - a 7,5 miliardi consentendo alle banche azioniste di rafforzare in questo modo il loro patrimonio. Allo stesso tempo, però, veniva fissato un periodo di tre anni entro cui i soggetti che superavano la soglia del 3% avrebbero dovuto cedere la partecipazione eccedente. In teoria, quindi, c'è tempo fino all'inizio del 2017.


rassegna stampa: la Repubblica 17 novembre 2015
 http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/11/17/news/intesa_accordi_per_vendere_il_5_7_di_bankitalia_a_430_milioni-127573787/?ref=HREC1-27

lunedì 16 novembre 2015

Investire 100 $ e ritrovarsi con 6,5 milioni: ecco come in 87 anni di Borsa le «small cap value» battono tutti

di Enrico Marro

    Il dato statistico c'è, e fa riflettere, fermo restando che la Storia non sempre si ripete e che all'improvviso possono comparire svolazzando dei terribili Cigni Neri (ovvero eventi imprevisti, imprevedibili e rovinosi). Ma le statistiche sono inoppugnabili: nel periodo di Borsa che va dal 1928 al 2014, le azioni small-cap value hanno prodotto un ritorno medio annualizzato del 13,6%, contro il 9,8% dell'indice S&P500, regno delle large cap poiché raggruppa le 500 società a maggior capitalizzazione quotate a Wall Street. In altre parole, nei passati 87 anni di Storia i “piccoli” hanno sovraperformato i “grandi” in media di ben 3,8 punti percentuali l'anno.

Ma cosa sono le azioni “small-cap value”? Sono le azioni che hanno due caratteristiche: sono emesse da piccole società e vengono penalizzate dal mercato in quanto il prezzo è inferiore a un ipotetico valore d'equilibrio (il cosiddetto fair value).
Come nota Paul Merriman su Market Watch, nel lungo periodo le azioni small-cap value hanno sovraperformato sia le large (quelle delle aziende a grande capitalizzazione) che le growth (quelle che hanno hanno prezzo superiore al fair value, l'ipotetico valore d'equilibrio). Con un fondamentale caveat: stiamo parlando di lungo periodo, ovvero di periodi di tempo che si misurano non in anni, ma in generazioni.


Per gli amanti delle serie statistiche, vale la pena sottolineare che in 59 degli 87 anni di storia di cui ci sono dati disponibili, le azioni small-cap value hanno ottenuto ritorni positivi, con una media di guadagni del 34,6%. Mentre nei 28 anni in cui hanno chiuso in rosso, la media delle perdite è stata del 16,6%. In altre parole: nei due terzi del periodo considerato (che comprende una guerra mondiale, una guerra fredda mondiale e diverse bolle di Borsa esplose rovinosamente) le small-cap value hanno guadagnato. E quando hanno guadagnato, hanno guadagnato in media il doppio di quando hanno perso. Il bilancio è onorevole: 100 dollari investiti nel lontano 1928 si sarebbero trasformati in 6,5 milioni di dollari nel 2014.

Il consiglio per il risparmiatore, al solito, è però quello di diversificare il rischio e non mettere tutte le uova nello stesso paniere (in questo caso, quello delle azioni “small-cap value”). Difficile, poi, scegliere le singole azioni di questa particolare categoria se non si è dei professionisti. Esistono però alcuni Etf dedicati proprio a questo comparto, sia sul versante statunitense che su quello europeo, per esempio lo “Spdr Msci Usa Small Cap Value Weighted Ucits Etf” oppure il “Vanguard Small Cap Value Index Fund”. L'Etf di Spdr, trattato anche su Borsa Italiana, rappresenta una riproposizione dell'indice standard di capitalizzazione Msci Usa Small Cap basata su caratteristiche value. «In pratica ciascun costituente dell'indice standard viene riponderato per “enfatizzare” la presenza del fattore value da ricercarsi attraverso la misurazione di variabili fondamentali come il valore del book (patrimonio netto), i ricavi, gli utili e i cash flow generati», spiega Francesco Lomartire, sales specialist degli Etf Spdr per l'Italia e il Ticino.

rassegna stampa:  il Sole 24 Ore 12 marzo 2015
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-03-12/investire-100-$-e-ritrovarsi-65-milioni-ecco-come-87-anni-borsa-small-cap-value-battono-tutti-205726.shtml?uuid=AB0rDZ8C

sabato 14 novembre 2015

Banche, gli ostacoli alla corsa per il salvataggio dei 4 istituti sull’orlo del crac

L'analisi di

La scelta di spingere sull’acceleratore per evitare il nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie sembra dettata da ragioni più di ordine politico che tecnico. Ecco perché

Le istituzioni italiane, Banca d’Italia e Fondo interbancario in testa, stanno facendo una vera e propria corsa contro il tempo per tentare di salvare quattro banche prima che scattino le nuove regole europee sul “bail-in”. Questa volta a finanziare l’operazione non sarebbe lo Stato, ma il sistema bancario attraverso il Fondo di garanzia sui depositi alimentato dalle banche stesse. Il Fondo assumerebbe il controllo di Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti mettendo sul piatto circa 2 miliardi di euro per la ricapitalizzazione di questi istituti, il cui futuro – “bail-in” o no – appare quantomeno nebuloso.
La scelta di spingere sull’acceleratore per evitare il nuovo meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie sembra dettata da ragioni più di ordine politico che tecnico, dato che per le categorie coinvolte non dovrebbe cambiare poi molto: gli azionisti si ritroveranno comunque con un pugno di mosche in mano e, se necessario, anche gli obbligazionisti verranno chiamati a qualche sacrificio, magari attraverso uno riscadenzamento del debito o alla trasformazione di parte di esso in capitale. Solo per i correntisti cambierebbe qualcosa: con il “bail in” potrebbero subire perdite per la parte eccedente i 100mila euro, ammesso che sia rimasto ancora qualche correntista con così tanta liquidità sul conto corrente.
Perché tanta fretta di far partire il salvataggio con le vecchie regole? Secondo l’avvocato Dario Trevisan, esperto di mercati finanziari e società quotate, con il meccanismo attuale gli azionisti, pur subendo delle perdite anche gravi, manterrebbero il loro status e avrebbero dunque la possibilità di partecipare alla ricapitalizzazione delle banche e al loro rilancio. E questo è un nodo tecnico, ma anche e soprattutto politico, perché i territori coinvolti da queste crisi bancarie hanno un tessuto imprenditoriale importante che necessita di credito per poter funzionare e crescere. Territori che non a caso chiedono da tempo un intervento e il rilancio delle banche coinvolte. Ma un futuro è davvero immaginabile per questi istituti o le attività verranno comunque cedute ad altri? Il piano di salvataggio che il Fondo interbancario sta cercando di realizzare con il sostegno delle banche e l’approvazione della Banca d’Italia prevede l’assunzione del controllo delle banche in dissesto e la successiva vendita delle attività.
Un altro aspetto, rileva Trevisan, è quello delle svalutazioni: il piano di salvataggio tradizionale permette una maggiore flessibilità, accordi di ristrutturazione e quant’altro che limitano l’impatto del dissesto di un istituto sui bilanci degli investitori e delle altre banche che hanno sottoscritto i suoi titoli. Per contro, il meccanismo del “bail-in” appare invece molto più rigido sotto questo profilo e questo spiegherebbe almeno in parte la volontà delle banche di sostenere il piano del Fondo interbancario. Ma al di là degli aspetti tecnici, resta il fatto che la procedura che prevede il “bail-in” è stata approvata anche dall’Italia e riesce difficile capire per quale ragione le istituzioni del Paese stiano facendo di tutto per non applicarla. Si teme davvero la corsa agli sportelli o c’è dell’altro?
L’Europa non vede di buon occhio l’intervento del Fondo interbancario e sono in corso da settimane negoziati con Bruxelles per arrivare all’approvazione del piano. Sarà molto difficile ottenerla, anche perché – come scrive la stessa Banca d’Italia in un documento pubblicato l’8 luglio di quest’anno – se la completa applicazione del bail-in è prevista solo a partire dal 2016, “la svalutazione o la conversione delle azioni e dei crediti subordinati, fra cui gli strumenti di capitale, sarà applicabile già da quest’anno, quando essa sia necessaria per evitare un dissesto”. Se le cose stanno così, non si capisce perché si stiano perdendo mesi nel tentativo di salvare quattro banche con una mossa che ha il sapore della vecchia “soluzione di sistema”, quando poi comunque il “bail-in” entrerà in vigore tra poche settimane con ripercussioni importanti sui costi della raccolta delle banche più fragili e di minori dimensioni, dato che i depositanti tenderanno a privilegiare gli istituti più solidi per evitare brutte sorprese.

 rassegna stampa: il fatto quotidiano 13 novembre 2015

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/13/banche-gli-ostacoli-alla-corsa-per-il-salvataggio-dei-4-istituti-sullorlo-del-crac/2214724/ 

 

mercoledì 11 novembre 2015

Unicredit taglia 18.200 dipendenti in Europa

Esuberi superiori alle attese: 540 in più in Italia, che si aggiungono all'accordo 2014 da 5.100 uscite. Il patrimonio Cet1 salirà al 12,6%, al lordo delle cedole da erogare al 40% degli utili, visti salire a 5,3 miliardi nel 2018. L'ad Ghizzoni: "Piano realistico e ambizioso, tutto autofinanziato". L'azione sale


Unicredit taglia 18.200 dipendenti in Europa 

MILANO - Il nuovo piano di Unicredit al 2018 prevede 18.200 tagli di personale, includendo la vendita della controllata in Ucraina e la società paritetica con il Santander e i fondi sulla controllata del risparmio gestito Pioneer, due operazioni attraverso le quali usciranno dal perimetro aziendale 6mila dipendenti. Gli altri 12.200 lavoratori lasceranno il gruppo per effetto di razionalizzazioni nei centri direzionali (dove è previsto un calo del 17% rispetto alla forza lavoro 2014) e nella rete di banca commerciale in Germania, Austria e Italia e Centro Est Europa (-9%), così da portare la forza lavoro a 111mila dipendenti fra tre anni.

In Italia gli esuberi nuovi dovrebbero riguardare 540 persone, per la maggior parte dirigenti. Nel marzo 2014, infatti, Unicredit concordò con le rappresentanze sindacali un piano al 2018 che prevedeva 5.100 esuberi (di cui 2.400 già avvenuti, e 2.700 da effettuare). Mentre secondo fonti sindacali il nuovo documento, che traguarda la stessa scadenza triennale, implica l'uscita di altri 540 dipendenti. Nella presentazione che Unicredit ha diffuso allegata al piano strategico si parla per l'Italia di 6.900 uscite, ma questo numero ricomprende sia i vecchi accordi sia i dipendenti di società basate in Italia ma che operano in altri paesi dove la banca è presente. La nota parla anche del taglio di 800 filiali entro il 2018 da parte della commercial bank in Italia, Austria e Germania. Al settembre scorso, già 928 sportelli erano stati chiusi.

Anche per effetto delle riduzioni di personale (che comunque costeranno 1 miliardo al lordo delle imposte), l'istituto otterrà un contenimento dei costi per 1,6 miliardi di euro, e potrà rilanciare la redditività, con un obiettivo di utile netto a fine piano di 5,3 miliardi. Nel bilancio 2014 Unicredit ha guadagnato 2 miliardi. L'azione a Piazza Affari ha allungato il passo dopo la diffusione delle linee guida del piano industriale. I titoli, che salivano di quasi il 2%, hanno accelerato superando la soglia dei 6 euro.

"Il piano prevede per il 2018 importanti obiettivi in termini di redditività e coefficienti patrimoniali, confermando la capacità del gruppo di generare capitale in modo organico e distribuire dividendi - ha detto l'amministratore delegato Federico Ghizzoni, al termine del cda -. E' un piano rigoroso e serio e al tempo stesso ambizioso. Ma è soprattutto realistico, perchè si basa su azioni che dipendono dalle nostre scelte manageriali, ed è un piano totalmente autofinanziato".

Il piano strategico sarà incentrato su cinque azioni chiave: "accelerazione delle misure di taglio dei costi sia del personale sia delle altre spese operative"; "cessione o ristrutturazione dei business poco redditizi come la banca commerciale in Austria e il leasing in Italia"; "forte focus sull'evoluzione digitale, sostenuta da 1,2 miliardi di investimenti tra il 2016 e il 2018" (e che permetterà di chiudere ulteriori sportelli e agenzie fisiche); "chiusura della sub-holding austriaca" e trasferimento delle partecipazioni bancarie nei paesi del Centro Est Europa (Cee) "sotto il diretto controllo della holding UniCredit", con un passaggio da Vienna a Milano che permetterà di ridurre il personale "rafforzando le funzioni di governo centrali e concentrandosi sulle sinergie commerciali"; "sfruttare i business in crescita nei paesi Cee e il risparmio gestito, aumentando e riequilibrando i ricavi da business a basso assorbimento di capitale". Che sono quelli con maggiore futuro nel settore bancario: e nel caso di Unicredit si parla di gestioni patrimoniali, attività nei paesi Cee e "servizi di negoziazione e consulenza per le imprese".

La banca con sede a Milano ha anche diffuso i conti del terzo trimestre, chiusi con un utile netto di 507 milioni, in calo del 29% rispetto a un anno prima ma sopra le attese medie degli operatori che erano di 458 milioni. Nei primi nove mesi del 2015 la dote di profitti netti sale così a 1,5 miliardi, pari a una redditività sul patrimonio tangibile del 4,8%. Il capitale Cet1 è stabile al 10,53% degli attivi ponderati per il rischio.


rassegna stampa: la Repubblica 11 novembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/11/11/news/unicredit_taglia_18_200_dipendenti_in_europa-127111224/?ref=HREC1-3 


martedì 10 novembre 2015

Generazione Neet: niente studio né lavoro. In Europa siamo primi e non è un bel record

L'Università Cattolica di Milano fa la fotografia di un fenomeno che conta in Italia 2,4 milioni di giovani che non studiano e sono senza un impiego. Il demografo Alessandro Rosina: "Un livello allarmante, mai raggiunto nella storia". Il 66% dei "giovani adulti" vive a casa con i genitori: il 20% in più su media Ue



Generazione Neet: niente studio né lavoro. In Europa siamo primi e non è un bel record 

MILANO - Non sono sui libri e non hanno nemmeno un impiego. Quasi due milioni e mezzo di giovani vite sospese che non riescono a trovare un ruolo nel mercato del lavoro, nella società. E in questo momento fanno fatica anche solo a immaginarlo. L'Italia è la più grande fabbrica di Neet in Europa. Ragazzi fra i quindici e i ventinove anni fuori da qualsiasi circuito scolastico e lavorativo che di fatto vivono ancora sulle spalle di papà e mamma. Molti non hanno mai finito le superiori. Ma dentro quest'universo inerte finiscono sempre più laureati che non sono in grado di uscire di casa nemmeno dopo anni dalla discussione della tesi.

Il termine Neet compare per la prima volta nel 1999 in un documento della Social exclusion unit del governo britannico ed è l'acronimo di "not in education, employment or training". Un indicatore dalle braccia più larghe rispetto a quello sulla disoccupazione giovanile non solo perché si spinge fino alla soglia dei trent'anni, ma perché include anche chi un impiego ha smesso di cercarlo o è finito fra le maglie del lavoro nero. Fino al Ventesimo secolo questa voce non esisteva. Oggi è usata da tanti istituti di ricerca per raccontare una deriva talmente grande - anche in termini di perdite economiche e di spreco di capitale umano - da spingere più studiosi a parlare di "generazione perduta".

I Neet

Nel nostro Paese i Neet erano 1,8 milioni nel 2008. Nel giro di sette anni se ne sono aggiunti altri 550mila e oggi toccano i 2,4 milioni. Insieme potrebbero riempire una città grande quasi quanto Roma. "Un livello allarmante mai raggiunto nella storia ". A dirlo è una recentissima indagine di Alessandro Rosina, demografo e sociologo dell'università Cattolica di Milano: "La quantità di giovani lasciati in inoperosa attesa era già elevata prima della crisi - scrive nel volume Neet, edito da Vita e pensiero - ma è diventata una montagna sempre più elevata e siamo una delle vette più alte d'Europa". Il 2014 è stato l'anno in cui l'Italia ha toccato il punto più basso di nascite ma il valore più alto di Neet: si muovono in questo labirinto il 26 per cento dei giovani italiani fra i quindici e i trent'anni. La media europea è del 17 per cento, di nove punti più bassa. Ma ci sono Paesi come la Germania e l'Austria dove i ragazzi in questa condizione non superano il 10 per cento.

Dietro questo acronimo si nascondono storie e vite molto diverse. Come quella di Francesca Romeo. Ventenne, nata e cresciuta a Varese e un diploma di liceo artistico conquistato con fatica dopo qualche brutto voto di troppo che le ha fatto perdere un anno. "Studiare non fa per me. Per questo ho deciso di lasciare perdere l'università". Dopo la maturità ha racimolato qualche soldo lavorando nelle sere d'estate dietro al bancone di un bar in un circolo culturale. "Ma hanno avuto bisogno di me per poco". Così si è iscritta all'ufficio di collocamento e nel frattempo ha provato a bussare alla porta dei negozi del centro. Grandi catene di abbigliamento e di articoli sportivi, boutique di scarpe e profumerie, poi casalinghi, negozi di elettrodomestici. Il suo curriculum è sempre caduto nel nulla. "Chi appende cartelli per cercare personale non manca. Ma non vogliono me". Tutti chiedono un po' di esperienza alle spalle. "Io non ne ho nemmeno una. Così però rischio di andare avanti all'infinito". Francesca è ferma da mesi nella speranza che prima o poi qualche porta si apra. Non ha mai vissuto in un posto diverso dalla casa dov'è cresciuta e in questo momento ha il timore che il giorno in cui potrà mettere piede fuori casa non arriverà mai.

Valentina Maddalena invece, 28 anni, nella casa dei genitori ci è tornata dopo cinque anni di università e una laurea mai raggiunta. Aveva salutato Fiumefreddo Bruzio, nel cosentino, per trasferirsi a Roma e iscriversi alla Sapienza. "Sono rimasta sui libri di sociologia per quattro anni, poi ho capito che non era la mia strada. La media del 28 non significa nulla: era un campo che non sentivo mio". Per un anno ha fatto l'addestratrice cinofila, poi la commessa. "Ero lontana anni luce anche solo dal pagarmi l'affitto". Così è tornata in Calabria. Anche qui ha trovato un posto da commessa ma il negozio dodici mesi fa ha chiuso e a un passo dai trent'anni bollette, spese e scontrino alla cassa del supermercato vengono pagati solo grazie agli sforzi dei genitori: il papà vende legna, la mamma lavora come domestica. "Va avanti così da un anno. Loro capiscono la situazione ma per me è pesantissimo".

Su dieci Neet, cinque sono diplomati mentre quattro hanno solo la licenza di terza media. Come Enea Testagrossa, che vive in provincia di Monza: ha lasciato gli studi in terza superiore e oggi, a 21 anni, lavora a titolo volontario in un asilo privato e non ha entrate. Spesso all'origine di tutto c'è un insuccesso a scuola o all'università. Il 10 per cento, però, ha in mano una laurea. E gira, come gli altri, a vuoto. In un'attesa che non finisce mai. È il caso di Francesco Marando, 27 anni, laureato in Ingegneria civile. È una vita sospesa anche la sua da quando è tornato a Marina di Ginosa Ionica dai genitori. "Io continuo a inviare curriculum, ma per il nostro settore il momento è quello che è: quando va bene mi rispondono "le faremo sapere"". E anche per lui, ritrovarsi a dormire nella camera di quand'era bambino non è semplice per nulla.

Di casi come questi ce ne sono tanti. E non sono solo under trenta. Basta pensare che in Italia, secondo l'Eurostat, quasi il 66 per cento dei "giovani adulti" vive a casa con i genitori. Una percentuale di quasi venti punti superiore rispetto alla media di tutti e ventotto i Paesi Ue. Le loro storie sono legate dalle stesse paure, sottolinea Rosina: "Vagano senza meta, sempre più disincantati e disillusi, con il timore di essere marginalizzati e di dover rinunciare definitivamente a un futuro di piena cittadinanza". La fetta più consistente dei Neet è costituita da chi in questo momento sta cercando (più o meno attivamente) un impiego e quindi dai disoccupati. Ma se per loro questo limbo dovesse durare troppo a lungo, il rischio più grande è che passino dalla parte dei cosiddetti "inattivi": uomini e donne che un impiego non lo cercano più. O che ingrossano le fila del lavoro nero. Gli ultimi dati dell'Istat sulla disoccupazione giovanile sembrano purtroppo andare proprio in questa direzione. A settembre i senza lavoro fra i quindici e i ventiquattro anni erano il 40,5 per cento. Il loro lieve calo dello 0,2 per cento rispetto ad agosto non suona però esattamente come una buona notizia: nello stesso mese gli "inattivi" nella stessa fascia di età sono aumentati dello 0,5 per cento.

rassegna stampa: la Repubblica 9 novembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/11/09/news/generazione_neet_niente_studio_ne_lavoro_in_europa_siamo_primi_e_non_e_un_bel_record-126959060/ 

Prestiti in calo dello 0,5% a settembre: su le famiglie, giù le imprese

Si divarica la forbice nell'erogazione di credito: per i nuclei familiari miglioramento al +0,4% annuo, per le aziende peggioramento al -0,9% nei dodici mesi. In discesa i tassi sui mutui, al 2,92%

Prestiti in calo dello 0,5% a settembre: su le famiglie, giù le imprese     MILANO - Si stabilizza la contrazione dei prestiti al settore privato, da parte delle banche, a settembre. Nonostante più osservatori, a cominciare dalla Bce di Mario Draghi, vedano i segnali di un miglioramento nell'erogazione dei finanziamenti a famiglie e imprese, i dati di Bankitalia tracciano ancora una flessione dello 0,5% annua a settembre, la stessa di agosto. Migliora la dinamica per le famiglie, con i prestiti che sono saliti dello 0,4% contro il +0,3% di agosto, ma di contro peggiora per le imprese, con una contrazione più accentuata allo 0,9%. Sempre alto il tasso di cresita delle sofferenze, scendono i tassi dei mutui. Ecco le voci pubblicate da Via Nazionale:

Raccolta. A settembre il tasso di crescita sui dodici mesi dei depositi del settore privato è stato pari al 3,4 per cento (2,8 per cento ad agosto). La raccolta obbligazionaria, incluse le obbligazioni detenute dal sistema bancario, è diminuita del 17,9 per cento su base annua (-17,6 per cento nel mese precedente).

Prestiti. I prestiti al settore privato, corretti per tener conto delle cartolarizzazioni e degli altri crediti ceduti e cancellati dai bilanci bancari, hanno registrato una contrazione su base annua dello 0,5 per cento, come nel mese precedente. I prestiti alle famiglie sono cresciuti dello 0,4 per cento sui dodici mesi (0,3 per cento ad agosto); quelli alle società non finanziarie sono diminuiti, sempre su base annua, dello 0,9 per cento (-0,8 per cento ad agosto).

Sofferenze. Il tasso di crescita sui dodici mesi delle sofferenze  -  senza correzione per le cartolarizzazioni ma tenendo conto delle discontinuità statistiche  -  è risultato pari al 13,5 per cento (14,2 per cento ad agosto).

Tassi di interesse. I tassi d'interesse sui finanziamenti erogati nel mese alle famiglie per l'acquisto di abitazioni, comprensivi delle spese accessorie, sono stati pari al 2,92 per cento (3,04 nel mese precedente); quelli sulle nuove erogazioni di credito al consumo all'8,23 per cento (8,24 nel mese precedente). I tassi d'interesse sui nuovi prestiti alle società non finanziarie di importo fino a 1 milione di euro sono risultati pari al 2,82 per cento (2,99 per cento nel mese precedente); quelli sui nuovi prestiti di importo superiore a tale soglia all'1,26 per cento (1,35 per cento ad agosto). I tassi passivi sul complesso dei depositi in essere sono stati pari allo 0,56 per cento, come nel mese precedente.


rassegna stampa: la Repubblica 10 novembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/11/10/news/prestiti_imprese_famiglie-127019698/ 

 

lunedì 9 novembre 2015

Francia, “mutui a rischio”: processo a Bnp Paribas. “Prestito da 140mila euro nel 2008, ora il debito è salito a 200mila”

Benjamin Gomis, infermiere di Aubagne, prese in prestito 140mila euro e oggi ne deve ancora restituire 200mila. Il prodotto si chiamava Helvet Immo, un prestito a tasso variabile concesso in franchi svizzeri ma da rimborsare in euro, prodotto altamente rischioso perché legato al tasso di cambio tra le due monete. Così quando la divisa elvetica si è rafforzata rispetto a quella europea, il capitale da rimborsare è lievitato. Ne furono venduti 4.665 dal marzo 2008 al dicembre 2009, in piena crisi finanziaria globale
di | 9 novembre 2015 
 
Francia, “mutui a rischio”: processo a Bnp Paribas. “Prestito da 140mila euro nel 2008, ora il debito è salito a 200mila” 
 
Benjamin Gomis è un infermiere e vive a Aubagne, nel sud della Francia. Anche la moglie fa l’infermiera. Era il 2008, in piena crisi finanziaria, e insieme decisero di comprare una casa, “per fare un investimento tranquillo, da bravo padre di famiglia”, commenta lui oggi. Per il mutuo si affidarono a una società d’intermediazione, come ce ne sono tante in Francia. Si fidarono, tanto più che quel credito era un prodotto proposto da una filiale di Bnp Paribas, una delle principali banche del Paese, di certo non una finanziaria borderline, venuta fuori chissà da dove. Verificarono la durata del credito (23 anni e mezzo) e la quota da pagare mensilmente (mille euro): niente di più, firmarono.
Ebbene, nel 2008 Benjamin e la moglie presero in prestito 140mila euro. Oggi ne devono ancora restituire 200mila. Com’è possibile ? Il prodotto da loro sottoscritto si chiamava Helvet Immo. Erano mutui a tasso variabile concessi in franchi svizzeri ma da rimborsare in euro. In realtà, prodotti altamente rischiosi, perché legati al tasso di cambio tra le due monete. E, poiché negli anni (soprattutto quelli recenti), la divisa elvetica si è rafforzata decisamente rispetto a quella europea, il rischio si è concretizzato: il capitale da rimborsare è lievitato costantemente. Più uno versa le rate, più in realtà cresce la somma ancora da restituire.

Benjamin e la moglie non sono un caso raro, perché di Helvet Immo ne sono stati sottoscritti in Francia 4.655 per un totale di 700 milioni di euro. Il prodotto era stato elaborato da Bnp Paribas Personal Finance (Bnp-Pf), filiale di crediti immobiliari di Bnp Paribas, una delle banche più rispettate in Francia (che dal 2006 controlla Bnl in Italia). Poi è stato commercializzato da alcune filiali del gruppo e da altri intermediari esterni, ma sempre con l’etichetta Bnp. In quali anni ? Dal marzo 2008 al dicembre 2009, in piena crisi finanziaria globale. Insomma, mentre Lehman Brothers falliva e finalmente si cominciava a parlare di finanza allegra e delle derive del sistema creditizio degli anni precedenti, una banca francese, di quelle consolidate e da “bravo padre di famiglia”, si metteva a vendere un mutuo come questo.
Sulla scia delle proteste di chi ha sottoscritto Helvet Immo, alcuni di questi crediti sono stati trasformati in “normali” mutui in euro a tasso fisso (facendo comunque perdere un bel po’ di soldi a quei clienti). In altri casi non è stato possibile. E così persone come Benjamin e la moglie continuano a ripagare questi pozzi senza fondo. È anche per questo motivo che un migliaio di malcapitati ha fatto causa. E, nel marzo scorso, la giustizia francese ha aperto un’inchiesta, affidata al giudice istruttore Claire Thépaut.
Nei giorni scorsi il quotidiano Libération ha pubblicato alcuni stralci delle dichiarazioni rilasciate al magistrato da Nathalie Chevallier, già direttrice regionale a Parigi di Bnp-Pf. Sono inquietanti. La Chevallier racconta di aver nutrito fin dagli inizi “serie riserve” su quel mutuo, prima ancora che venisse proposto sul mercato. “Ma i miei colleghi mi rispondevano: ‘credi di essere più intelligente di chi li ha concepiti?'”, ha dichiarato. La Chevallier effettuò anche dei “crash test“, per verificare i rischi di Helvet Immo, rivelatisi subito altissimi. Ma non servì a nulla.
Iniziarono a commercializzare quel mutuo, senza che la brochure relativa accennasse ai rischi legati al tasso di cambio tra l’euro e il franco svizzero. “Agli intermediari si doveva dire di ricordare ai clienti che erano partner della Bnp e che quindi il prodotto doveva essere per forza di qualità. E che non sarebbero mai stati lasciati da soli, in casi di problemi”, ha aggiunto la Chevallier. Per giunta, agli inizi, i tassi proposti da Helvet Immo erano più bassi di quelli in media dal mercato: un vero specchietto per le allodole. L’inchiesta, per il momento, va avanti. Le famiglie, che ci si sono ritrovate in mezzo, sperano di mettere fine al loro incubo.
  rassegna stampa: il fatto quotidiano 9 novembre 2015