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UN LABORATORIO DI PENSIERO E RIFLESSIONE FATTO DAI LAVORATORI:
il diario della crisi

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mercoledì 30 settembre 2015

Nuova bufera sulle banche: indagini sui prezzi dei metalli preziosi

La Commissione svizzera che tutela la concorrenza (Comco) ha avviato un'indagine per verificare se fra diverse banche, tra le quali la elvetiche Ubs e Julis Baeer, ci siano stati degli accordi illeciti nel commercio di oro, argento, palladio e platino. L'inchiesta riguarda anche Deutsche Bank, Hsbc, Barclays, Morgan Stanley e Mitsu

Nuova bufera sulle banche: indagini sui prezzi dei metalli preziosi        MILANO - Dopo i tassi come il Libor, un nuovo scandalo rischia di squassare la finanza: L'Autorità garante della concorrenza in Svizzera sta indagando su sette grandi banche per la possibile manipolazione dei prezzi di oro, argento e altri metalli preziosi. La Commissione della concorrenza ha reso noto che sta aprendo un'indagine su eventuali collusioni tra gli istituti svizzeri Ubs e Julius Baer con le banche estere Deutsche Bank, Hsbc, Barclays, Morgan Stanley e Mitsui. L'Autorità ha ragione di credere che ci siano stati accordi restrittivi della concorrenza tra le banche per il coordinamento dei prezzi nei metalli preziosi. L'inchiesta dovrebbe essere completata nel 2016 o 2017, ha detto Patrik Ducrey, direttore della commissione della concorrenza svizzera. Le banche potrebbero essere multate con la sanzione massima disponibile pari al 10% dei ricavi.

Come ricostruisce Bloomberg, già in febbraio i regolatori avevano detto di aver aperto un'inchiesta preliminare sulle possibili manipolazioni del fixing sui metalli preziosi. Ad agosto, i regolatori europei hanno invece alzato il velo sulle investigazioni a riguardo, dopo una indagine Usa che ha riguardato le stesse banche. Secondo i 'cani da guardia' di Bruxelles sul piatto ci sarebbero alcune condotte anti-concorrenziali sul mercato spot. Un'impostazione che sembra condivisa dai colleghi elvetici, che hanno "indicazioni" sul fatto che le banche potrebbero aver messo in atto comportamenti collusi nel cercare di determinare il prezzo di oro, argento, platino e palladio, operando sullo spread tra bid e ask, cioè la differenza di prezzo

tra l'acquisto e la vendita di uno strumento finanziario (denaro e lettera). Già il mercato dei tassi interbancari e delle valute sono stati sconvolti da simili inchieste. Nel dicembre del 2013, otto banche hanno trovato una transazione per pagare un totale di 1,7 miliardi di euro.

rassegna stampa: la Repubblica 28 settembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/09/28/news/oro_banche_svizzere_indagine-123839754/ 



giovedì 24 settembre 2015

Minorenni al lavoro e genitori consenzienti

     Un'indagine Datanalysis conferma la piaga sociale che costringe  all'elusione scolastica i più giovani. Sono stati presentati oggi i dati di un fenomeno che riguarda 280 mila ragazzi: con la benedizione di mamma e papà, ogni mattina escono di casa per contribuire al bilancio familiare. Le risposte arrivano da un campione di 1.000 genitori, piccolo ma rappresentativo spaccato della popolazione italiana


Minorenni al lavoro e genitori consenzientiROMA -  La radiografia (Figli di un lavoro minore) commissionata dall'osservatorio di Paidoss e presentata stamane a Roma, è impietosa. E mette a nudo la realtà  drammatica di tanti adolescenti-lavoratori che la crisi economica ha piegato a scelte di opportunità. Ancor più penoso l'assenso del 54 per cento dei genitori che si autoassolve in nome della necessità. Solo uno su tre si batte in ogni modo pur di vedere il figlio under 16 andare a scuola ogni mattina, mentre il 46% ritiene del tutto normale un esordio precoce nel mondo del lavoro.

Cosa fa l'esercito degli sfruttati.  Garzoni di bar,  commessi nei negozi, parrucchieri, meccanici e manovali, sono le opportunità metropolitane più frequenti di  impiego, mentre a chi vive fuori city restano la chance di offrirsi come bracciante agricolo, manovale nei cantieri, meccanico di officina. In totale, lavorando oltre un milione di ore ogni giorno. Per non parlare dei 30mila  che svolgono attività pericolose o potenzialmente inibenti lo sviluppo fisiologico. E' il caso dei ragazzi che turnano di notte. I dati dell'Istituto di ricerche demoscopiche nell'area della Salute e del Sociale commissionati dall'Osservatorio Nazionale sulla salute dell'infanzia e dell'adolescenza (Paidòss) che da domani a sabato si riunisce a Lecce per il congresso nazionale, rivela che il 18 per cento dei giovanissimi abbandona la scuola per la ricerca di un impiego.

La condanna di Paidòss a tutela dei ragazzi. Senza mezzi termini l'Osservatorio della Salute dell'infanzia che da domani a sabato si riunisce a Lecce per il Forum internazionale dell'adolescenza e della Famiglia, chiama in causa la scuola, come deputata alla formazione e all'accompagnamento degli studenti nel mondo del lavoro, salvandoli dallo sfruttamento psicofisico. Spiega Giuseppe Mele, presidente Paidòss: "L'idea che iniziare la gavetta presto aiuti i ragazzi a inserirsi nel mondo del lavoro è falsa e fuorviante, un modo per nascondersi ipocritamente di fronte alla realtà: lavorare prima dei 16 anni è un furto dell'infanzia. Dai dati della ricerca si apprende che i genitori italiani nei confronti del lavoro minorile sono indulgenti: il 26%, con punte del 33 al sud, non ci vede nulla di male, mentre il 20 ritiene che il giudizio debba dipendere dalla situazione del singolo. Ma ciò che forse turba ancora di più è che solo il 34% delle mamme e dei papà costringerebbe a restare sui banchi un figlio intenzionato a lasciare la scuola per lavorare, impedendogli una scelta dannosa per la sua vita: uno su quattro accetterebbe la decisione pur ritenendola un errore, uno su cinque la considera una volontà da rispettare comunque. Non è così: ogni bambino ha il diritto di essere protetto dallo sfruttamento economico, in qualunque forma".

Per i genitori è un problema degli altri. Il  30 per cento dei genitori del Belpaese si illude, ritenendo che  il fenomeno in Italia riguardi solo gli stranieri, il 55% lo considera un dramma dei Paesi sottosviluppati, il 40 ignora del tutto l'esistenza dei piccoli sfruttati anche italiani. E invece dell'esercito dei 280mila lavoratori teen-agers, appena 20mila sono stranieri, mentre il 17% dei genitori intervistati ammette che i ragazzini lavoratori sono una realtà. Chi sono? Figli di amici e parenti o conoscenti dei propri figli: fino al 22-24% nel nord. Nonostante l'evidenza, è ancora valido l'antico pregiudizio verso il sud, visto che il 40% crede che si tratti di un problema confinato al meridione.

I rischi per la salute e per lo sviluppo. "Il lavoro minorile mette a rischio lo sviluppo psicofisico dei ragazzi  -  avverte Claudio Mencacci, past president della Società Italiana di Psichiatria e direttore del Dipartimento di Salute Mentale del Fatebenefratelli di Milano  -  rubando tempo che andrebbe impiegato diversamente: confrontarsi in ambienti sani con il mondo degli adulti, stare con gli amici, studiare, leggere, fare sport sono le attività che aiutano il fisico e il cervello a svilupparsi nel migliore dei modi. Cancellare riposo, svago, sport e apprendimento significa aumentare il rischio di disagi psichici e disturbi dell'umore. E una volta adulti, questi ragazzini potrebbero ritrovarsi a fare i conti con ansia e stress e anche a pagare le conseguenza della sottrazione di quelle risorse che permettono una adeguata "costruzione di sé" . Insomma, sono questi gli elementi che possono minare il benessere mentale futuro di questi ragazzi. Ragazzi costretti a crescere troppo in fretta, magari sotto la pressione della necessità di contribuire a far quadrare i bilanci familiari".

I diritti contro lo sfruttamento economico. Camilla Fabbri, presidente della commissione d'inchiesta sugli infortuni sul lavoro, si appella alla Dichiarazione sui diritti del fanciullo approvata nel '59 dall'assemblea generale dell'Onu. Questa detta regole precise agli Stati membri contro lo sfruttamento economico e qualsiasi tipo di lavoro rischioso o che interferisca con la sua educazione o che sia nocivo per la sua salute o per il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale. "Il lavoro minorile  -  osserva la Fabbri - certifica la sconfitta di ogni società, chiamata invece a garantire il diritto allo studio e alla crescita. E' indispensabile avviare un'operazione di contrasto di carattere globale, che deve vedere impegnato anche il nostro Paese. Un minore sfruttato non sarà mai un cittadino libero. E per questo, nell'atto istitutivo della commissione d'inchiesta sugli infortuni sul lavoro è richiamato il dovere di accertare l'entità della presenza di minori sui posti di lavoro, con particolare riguardo a quelli provenienti dall'estero e alla loro protezione ed esposizione a rischio".


rassegna stampa: la Repubblica 23 settembre 2015
 https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=353240452088341648#editor/target=post;postID=7626656023891328820

martedì 22 settembre 2015

L'autorithy dell'Energia: "La situazione dei contatori resta critica"

Quelli per l'elettricità ci sono pur non essendo omologati, l'installazione di quelli per il gas è ancora agli inizi. Continuano le fatturazione sulla base dei consumi presunti

L'autorithy dell'Energia: "La situazione dei contatori resta critica"       MILANO - La bolletta è nuova, ma i contatori per la rilevazione no. Con il rischio che nonostante i richiami delle autorità competenti, gli utenti siano spesso costretti a pagare sulla base dei consumi presunti anziché effettivi. E se i contatori per l'elettricità di fatto ci sono ma non sono omologati da nessun ente terzo, quelli del gas proprio quasi non esistono. E' quanto emerge dall'indagine conoscitiva dell'autorità dell'Energia sulla "Fatturazione del mercato retail 2013" effettuata in collaborazione con il nucleo speciale Tutela mercati della Guardia di Finanza.

Tra le principali risultanze del resoconto emerge come al 2013 nel settore elettrico i contatori non telegestiti fossero ancora il 2% del totale (circa 750 mila) e per il 4% degli stessi si registrassero insuccessi nella telelettura. Per il settore gas, invece, il processo di installazione dei contatori elettronici è appena agli inizi, meno dell'1% del totale.
Si registrano poi ritardi nella messa a disposizione delle letture (nel settore elettrico il 2,7% dei dati non perviene ai venditori entro i termini previsti dalla regolazione, il 28,1% nel gas) ed era ancora alto il ricorso a stime dei consumi da parte dei distributori (il 5,3% delle misure nell'elettrico, il 16,9% nel gas).

Nel complesso nel settore elettrico sono l'11% le fatture stimate e il 9% quelle miste (con consumi effettivi e con stime). In particolare la percentuale di fatture stimate o miste è del 15,4% nella maggior tutela e del 31,4% nel mercato libero (come a dire che gli utenti più penalizzati sono quelli che hanno lasciato l'ex monopolista). Il 14% delle fatture per i clienti domestici elettrici presenta conguagli, il 16% stime di coda. Per quanto riguarda il gas, oltre la metà delle fatture presenta consumi stimati, mentre il 27,2% contiene conguagli. Sempre nel settore del gas, quasi la metà dei clienti effettua autoletture volontarie per sopperire alla sostanziale assenza di misuratori elettronici e alla diffusa presenza di misuratori collocati all'interno dei fabbricati, pertanto non accessibili in assenza dei titolari o di altre persone autorizzate.

Per far fronte alle criticità emerse, l'Autorithy ha introdotto ulteriori proposte per arrivare a bollette sempre più basate su consumi effettivi. Nel dettaglio sono, quindi, previsti nuovi obblighi di lettura, incentivi all'utilizzo dell'autolettura, l'incremento della periodicità di invio delle bollette e indennizzi automatici per ritardi, il divieto di fatture "miste", cioè con dati effettivi e stimati, nel caso di scelta di fatturazione mensile, oltre che tempi certi per le bollette di chiusura in caso di cambio fornitore, voltura o disattivazione. Tra le poche note positive, l'authority rileva il calo delle contestazioni.


rassegna stampa: la Repubblica 22 settembre 2015 
http://www.repubblica.it/economia/2015/09/22/news/energia_indagine-123444867/


lunedì 21 settembre 2015

Banche in crisi, ok del Cdm: dal 1° gennaio pagheranno azionisti, obbligazionisti e correntisti oltre i 100mila euro

con un’analisi di Rossella Bocciarelli

 Via libera preliminare del Consiglio dei ministri all’attuazione della direttiva europea sulle crisi bancarie. Dal 1° gennaio 2016 i salvataggi delle banche non saranno più finanziati dallo Stato ma
dagli istituti stessi (il cosiddetto bail-in<http://argomenti.ilsole 24ore.com/parolechiave/bailin.html>), cioè in prima battuta dagli azionisti degli istituti di credito coinvolti, poi dagli obbligazionisti, infine, se necessario, dai correntisti con depositi superiori ai 100mila euro (al di sotto di quella cifra infatti vige la garanzia sui depositi). Il coinvolgimento degli investitori avverrà però solo dopo che sia stato utilizzato tutto il capitale e dopo che l’autorità di risoluzione - cioè Banca d’Italia - abbia percorso altre strade come la vendita di una parte degli attivi della banca. Dopo il coinvolgimento dei privati, è ancora possibile, ma altamente improbabile e comunque limitato, un intervento pubblico.

L’ordine di chiamata
Il recepimento della direttiva 2014/59/Ue per il risanamento e risoluzione del settore creditizio e degli intermediari finanziari, cosiddetta Brrd, il cui termine era scaduto il 31 dicembre scorso e su cui l'Italia ha già incassato una “messa in mora” da Bruxelles, prevede il recepimento dello strumento del “bail-in”. In sostanza dal 1° gennaio 2016 i problemi degli istituti di credito andranno risolti dall'interno, non con interventi da parte dello Stato (e quindi dei contribuenti).
Quanto all'ordine di questa "chiamata", gli azionisti saranno in prima posizione per assorbire le perdite, seguiranno i possessori debito subordinato, poi quelli di debito senior. I depositi di pmi e persone fisiche, inclusi quelli di ammontare superiore a 100mila euro, arriveranno dopo i creditori senior.

Le banche si sono già mosse
Le prime conseguenze pratiche del nuovo sistema di gestione delle crisi si sono viste nelle ultime trimestrali approvate dalle banche italiane: alcuni istituti si sono portati avanti e hanno messo da
parte 197 milioni per i due fondi previsti dalla nuova architettura salva-banche. Ma è solo una piccola fetta di quanto verrà chiesto dal prossimo anno agli istituti italiani, grandi e piccoli, per finanziare
i nuovi fondi: un miliardo, da versare ogni anno dal 2016 al 2024, secondo le stime degli addetti ai lavori.

Una holding salva-banche
Il sistema bancario italiano si è già attivato per affrontare i casi più urgenti. Come anticipato dal Sole , è infatti allo studio la costituzione di una holding per il salvataggio, il rilancio e la successiva cessione sul mercato nell'arco di 2-3 anni di Cassa di risparmio di Ferrara, Banca Marche e Banca Popolare dell'Etruria, le tre crisi bancarie che per gravità e dimensioni preoccupano di più il settore italiano del credito e le Autorità che lo vigilano. A metterci le risorse necessarie, attualmente stimate in un miliardo e mezzo, saranno le altre banche italiane, ma se - come probabile - si renderà necessario per far quadrare il cerchio, anche i titolari di obbligazioni subordinate potrebbero essere coinvolti nell'operazione, vedendosi convertiti i bond in partecipazioni azionarie; in questo caso, i titoli in circolazione che potrebbero essere coinvolti ammontano a circa 700 milioni.

Cosa prevede la direttiva europea
Il grado di distribuzione degli oneri degli interventi privati dipenderanno dalla banca, dall'ammontare delle perdite e della situazione economica generale. In casi eccezionali e se necessario per
preservare la stabilità finanziaria, il "bail-in" potrebbe essere concluso una volta raggiunto l'8% delle passività della banca (capitale incluso) o alternativamente il 20% degli asset ponderati per il rischio in situazioni specifiche.
In seconda battuta è previsto l'intervento del fondo di risoluzione a livello nazionale (costituito con versamenti dalle banche), che può assumere fino al 5% delle perdite, oppure del fondo di risoluzione
europeo chiamato SRF (Single resolution fund), anch'esso costituito con i versamenti delle banche. La dote di questo fondo europeo infatti dovrebbe essere costituita con le risorse provenienti
dai fondi di risoluzione nazionali:il fondo europeo sarà però a regime solo dopo 10 anni di versamenti per un target totale di 55 miliardi di euro.

rassegna stampa: il sole 24ore 10 settembre 2015


domenica 20 settembre 2015

Strage di ambientalisti, dal Brasile alle Filippine


   Non volevano dargli semplicemente una lezione. Né fargli paura, come tante volte avevano provato negli anni. La sentenza di morte era stata emessa, senza appello. Per questo, il 25 agosto, dopo averlo ferito, i killer si sono avvicinati al corpo dolorante di Raimundo Santos Rodrigues, steso sul ponte di Bom Jardím, minuscola cittadina brasiliana del Maranhão. E l’hanno crivellato di proiettili. Lo stesso avevano fatto, dieci anni prima e a tremila chilometri di distanza, gli assassini di suor Dorothy Stang, massacrata ad Anapu, sempre in Brasile ma nel Pará. Due delitti compiuti da mani differenti per un’identica ragione: far tacere chi difende l’Amazzonia dalle mire dei latifondisti, tagliaboschi, fautori di mega progetti minerari o idroelettrici.
Un business miliardario. Non stupisce, dunque, che gli ambientalisti siano diventati ormai una categoria sociale ad alto rischio. «In realtà, definirli ecologisti è riduttivo. Sono attivisti sociali a tutto campo», spiega la Commissione pastorale della terra (Cpt), autorevole organismo impegnato nella denuncia dei conflitti agrari e nella lotta alla moderna schiavitù, legato alla Chiesa brasiliana.

«La foresta non è solo flora e fauna - sottolinea ad 'Avvenire', dom Erwin Krautler, vescovo dello Xingu e tra i più noti difensori delle genti dell’Amazzonia -. E’ la patria di numerosi popoli che la abitano da millenni e ora sono minacciati di sterminio fisico e culturale. L’unico modo per impedirlo è battersi per salvare la loro terra». La pensava così anche Raimundo, volontario dell’Istituto per la biodiversità, Chico Mendes, nome del più noto tra i difensori dell’Amazzonia assassinato 27 anni fa. Per questo cercava di proteggere le 100 famiglie di agricoltori della comunità di Brejinho das Onças dalle mire espansionistiche di un potente 'fazendero' (grande proprietario), ansioso di cacciarli dalla Riserva biologica do Guruopi per impossessarsene. E per questo è stato assassinato. Otto giorni dopo, la stessa sorte è toccata a Semião Villhalva, leader della comunità guaranì-kaiowá Nanderu Meragatu del Mato Grosso do Sul. Una settimana prima, i nativi erano riusciti a riappropriarsi della terra strappata loro da un grande allevatore.

Sono 25 gli attivisti ambientali uccisi negli ultimi otto mesi, vittime della guerra silenziosa combattuta in Brasile contro chi si oppone alla distruzione del polmone verde del pianeta. Sarebbero stati 27 se i sicari non avessero 'fallito' con i leader comunitari Elizeu Bergançola e Alexandre Batista de Souza. Tre ecologisti ammazzati ogni mese. Nel 2014, la media era stata di due, per un totale di 29. Il record mondiale, secondo il rapporto dell’Ong Global Witness. La Cpt denuncia l’assassinio di almeno 1.500 ambientalisti in 25 anni, altri 2mila hanno ricevuto gravi minacce. L’intensità del massacro aumenta di pari passo alla deforestazione. Dopo un decennio di 'contenimento' - per la politica avviata dal governo di Ignacio Lula da Silva -, il numero di alberi 'sacrificati' alla fame di soia per la produzione dei biocarburanti e legname pregiato ha ricominciato a crescere dal 2012, al ritmo di 5mila chilometri quadrati di boschi distrutti all’anno. Colpa - sostengono gli esperti - del Codice forestale approvato nel 2011 su pressione dei grandi proprietari. Quest’ultimo ha ridotto drasticamente le aree protette e le pene per i delitti ambientali.

Il Brasile è il caso più drammatico per il mix letale tra l’inestimabile ricchezza del patrimonio naturale, la presenza di un’oligarchia terriera tanto influente da impedire finora la realizzazione di una riforma agraria, l’emergere di nuovi imprenditori legati all’agrobusiness e al boom della soia. Il 'Gigante latino' è, però, solo la punta di diamante di un trend di violenza globale contro i difensori dell’ambiente.

Nel 2014 - sostiene Global Witness - sono stati uccisi 116 attivisti, 21 in più (il 20%) rispetto nei dodici mesi precedenti. La cifra reale, data la forte censura in alcuni Stati, potrebbe essere ancora maggiore. Quel medesimo anno, i reporter che hanno perso la vita in zone di guerra, secondo Reporters Sans Frontières, sono stati 66, quasi la metà. L’America Latina è il Continente più pericoloso per gli ambientalisti: tre quarti del totale degli omicidi - ben 88 - è avvenuto là. Unico Paese non 'latino' ai vertici della tragica classifica sono le Filippine, con 15 omicidi. In Colombia - dove sono stati uccisi 25 ecologisti, la seconda nazione più letale dopo il Brasile - la principale minaccia è rappresentata dai nuovi paramilitari, nati dopo lo scioglimento delle Autodefensas
Unidas de Colombia (Auc).

Le cosiddette Bacrim si oppongono al processo di restituzione delle terre espropriate dai gruppi armati agli sfollati interni e incamerati dai latifondisti locali. A questo si aggiunge l’espansione delle miniere d’oro clandestine legate sempre alle formazioni illegali -: un giro d’affari redditizio quanto inquinante. Sempre il prezioso metallo e l’ansia delle multinazionali straniere, in particolare canadesi, di sfruttarlo con miniere a cielo aperto è causa di violenza contro gli ambientalisti in Guatemala, con cinque morti.

Mentre in Perù - nove delitti -, la lotta si concentra principalmente contro il lucroso traffico di legname. In Honduras - con 12 vittime, il dato più alto in rapporto alla popolazione -, l’epicentro del conflitto ruota intorno alle grandi dighe. E alla pressione che queste ultime determinano sulle comunità indigene. Come dimostra la storia di Berta Cáceres, appena premiata con il Goldman per l’ambiente 2015. «Mi seguono ovunque, mi hanno minacciato di rapire me e la mia famiglia», ha raccontato Berta che, nel 2013, ha visto morire tre compagni di lotta contro la diga di Agua Zarca, sul fiume Gualcarque. Il gigantesco invaso taglierebbe i rifornimenti a centinaia di famiglie di etnia Lenca, situate sulle rive del corso d’acqua e da quest’ultimo dipendenti. Il profondo legame tra habitat naturale, terra e popoli indios produce un’inquietante conseguenza: 47 attivisti assassinati (il 40 per cento del totale) l’anno scorso erano nativi.

Se lo sfruttamento economico delle risorse ambientali è la radice della violenza, il suo motore è l’impunità. Dei 908 crimini registrati in 35 Paesi tra il 2002 e il 2013, meno del 10 per cento è stato risolto. Anzi, Global Witness mette in luce una crescente tendenza degli Stati a 'criminalizzare la protesta' delle organizzazioni ambientaliste con leggi ad hoc. Un paradosso. Fra meno di due mesi - dal 30 novembre all’11 dicembre - si aprirà a Parigi la Conferenza mondiale sul clima in cui le nazioni discuteranno le soluzioni per frenare l’inquinamento e un nuovo protocollo contro le emissioni. Nel mentre, però, a livello internazionale, ben poco viene fatto per proteggere quanti già nel concreto - e nell’invisibilità totale - dedicano la vita a proteggere la 'casa comune'. La quasi totalità degli ecologisti morti aveva subito ripetute minacce di morte. «Anche Dorothy era stata intimidita - racconta dom Erwin, amico della religiosa statunitense massacrata il 12 febbraio 1988 -. E lei lo sapeva. Ne abbiamo parlato dieci giorni prima della sua morte. Prima ha scherzato, dicendo: 'I sicari non avranno il coraggio di far del male a una vecchia…'. Poi è diventata seria è ha aggiunto: 'Ho fiducia in Dio e so che mi starà sempre accanto. Preferisco concentrarmi sulla vita invece di pensare alla morte'». Una frase in linea con il comportamento della suora di fronte ai suoi assassini. Quella mattina di febbraio, dopo aver mostrato loro la sua 'arma': la Bibbia e aver letto le Beatitudini, suor Dorothy ha salutato i killer e li ha benedetti. Poi, sono arrivati gli spari e il corpo è caduto fra terra e foresta.


rassegna stampa: Avvenire 17 settembre 2015 di Lucia Capuzzi

sabato 19 settembre 2015

La terza guerra mondiale a pezzi

Rapporto conflitti dimenticati: +10% in 4 anni. Boom armamenti

Dossier
Per la ricerca, condotta da Caritas, Famiglia Cristiana e Regno, tra il 2011 e il 2014 sono passati da 388 a 424
MILANO
Sono generosi, ma non polli. Solidali, ma non ingenui. Quelli della Caritas italiana intervengono nelle emergenze, soccorrono, curano. Ma intanto studiano a fondo i fenomeni che generano sofferenza e povertà; risalgono alle cause profonde dei conflitti, tutti. E chiedono a noi di fare qualcosa di simile, ossia informarci, prendere coscienza e mai essere superficiali: in una parola, amare sul serio.
Sfogli le 210 pagine del quinto rapporto sui conflitti dimenticati ( Cibo di guerra, Il Mulino, 18 euro) E ti rendi conto della qualità dei ricercatori coinvolti dalla Caritas italiana. Tra i tanti capitoli, il primo che ti costringe a fermarti è forse l’indagine condotta nei Centri di ascolto in Italia, a cura di Marilena Campagna e Walter Nanni, in particolare nelle diocesi che aderiscono al sistema informatico online Ospoweb promosso dalla Caritas stessa. E soprattutto le 25 testimonianze. Ecco i migranti veri, fuor di retorica, senza etichette. Uomini e donne come topi, costretti a nascondersi, presi e maltrattati, in interminabile fuga da situazioni insostenibili. Ieri pomeriggio hanno raccontato la propria esperienza sul campo Moira Monacelli (coordinatrice Caritas Italiana per la Regione del Sahel e West Africa), Matteo Amigoni (coordinatore programmi Caritas Italiana per Filippine ed Indonesia), Monica Ferrari (coordinatrice progetti di Caritas Siria), Daniele Febei (operatore di Caritas Italiana ad Haiti) e Chiara Bottazzi (operatrice di Caritas Italiana in Grecia).
Tra le tante cose che i rapporti dimostrano, il vicedirettore Paolo Beccegato sottolinea come tra il 2011 e il 2014 i conflitti siano aumentati da 388 a 424. Sono quasi sempre guerre interne agli stati, il 90 per cento dalla fine della seconda guerra mondiale, e generano un giro vorticoso di armi: tra il 2010 e il 2014, il mercato è cresciuto del 16 per cento con Usa e Russia a spadroneggiare con il 58 per cento del fatturato. Il punto di svolta è l’11 settembre 2001; prima, le spese militare erano diminuite; da quel momento cresceranno senza sosta. L’attentato alle Twin Towers ha avuto anche l’effetto di incrementare un’industria strategica, quella degli armamenti.
E i media? Il loro ruolo è centrale e don Antonio Sciortino, direttore di 'Famiglia cristiana' (qui partner della Caritas), lo spiega ricorrendo alle nude cifre. Ne bastano due. A chi strilla all’invasione' dei profughi, Sciortino ricorda come gli italiani che lasciano il paese siano comunque il doppio dei richiedenti asilo. E oggi gli immigrati costituiscono il 7 per cento dell’intera popolazione europea: invasione? «Un’informazione corretta – conclude Sciortino – eviterebbe a certi di dibattiti di essere drammaticamente superficiali». Quanto ai conflitti dimenticati, quelli di cui raramente si parla, Sciortino ricorda la Somalia, che in 24 anni ha visto fuggire la metà della sua popolazione.
E noi? La Caritas ha qualcosa da dire al popolo delle parrocchie, ai fedeli tutti. Ci pensano il direttore, don Francesco Soddu, e il presidente Montenegro. Entrambi spiegano come il compito prevalente della Caritas sia «pedagogico», ossia di sensibilizzare le coscienze per un’azione più completa e incisiva a favore dell’uomo. Montenegro ricorda le parole di papa Francesco e gli imminenti appuntamenti ecclesiali. E per rispondere alla classica domanda inespressa («che cosa posso fare concretamente?») racconta di quelle famiglie di Lampedusa, loro sì travolte dai migranti sfiniti, che semplicemente mettono un termos di caffè sulla soglia di casa. E chi lo desidera, si serva pure.
E la politica? «Occorre dialogo, non solo contrapposizione » avverte Montenegro, ma aggiunge, con un tacito riferimento a fatti recenti: «Comunque i popoli possono mettere con le spalle al muto i loro governi». Temi duri, quindi Montenegro, che parla nel primo pomeriggio, sorride: «Spero di essere stato per voi un digestivo, non una camomilla...».

rassegna stampa: Avvenire 12 settembre 2015 

L’altra faccia del Giappone: povero un bambino su sei

Il governo crea fondo contro l’«emarginazione»
Una “ferita” che le autorità giapponesi hanno a lungo velato. Ma qualcosa sta cambiando. Il primo ministro nipponico Shinzo Abe ha annunciato la costituzione di un fondo per cercare di alleviare la povertà dei bambini. La “spinta” viene dai numeri. Nel 2012 il 16,3 per cento dei minori al di sotto di 17 anni viveva sotto il livello di povertà, fissato a metà del reddito medio. Si tratta di un dato im- portante, che si situa sopra quello della Gran Bretagna (9,8 per cento) e sotto quello degli Stati Uniti (21,2 per cento), secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Il tasso di povertà balza al 54,6 per cento per le famiglie con un solo genitore, ed è il peggiore in ambito Ocse. «Il fatto che il governo riconosca la povertà infantile come questione nazionale è un grande passo avanti», ha commentato Aya Abe, docente all’Università di Tokyo. «Tuttavia – ha continuato l’esperto – il governo dovrebbe anche fissare un impegno finanziario o porre un obiettivo su quanto intende ridurre il tasso di povertà». Si tratta di un vulnus che rischia di colpire in profondità gli equilibri, già delicati, del Giappone. Perché povertà si traduce nell’impossibilità di accedere a livelli elevati di istruzione, in Paese estremamente selettivo e in cui i costi legati all’educazione sono esorbitanti – le tasse per un liceo pubblico arrivano a 400mila yen all’anno, le private anche a un milione di yen. Nel 2012 il reddito medio delle famiglie a livello nazionale ammontava a 5,4 milioni di yen (53mila dol-lari), con un calo su base annua del 2% per tutte le famiglie e il 3,4% per le famiglie con bambini.
Un’intera generazione di ragazzi non potrà così qualificarsi per entrare nel mondo del lavoro. Una zavorra che potrebbe affondare la società giapponese, alle prese con due dinamiche demografiche allarmanti. La mancanza di manodopera. E l’invecchiamento progressivo e irreversibile della popolazione. Entro il 2040 la popolazione del Giappone, secondo stime delle Nazioni Unite, scenderà a 115 milioni, contro i 127 milioni di oggi. Nel 2013 la popolazione totale è diminuita di 244mila unità: per ogni mille abitanti ci sono state 8,2 nascite contro 10.1 morti.

rassegna stampa: Avvenire 12 settembre 2015

giovedì 17 settembre 2015

In Europa 12 milioni di disoccupati di lunga durata, Bruxelles prova a correre ai ripari

    La metà delle persone in cerca di lavoro è fuori dal mercato da più di un anno: tornare occupati è impresa ardua e in un caso su cinque vince lo scoraggiamento. La Commissione propone una raccomandazione per adeguare i servizi di collocamento a questa urgenza

In Europa 12 milioni di disoccupati di lunga durata, Bruxelles prova a correre ai ripari MILANO - Dodici milioni di persone, in Europa, sono disoccupati di lunga durata: hanno perso il lavoro e ormai da un anno sono in cerca,ca, senza risultati, di nuova occupazione. Il fenomeno è molto rilevante anche in Italia. Gli ultimi approfondimenti dell'Istat sul mercato del lavoro, relativi al secondo trimestre 2015, hanno detto che "dopo l’aumento ininterrotto registrato fra il 2008 e il 2014, nel secondo trimestre prosegue la discesa della disoccupazione di lunga durata (almeno 12 mesi), al 59,5% dal  61,9% di un anno prima. Sono 1 milione 845 mila le persone coinvolte". Secondo l'Ocse, che ha rilasciato un report ad hoc nello scorso maggio, il Belpaese è il quarto dell'area per incidenza del fenomeno. Per affrontare questo problema enorme che affligge il Vecchio Continente, la Commissione europea ha proposto una serie di "orientamenti".

"Malgrado i segni di ripresa economica", dice Bruxelles, il numero di disoccupati di lunga durata "è raddoppiato tra il 2007 ed il 2014 ed è pari a circa la metà del totale dei disoccupati": sono il 5% della popolazione attiva. La Commissione riconosce che, anche di fronte a una ripresa della creazione di posti di lavoro, "per i disoccupati di lunga durata è spesso difficile riuscire a rientrare nel mercato". Non è un caso che dei 12 milioni di disoccupati di lunga durata, più del 60% sia in cerca di tornare al lavoro da più di due anni. Ogni anno, inoltre, una persona su cinque si scoraggia ed entra a far parte ufficialmente della popolazione inattiva: non cerca più lavoro. La proposta di raccomandazione "prevede che tutte le persone in cerca di lavoro, disoccupate da più di 12 mesi, sono oggetto di un esame individuale e di un accordo di integrazione nel posto di lavoro che offre loro un piano concreto e personalizzato per tornare al lavoro prima di raggiungere i 18 mesi di disoccupazione".

L'obiettivo di Bruxelles è potenziare i servizi per i disoccupati, in tre fasi: "Incoraggia l’iscrizione dei disoccupati di lunga durata presso un servizio di collocamento; fornisce a ciascun disoccupato di lunga durata iscritto una valutazione individuale approfondita per identificarne esigenze e potenzialità entro e non oltre i primi 18 mesi di disoccupazione; offre un accordo di integrazione nel posto di lavoro a tutti i disoccupati di lunga durata iscritti entro e non oltre i primi 18 mesi di disoccupazione .Tale accordo di reinserimento nel posto di lavoro consisterà in un piano, tagliato su misura, per ridare lavoro ai disoccupati di lunga durata. A seconda dei servizi esistenti nei vari Stati membri, esso può riguardare: tutoraggio, aiuto nella ricerca di lavoro, corsi di istruzione e formazione permanente nonché aiuti per l’alloggio e per servizi nel campo dei trasporti, dell’infanzia, dell’assistenza sanitaria o del riadattamento. L’accordo dovrebbe essere offerto e posto in atto attraverso un punto di contatto unico per assicurare la continuità e la coerenza del sostegno. Esso dovrebbe anche delineare in modo chiaro i diritti e le responsabilità sia dei disoccupati che delle organizzazioni che erogano un sostegno".

Il Fondo sociale europeo è il bacino destinato a erogare le risorse per attuare le raccomandazioni e la proposta "sollecita inoltre il coinvolgimento attivo dei datori

di lavoro tramite partenariati con le autorità pubbliche in modo da accrescere la gamma dei servizi che si possono ricevere, oltre ad offrire loro incentivi finanziari mirati". Il prossimo passaggio formale è la trasmissione al Consiglio per l'adozione della raccomandazione.

rassegna stampa: la repubblica 17 settembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/09/17/news/disoccupazione_lunga_durata_commissione_ue-123077850/ 


mercoledì 16 settembre 2015

Salvare le banche è costato all'Eurozona 800 miliardi, recuperati nemmeno a metà

Secondo il conteggio della Bce l'assistenza cumulata al sistema finanziario tra il 2008 e il 2014 è ammontata all'8% del Pil dell'area con la moneta unica. Di questi denari, ne sono stati recuperati il 3,3% del Pil. In Italia effetti minimi, più pesanti su Grecia, Irlanda, Cipro, ma anche in Germania


Salvare le banche è costato all'Eurozona 800 miliardi, recuperati nemmeno a metà
MILANO - Il salvataggio del sistema finanziario durante gli anni peggiori della crisi economica è costato ai Paesi dell'Eurozona circa 800 miliardi di dollari, l'8% del Pil aggregato, e solo il 3,3% del Pil è stato fino ad ora recuperato: meno della metà. I Paesi dell'unione monetaria sono intervenuti a sostegno del sistema bancario offrendo un'ampia gamma di strumenti, dalla concessione di garanzie alla sottoscrizione di asset fino all'iniezione di capitale, in modo da evitare che la crisi iniziata nel 2008 si trasformasse in 'credit crunch'. La percentuale dei recuperi ('recovery rate'), dice ora un report della Bce, è limitata per il momento al 40%: "E' un livello basso per gli standard internazionali" e restano rischi legati a garanzie pubbliche residue (tema caldo in tempi di discussione sulla bad bank) che Francoforte calcola pari a 2,7% del prodotto interno lordo della zona euro.

"La percentuale dei recuperi è a oggi particolarmente bassa in Irlanda, Cipro e Portogallo, mentre risulta relativamente elevata nel caso dell'Olanda" si legge in una sezione del documento sul quale fa il punto Reuters. "Il ritmo dei rimborsi sta migliorando ma a livello storico resta relativamente modesto" scrive Francoforte. Sempre secondo le stime della banca centrale, circa un quinto dell'incremento complessivo del debito pubblico della zona euro - passato da 65% del Pil nel 2008 a 92% a fine 2014 - va messo in relazione agli aiuti concessi alle banche.

La ricaduta più significativa a livello di debito, mostra la tabella della Bce, si è registrata in Irlanda, Grecia e Cipro: per le prime due l'impatto è stato superiore al 22% del Pil, per Nicosia al 19%. Significativo anche il coinvolgimento di Berlino, che ha pompato nel sistema bancario fino a oltre otto punti percentuali di Pil, mentre in Italia e Francia ci si limita a effetti da prefisso telefonico: lo 0,1% del Prodotto interno lordo.
 
Paese % di Pil
L'impatto del sostegno al sistema finanziario in % del Pil (calcolato ai fini delle procedure per deficit eccessivo, Bce, 2008-2014)
Belgio 4.6
Germania 8.2
Irlanda 22.6
Grecia 22.2
Spagna 5.00
Francia 0.1
Italia 0.1
Cipro 19.4
Lettonia 5.5
Lituania 0.9
Lussemburgo 5.3
Olanda 5.5
Austria 8.4
Portogallo 11.00
Slovenia 18.2
Eurozona 4.8

Per quanto le garanzie pubbliche risultino in netto calo rispetto ai picchi del 2012, il plafond dei depositi bancari garantiti è stato innalzato e gli aiuti pubblici al sistema nel lungo termine finiscono per avere dei costi sui contribuenti. "Una delle misure più efficaci per ridurre il potenziale costo fiscale è la garanzia di un contributo appropriato

da parte degli azionisti e dei portatori di obbligazioni" conclude il documento Bce. Quel bail-in approvato di recente anche in Italia.

rassegna stampa: la Repubblica 16 settembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/09/16/news/salvataggio_banche_eurozona-122995129/?ref=HREC1-8 


martedì 15 settembre 2015

Banche verso l'accordo per le opacità sul mercato dei Cds

     Dodici istituti verseranno 1,87 miliardi di dollari. Ne beneficerà un gruppo di investitori che ha denunciato i meccanismi opachi di formazione dei prezzi delle 'assicurazioni' dal rischio di fallimento. E' un mercato da 16mila miliardi di dollari.

Banche verso l'accordo per le opacità sul mercato dei Cds MILANO - Dodici delle maggiori banche mondiali sono prossime a un accordo da 1,87 miliardi di dollari per chiudere l'ennesima controversia con gli investitori, questa volta in materia di cds, i contratti che fungono da assicurazione su un sottostante e vengono scambiati come titoli azionari, con un prezzo che varia. Secondo quanto ha riportato Bloomberg, le maggiori protagoniste di Wall Street e non solo (Goldman, Citi, JPMorgan e Hsbc sono tra loro) hanno trovato l'accordo, che entra tra i più impegnativi economicamente della storia. La notiza è stata confermata anche dal rappresentante legale di uno dei ricorrenti, un fondo pensionistico di Los Angeles. Mancano ancora i dettagli, ma il più è fatto.

Secondo l'accusa, gli istituti si sarebbero di fatto accordati per fissare i prezzi dei contratti in maniera opaca. Secondo gli investitori, ne avrebbero giovato in termini di profitti pratici in un mercato di fondo anti-concorrenziale. Secondo quanto hanno riferito alcune fonti a conoscenza del dossier, le banche pagheranno importi differenti a seconda della loro posizione. Da parte loro, comunque, non c'è alcuna ammissione di responsabilità e non sono in corso indagini penali.

Il mercato dei credit default swap vale qualcosa come 16mila miliardi di dollari (dati alla fine del 2014). I cds vengono utilizzati come strumenti finanziari per proteggersi dal rischio di fallimento di un emittente: sono appunto una sorta di assicurazione. Secondo le accuse degli investitori, le informazioni sulla formazione del prezzo dei cds erano a esclusivo beneficio delle banche, che potevano così giocare in netto vantaggio rispetto alle altre parti in causa. "Di fatto, un investitore doveva pagare quel che loro volevano", hanno denunciato i ricorrenti.


rassegna stampa: la repubblica
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/09/13/news/banche_verso_l_accordo_per_le_opacita_sul_mercato_dei_cds-122800152/

 

Maxi-tagli in vista per Deutsche Bank: ombre su 25mila posti

Pronta la sforbiciata all'organico: 15mila dipendenti usciranno dal perimetro del gruppo con la vendita di Postbank, prevista l'anno prossimo. In agenda anche la chiusura di 200 filiali e l'addio a una decina di Paesi, tra i quali la Russia.

Maxi-tagli in vista per Deutsche Bank: ombre su 25mila posti         MILANO - Il colosso tedesco Deutsche Bank sarebbe pronto a tagliare circa 25 mila posti di lavoro, sui quasi 100 mila complessivi del gruppo. Quindicimila verrebbero cancellati con lo spinoff della divisione Postbank programmata nel 2016. Ne ha dato notizia l'agenzia Reuters, sul suo sito, citando fonti finanziarie, nella serata di lunedì. Secondo diversi insiders, del piano avrebbe parlato il numero uno dell'istituto, John Cryan, nel corso del weekend in cui si è tenuta una due giorni ristretta del consiglio di sorveglianza. La banca non ha commentato la notizia. Come ricorda Bloomberg, alla fine di giugno la maggior banca europea aveva poco meno di 99mila dipendenti.

Attualmente gli impiegati in Postbank sono circa 15.000 e uscirebbero dal perimetro di Deutsche Bank a seguito della decisione del nuovo co-amministratore delegato, John Cryan (che ha preso il posto di Anshu Jain nel luglio scorso), di velocizzare il piano per migliorare la redditività della banca, riducendo le spese e tagliando alcune aree di attività. Cryan intende completare entro la fine di ottobre il progetto di riorganizzazione della banca, che prevede, oltre all'addio a Postbank acquisita ormai sette anni fa, anche l'uscita da 10 Paesi in cui è presente il colosso tedesco e la chiusura di 200 filiali in Germania. Le operazioni di investment bank in Russia dovrebbero saltare.

L'ultimo annuncio di tagli alla

forza lavoro da parte di Deutsche Bank risalre al 2012, con un obiettivo di riduzione di 2.000 unità, ma le nuove indiscrezioni sugli oltre 23.000 tagli sono piaciute al mercato, con il titolo che ieri è salito dello 0,5% a Francoforte, superando la performance del listino tedesco.

rassegna stampa: la Repubblica 15 settembre 2015
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2015/09/15/news/maxi-tagli_in_vista_per_deustche_bank_ombre_su_25mila_posti-122910598/?ref=HRLV-3 


Povertà in aumento, la Caritas: "Il governo Renzi ha fatto più dei predecessori, ma non basta"

Il rapporto della Caritas. Ma i più recenti dati Istat dicono che la povertà assoluta in Italia ha smesso di crescere. Per la prima volta dal 2007 la percentuale di persone colpite si è stabilizzata rispetto all'anno precedente. Rispetto all'Italia pre-recessione, dunque, i poveri in senso assoluto sono più che raddoppiati.

Povertà in aumento, la Caritas: "Il governo Renzi ha fatto più dei predecessori, ma non basta"      ROMA - Il Rapporto Caritas sulle politiche contro la povertà giunge quest'anno alla sua seconda edizione. Due gli interrogativi che lo attraversano: quale bilancio si può fare oggi dell'azione del governo Renzi nelle politiche contro la povertà? Quali sono le prospettive della lotta all'indigenza nell'Italia del post-crisi?

La "normalità" della povertà. I più recenti dati Istat ci dicono che la povertà assoluta in Italia ha smesso di crescere. Per la prima volta dal 2007, infatti, nel 2014 la percentuale di persone colpite si è stabilizzata rispetto all'anno precedente: nel 2014 erano il 6,8% del totale mentre nel 2013 il 7,3%. Ma non è tutto a posto come sembra. Se confrontiamo il 2014 con il 2007, ultimo anno prima dell'inizio della crisi, si osserva che il numero delle persone in povertà assoluta è salito dal 3,1% al 6,8% del totale. Rispetto all'Italia pre-recessione, dunque, i poveri in senso assoluto sono più che raddoppiati.

Cos'è la povertà assoluta. La povertà assoluta è definita dall'Istat come l'impossibilità di accedere "all'insieme di beni e servizi che, nel contesto italiano, vengono considerati essenziali, per una determinata famiglia, per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile". Questo insieme di beni e servizi è suddiviso dall'Istat in tre componenti: alimentare, abitativa e residuale (vestiario, possibilità di spostarsi sul territorio ed altro). I rapporti Caritas  -  in linea con l'opinione nettamente prevalente nella comunità scientifica  -  individuano in quella assoluta la povertà vera e propria. Nel prosieguo del capitolo, pertanto, il termine povertà è utilizzato per riferirsi alla povertà assoluta.

Colpiti trasversalmente i gruppi sociali. Oltre ad essere aumentati, i poveri rappresentano anche la parte della società che ha visto le proprie condizioni deteriorarsi maggiormente. Infatti, durante la crisi, il 10% della popolazione con minor reddito  -  per lo più, appunto, persone in povertò assoluta  -  ha sperimento una contrazione percentuale delle proprie entrate (meno 27%) assai superiore a quella vissuta dal restante 90%. Inoltre, la povertà ora colpisce trasversalmente i gruppi sociali: non più solo famiglie numerose che vivono al Sud e con componenti disoccupati, ma famiglie con uno e due figli, che vivono al Centro-Nord e in cui sono presenti membri occupati.

L'indigenza si è ora stabilizzata. E l'indebolimento strutturale della società italiana - basti pensare alla fragilità delle reti familiari e del mercato del lavoro - rende irrealistico immaginare di tornare ai livelli di povertà del 2007.
Questa "normalità", nell'Italia di oggi e di domani, rappresenta il punto dal quale partire per discutere le politiche di contrasto. Un fenomeno non privo di soluzioni ma che non si risolverà da sé, come conseguenza della ripresa economica. Si tratta, invece, di un problema sociale realisticamente affrontabile con adeguate politiche pubbliche.

L'anomalia del welfare italiano. Per poter valutare l'operato del governo guidato da Matteo Renzi nei confronti della povertà è opportuno considerare la realtà delle politiche in questo ambito, prima del suo arrivo, cioè l'eredità lasciata dai suoi predecessori.
- Primo, l'Italia è l'unico paese europeo, assieme alla Grecia, privo di una misura nazionale mirata a sostenere l'intera popolazione in povertà assoluta.
- Secondo, l'attuale sistema di interventi pubblici risulta del tutto inadeguato per volume di risorse economiche dedicate e frantumato in una miriade di prestazioni non coordinate, suddivise tra una varietà di categorie e con caratteristiche diverse.
- Terzo, la gran parte dei finanziamenti pubblici disponibili è dedicata a prestazioni monetarie nazionali mentre i servizi alla persona, di titolarità dei Comuni che poi coinvolgono anche il terzo settore, sono sottofinanziati.
- Quarto, la distribuzione della spesa pubblica è decisamente sfavorevole ai poveri: l'Italia ha una percentuale di stanziamenti dedicati alla lotta alla povertà inferiore alla media dei paesi dell'area euro - 0,1% rispetto a 0,5% del Pil, l'80% in meno; inoltre, al 10% della popolazione con minore reddito è destinato il 3% della nostra spesa sociale complessiva e il 7% della spesa per protezione sociale non pensionistica.

Cos'è cambiato durante la crisi? In termini strutturali nulla, poiché nel periodo 2007-2014 non sono state introdotte novità degne di nota. In parallelo, le già ridotte risposte esistenti sono state ulteriormente indebolite dalle politiche di austerità rivolte ai Comuni, che li hanno portati a contrarre la loro spesa sociale, già molto scarsa. Oggi ci troviamo, dunque, di fronte a una povertà diffusa e ad un welfare pubblico ancora del tutto inadeguato.

Ai poveri qualche sollievo rispetto ai governi precedenti. Il governo Renzi ha sinora introdotto alcuni interventi per supportare il reddito delle famiglie rivolti prevalentemente a fasce più ampie della popolazione ma che, in varia misura, riguardano anche i nuclei in povertà: il bonus di 80 euro per i lavoratori dipendenti, il bonus bebè per famiglie con figli entro i tre anni, il bonus per le famiglie numerose e l'Asdi. L'insieme degli interventi di sostegno al reddito sinora varati restituisce un quadro piuttosto chiaro. Ai poveri viene fornito qualche sollievo, che si traduce in un complessivo incremento medio di reddito pari al 5,7%, risultato migliore rispetto ai precedenti governi.

Benefici marginali e controindicazioni. Si tratta, però, di un avanzamento marginale e non privo  -  per come è stato disegnato  -  di controindicazioni. Pertanto, la valutazione d'insieme non può che essere la seguente: in materia di sostegno al reddito, l'attuale esecutivo, ad oggi, non si è discostato in misura sostanziale dai suoi predecessori ed ha confermato la tradizionale disattenzione della politica italiana nei confronti delle fasce più deboli della popolazione.

I punti negativi della politica del governo Renzi per la povertà

- Primo. Per prima cosa, i diversi contributi sin qui introdotti raggiungono, nel loro complesso, una quota limitata delle famiglie in povertà assoluta, intorno al 20%. L'incremento medio del reddito di tutte le famiglie in povertà assoluta è del 5,7%. Pur trattandosi, come anticipato, di un miglioramento utile, è da ricordare che l'aumento medio del reddito del nucleo previsto in una misura di reddito minimo come il Reddito d'Inclusione Sociale (Reis), capace di portare le condizioni di tutte le famiglie al livello della soglia di povertà assoluta, è dell'86%.

- Secondo. il Governo, introducendo quattro nuove misure che possono essere ricevute anche dai poveri ha incrementato ulteriormente la frammentazione rendendo l'accesso agli interventi ancora più complicato, in particolare per chi ha minore istruzione e meno reti sociali e accrescendo la complessità gestionale per gli operatori del welfare.
- Il Presidente del Consiglio ha annunciato per il prossimo triennio un ampio pacchetto di riduzione delle imposte: nel 2016 l'abolizione della Tasi sulla prima casa, nel 2017 la riduzione di Ires e Irap e nel 2018 quella dell'Irpef. Mentre Ires e Irap si rivolgono alle imprese, abolizione della Tasi e diminuzione dell'Irpef sono finalizzate a sostenere direttamente il reddito delle famiglie attraverso minori imposte.
- Quale sarà l'impatto di queste misure su chi dispone di un minor reddito? Quello conseguente all'eliminazione della Tasi risulterà contenuto poiché solo il 35% delle famiglie in povertà assoluta la paga. Non sono ancora note, invece, le caratteristiche della prevista riduzione dell'Irpef. In ogni modo, la ricaduta sugli indigenti sarà irrilevante dato che la gran parte è incapiente. Infatti, tra il 5% di famiglie con il reddito più basso, tutte in povertà assoluta, meno del 10% del totale paga l'Irpef, e nel successivo 5% tale percentuale arriva al 20%.

Il calo delle tasse riguarderà poco i poveri assoluti. Complessivamente, il pacchetto di riduzione delle tasse annunciato riguarderà in misura del tutto marginale i poveri assoluti, la maggior parte dei quali non ha disponibilità economica sufficiente per pagarle, oppure deve pagarne assai poche. Neppure le misure annunciate per il futuro modificano il giudizio espresso sopra.

Politica sociale: novità da non enfatizzare. La disamina di quanto avvenuto sul fronte della politica sociale è, necessariamente, piuttosto breve. Il motivo è semplice: nel settore il Governo Renzi non ha sinora realizzato alcun intervento di rilievo. L'unica azione da segnalare, sino ad oggi, consiste nel leggero aumento dei fondi nazionali deciso con la legge di stabilità 2015: lo stanziamento complessivo per i tre fondi principali - Fondo Nazionale Politiche Sociali, Fondo Non Autosufficienze e Fondo Nidi - è salito a 800 milioni rispetto ai 667 del 2014. Seppure positiva, si tratta di una novità da non enfatizzare, alla luce dell'esiguità dei relativi finanziamenti e del fatto che si rimane comunque lontani dai 1070 milioni destinati a tali fondi nel 2008 dall'allora Governo Prodi, cifra che già allora tutti gli esperti giudicarono inadeguata ad affrontare lo storico sotto-finanziamento delle politiche sociali.

Il dibattito: un'attenzione che cresce. Il contrasto tra il radicarsi della povertà e l'assenza di azioni degne di nota per fronteggiarla non esaurisce le vicende del periodo in esame. I mesi scorsi hanno visto crescere nel dibattito politico l'attenzione verso la lotta all'indigenza, merito innanzitutto, del Movimento Cinque stelle, che ha fatto della lotta alla poverta? - attraverso il reddito di cittadinanza - una propria bandiera. Nel Parlamento, il gruppodei deputati di Sel, autorevoli esponenti della Lega Nord, così come del Partito Democratico e numerosi altri si sono espressi a favore di un intervento strutturale in materia. Per il governo, il Ministro del Welfare, Poletti, ha in più occasioni esplicitato la propria posizione favorevole alla introduzione di una misura nazionale.

Le attività dell'ultimo anno. Per quanto riguarda l'attività di proposta e pressione da parte dei soggetti sociali, l'ultimo anno ha visto l'Alleanza contro la povertà intensificare i propri sforzi in tale direzione. I mesi trascorsi, dunque, hanno visto maturare una serie di fattori che potrebbero facilitare l'introduzione di adeguate politiche contro la povertà nel nostro paese ma è impossibile avanzare ipotesi circa le evoluzioni del prossimo futuro. Decisivo sarà l'orientamento del Presidente del Consiglio.

I risultati raggiunti (e non) dal governo Renzi. Da quando è a Palazzo Chigi, Renzi non ha ancora assunto una posizione pubblica precisa sulla lotta alla povertà. Nel corso del 2015, però:

- Il Fondo Nazionale Politiche Sociali è passato da 317 a 300 milioni
- Il Fondo Non Autosufficienze da 300 a 400 milioni
- il Fondo Nidi negli ultimi anni era stato azzerato e per il 2015 ha ricevuto 100 milioni.

Il confronto col governo Berlusconi. Com'è noto, a partire dal 2009, il Governo Berlusconi ridusse i fondi statali, sino ad azzerarli nel 2012, poiché era contrario alla responsabilità pubblica nei confronti delle persone fragili. Nel 2013 è cominciata la parziale risalita fino agli attuali 700 milioni, ma intanto la debolezza del settore si è ulteriormente accentuata.

Un bilancio finale sul governo Renzi. Quale bilancio si può formulare sull'azione del governo Renzi, dal suo insediamento ad oggi? Il complessivo sforzo riformatore dell'attuale Esecutivo è più incisivo di quello di molti suoi predecessori. Tuttavia, nello specifico della lotta alla povertà il governo ha seguito una linea di sostanziale continuità con quelli che l'hanno preceduto: non ha, in altre parole, realizzato interventi significativi.

Quali sono le prospettive della lotta all'indigenza? Una diffusione del fenomeno ben superiore ai livelli pre-crisi costituira? un tratto di fondo del nostro Paese nei prossimi anni, rendendo ancor più necessario adottare in materia degli interventi strutturali. La crescita d'interesse da parte della politica, principalmente per merito del Movimento Cinque Stelle, i passi in avanti compiuti nel confronto tecnico sulle azioni da realizzare e il rafforzamento del ruolo di advocacy dei soggetti impegnati nel sociale, grazie all'Alleanza contro la povertà, pongono le condizioni perché venga introdotta una misura nazionale.

Che cosa vuol dire "costruire il welfare"? E' qui che risiede oggi la specificità delle politiche contro la povertà. Infatti, gran parte delle posizioni espresse nell'attuale dibattito sul welfare condividono il medesimo punto di partenza: il tema è come intervenire su politiche pubbliche già presenti. Contro la povertà, invece, vi sono significativi interventi a livello locale, mentre a livello nazionale un sistema di politiche pubbliche di welfare, degno di questo nome, non è mai nato. Pertanto, qui il punto non è difendere/ripensare/indietreggiare rispetto a qualcosa che  -  pur perfettibile  -  c'è già. Occorre invece decidere se si vuole o meno dar vita ad un sistema fondato su una misura rivolta a chiunque sia in povertà assoluta, un livello essenziale costituito da un mix tra diritti nazionali e risposte disegnate dalla rete dei servizi locali e dotato di finanziamenti adeguati.


rassegna stampa: la Repubblica 15 settembre 2015
 http://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2015/09/15/news/caritas-122912482/?ref=HREC1-4

lunedì 14 settembre 2015

Sei giovani su dieci pronti a emigrare

       C’è una nuova generazione di italiani con le valigie pronte. Che non sono più di cartone ma contengono tablet e grandi professionalità. I dati del Rapporto Giovani portano alla luce un esercito di migranti italiani. E non potenziali, dato che sono molti quelli che stanno valutando concretamente di partire entro il 2016. Il 61,1% dei giovani, secondo l’indagine promossa dall’Istituto Giuseppe Toniolo in collaborazione con l’Università Cattolica e con il sostegno di Fondazione Cariplo e di Intesa Sanpaolo, si dichiara pronto a emigrare all’estero. I dati, qui anticipati da Avvenire, saranno presentati oggi a Treviso nell’ambito del Festival della Statistica.


È la prima volta che la maggioranza assoluta (e per di più in misura abbondante) si dice disponibile a espatriare per lavoro. Complice anche la sfiducia nutrita verso la situazione del nostro paese, non percepita come transitoria ma come permanente. Il 48,2% dei mille giovani tra i 18 e i 32 anni intervistati nel luglio scorso, si dice poco fiducioso che tra 3 anni le opportunità per loro in questo Paese saranno migliori di oggi. E il 23,4% ha una completa sfiducia. Il 75,6% pensa che in Italia le opportunità siano molto o abbastanza più basse che negli altri paesi sviluppati.


Ma non è un flusso di disperati, come ci ha abituati la storia dell’emigrazione italiana (e dell’immigrazione attuale). Certo l’elemento della fuga è importante ma chi parte sono giovani intraprendenti, affamati di futuro, carichi di progetti. Grande è in loro la consapevolezza della mobilità internazionale. I nostri giovani sono cresciuti in un’ottica che supera i confini nazionali. Il 74,8% degli intervistati considera come una forte motivazione la possibilità di fare nuove esperienze e il confrontarsi con altre culture. Una percentuale del tutto identica a chi condivide totalmente l’affermazione che andare all’estero sia una opportunità.


Una quota che sale al 99% se si aggiunge anche chi condivide "abbastanza". Più basso chi pensa che sia una assoluta necessità andare all’estero: il 45,4%. Le mete più ambite? Australia al primo posto, poi Stati Uniti e Regno Unito, tre paesi di lingua inglese che coprono insieme il 54,8% delle preferenze. Segue da presso la Germania e poi a distanza Canada, Francia, Austria, Svizzera e Belgio.


Ma va osservato che sono soprattutto i giovani più preparati a esprimere il desiderio e la disponibilità a partire. Specialmente al Sud. Secondo i dati pubblicati ancora dal Rapporto Giovani all’inizio di agosto, il 73% di chi ha solo la scuola dell’obbligo è disposto a trasferirsi stabilmente (in Italia o all’estero) contro l’86% dei laureati. Un fatto che comporta il depauperamento delle forze migliori di un territorio in difficotà.


Eppure, se potessero, probabilmente resterebbero. Oltre il 90% degli intervistati, tanto al Nord quanto al Sud, è convinto di essere la risorsa più importante del Paese. Ma precarietà e bassa renumerazione sono gli aspetti indicati come più problematici. Il dato più allarmante è però costuito dai Neet, ossia i giovani che non studiano né lavorano. Se al Nord sono il 20%, in molte regioni del Mezzogiorno questa fascia arriva coprire il 35% dei giovani. Sono i più rassegnati: tra di loro la percentuale di chi pensa di andarsene è irrisoria. E così le risorse umane dei territori, per quantità e qualità, si erodono. E velocemente.

rassegna stampa: Avvenire 12 settembre 2015 Alessandro Beltrami

mercoledì 9 settembre 2015

Crisi: dal 2008 le famiglie italiane hanno perso 122 miliardi

    La crisi economica, dal 2007 a oggi, è costata 122 miliardi di euro alle famiglie italiane, tra 47 miliardi di minori risparmi e 75 miliardi di minori consumi. Lo certifica il rapporto Coop 2015. Il 2015, grazie al lieve rialzo del Pil, sembra però essere l'anno della svolta.
Na ripresa slow dopo 7 anni di crisi he hanno però lasciato cicatrici profonde nel tessuto sociale del nostro Paese, un'Italia bipolare e schizofrenica; sempre più lunga, il Sud sempre più sud (tra Trento e Calabria corrono più di 1000 euro di differenza nella spesa mensile), la forbice generazionale si è allargata (gli under 35 spendono 100 euro in meno al mese degli over 65) e il lavoro continua ad essere la grande discriminante e la grande chimera.

Metamorfosi anche per i connotati dell'italiano medio. Siamo i più palestrati e i più connessi d'Europa (12.000 palestre il record in Italia e più di 6 ore al giorno su Internet) se non atei certo più laici e indifferenti, i più evasori e tra i più altruisti (a fronte di una stima di 200 milioni di euro di evasione annua, sono 7 milioni gli italiani che prestano il proprio tempo gratuitamente in attività di volontariato). Mangiamo la stessa quantità di cibo degli anni Settanta (2,8 chilogrammi al giorno), ma si è profondamente modificata la dieta alimentare e più estesamente le tipologie di consumo. Impazziti per il bio da un lato (+ 20% all'anno), cresce anche il “cibo della rinuncia”: vegetariani (sono il 10%), vegani (il 2%). La parola d'ordine dei nuovi italiani è welness, star bene ma in senso meno edonistico del passato: siamo i più magri d'Europa e tra i più longevi, ci concediamo meno vizi di un tempo (meno alcool, meno fumo). A guardare i carrelli spicca la propensione per i consumi etnici + 18% nell'ultimo anno; l'internazionalizzazione del gusto -Expo o non Expo- ha fatto centro nel nostro Paese.

Intanto, sul lato delle vendite, quelle totali nei primi 7 mesi sono positive a valore (+0,7%) e piatte a volume (-0,1%). “Dal 1 trimestre - ha detto Marco Pedroni, presidente di Coop Italia - Coop ha puntato su riduzioni generali dei prezzi (6/7%) sulle grandi marche, con un calo complessivo dei prezzi dell'1,5%. Una deflazione che ha ridotto le vendite correnti dello 0,4% mentre i volumi aumentano: +1,1%. Così come cresce il private label: +2,2%”.
Al governo rappresentiamo - dichiara Stefano Bassi neo presidente Ancc-Coop - le esigenze dei consumatori e chiediamo alcune scelte fondamentali: in primo luogo azioni coerenti perché non scattino le azioni di salvaguardia e quindi non ci sia un aumento dell'Iva che penalizzerebbe oltremodo i consumi. In secondo luogo - aggiunge Bassi - anche seguendo la nostra ispirazione valoriale si proceda con la legge contro gli sprechi alimentari, infine azioni concrete, sotto il profilo fiscale e delle politiche per l'occupazione, per sostenere le famiglie e i consumi interni.

rassegna stampa: il sole 24 ore 3 settembre 2015 di Laura Cavestri
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-09-03/crisi-2008-famiglie-italiane-hanno-perso-122-miliardi-125736.shtml?uuid=AC1v0Gr

mercoledì 2 settembre 2015

Venezuela, la fame al comando. Il 70% della popolazione deve rinunciare agli alimenti di base

Olio, formaggio, pollo, sapone, zucchero, burro, carne sono ormai alimenti inseriti nella lista dei "rari". Crescono gli episodi di 'assalti' da parte della popolazione stremata ai magazzini della Guardia Nazionale, dove sono custodite le derrate alimentari sottratte a un contrabbando sempre più diffuso. Il 6 dicembre si vota per le presidenzali, la popolarità di Maduro è a picco e si teme per i possibili disordini


ROMA - File per il cibo, saccheggi di cibo, sequestri di cibo. In Venezuela comanda la fame, oltre alla carenza di farmaci, e mentre il presidente Maduro decide di combattere la sua lotta contro il contrabbando - a suo parere spalleggiato dalle opposizioni politiche - chiudendo la frontiera con la Colombia, deportandone mille cittadini e non riuscendo a trovare un accordo per la riapertura, tanto da arrivare al richiamo degli ambasciatori da parte di entrambi i Paesi, i venezuelani attaccano i soldati per avere il cibo sequestrato a chi lo vende al nero, come è successo vicino Maracaibo, caso di sicuro non unico.

In cima all’indice delle 15 economie più in miseria nel mondo, stilato da Bloomberg nel marzo 2015 sommando il tasso di disoccupazione con l'inflazione, il Venezuela secondo Nicolás Maduro avrebbe dovuto trovare la via della ripresa proprio in agosto. Così non è andata e le previsioni dell'agenzia finanziaria Usa, che stimava un 78,5% di tasso d'inflazione dell'indice dei prezzi al consumo negli stessi giorni in cui la carenza di carta igienica spingeva i vicini di Trinidad e Tobago a offrirla ai venezuelani in cambio di petrolio, sono confermate: la crisi prosegue, le file ai supermercati anche e fiorisce il mestiere di "bachaquero", contrabbandiere, dal nome locale delle formiche rosse che devastano i raccolti: le "bachaco", appunto. E se è vero che il prezzo del petrolio è crollato mettendo in crisi uno fra i principali produttori mondiali, è anche vero che molte delle misure governative non sono efficaci e il bolivar è crollato del 72% sul mercato non ufficiale da anni in vigore: ormai ci vogliono 616 bolivar per un dollaro e un salario minimo vale 12 dollari, mentre per un caffè ci vogliono 100 bolivar - e un paio di jeans vale quasi 800 dollari, un chilo di carote quasi 20, un frullatore più di 500.

Con queste premesse, non stupisce che in una recente indagine nazionale l'agenzia Consultores 21 abbia trovato un 30% di cittadini che mangia solo due volte se non una al giorno. A marzo erano il 20%. In più, il 70% risponde che ha proprio rinunciato ad almeno un alimento base come latte, riso, zucchero o simili perché non lo trova – o perché è troppo caro.

A La Sibucara, vicino Maracaibo, al confine con la Colombia, secondo i media ufficiali nei giorni di Ferragosto i "bachaqueros" hanno saccheggiato la sede della Guardia Nacional dopo aver subito un sequestro di 50 tonnellate di cibo nei loro magazzini. Secondo il Wall Street Journal, invece, sono stati i cittadini a svuotare, distruggere e incendiare la sede, furiosi con i soldati che si erano rifiutati di redistribuire il cibo sequestrato ai contrabbandieri. A La Sibucara, Maria Palma, 55 anni e svariati nipoti, esce da un alimentari a mani vuote, lamentandosi: "La gente che ci dava lavoro, le aziende private, i ricchi, non ci sono più". Quindi anche lei, spiega al giornale, per andare avanti rivende i cibi razionati che riesce a procurarsi: "Non è un grande affare", precisa, "ma non c’è lavoro e dobbiamo pur trovare il modo di mangiare, noi e i piccoli". È anche lei da contare fra i "bachaqueros"?

Di certo, sono molti quelli che aggirano i controlli sempre più rigidi istituiti da Maduro, per procurarsi lo stesso beni di prima necessità da rivendere al mercato nero. Oltre al tradizionale flusso di contrabbando con la Colombia – che esiste da anni ed è legato alle politiche calmieranti del Venezuela già in tempi pre-crisi, per cui un venezuelano guadagnava rivendendo ai colombiani i beni avuti ai prezzi "politici" voluti dal socialismo – ora c’è un "fronte interno", e molto agguerrito: se il governo impone che ogni cittadino può comprare farina e beni analoghi solo una volta a settimana, controllando le carte d’identità, il trucco sarà farsi sei, sette documenti diversi e una fila per ogni documento. Così i beni definiti "rari", cioè carenti all’80%, sono ormai una lunga lista che include olio, formaggio, pollo, sapone, zucchero, burro, carne bovina.

In questa precarietà, il 6 dicembre ci sono le elezioni parlamentari, che rischiano di peggiorare ancora la situazione. Il 6 dicembre è una data evocativa, probabilmente scelta apposta: in quel giorno del 1998 Hugo Chávez fu eletto con il 56% dei voti. Ma l'ultimo sondaggio dà il presidente Maduro a meno del 20% di preferenze. A conferma dei rischi di disordini sempre peggiori, l’Osservatorio dei conflitti sociali del Venezuela segnala che mentre l’anno scorso la gente faceva cortei di protesta politici, nei primi sei mesi del 2015 è già scesa in strada 500 volte per protestare esclusivamente contro la mancanza di cibo. I saccheggi ufficialmente contati sono 56, decine quelli tentati. E il responsabile dell’Osservatorio Marco Ponce chiude il quadro con un’immagine: "Se non sono fuori a protestare, i venezuelani sono fuori a fare una coda". Al supermercato, o in farmacia. E la carenza di medicine è tale che, come denuncia, anonima, una addetta alla chimica industriale al Le Journal International, "ormai la gente qui muore di cancro o di Aids molto in fretta". La chimica aggiunge che più che votare le interessa, come a molti, andarsene presto: Colombia, Panama, Argentina sono le mete, per chi può permetterselo.


rassegna stampa: la repubblica 29 agosto 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/08/29/news/venezuela_inflazione_crisi_disoccupazione_fame-121821423/ 


martedì 1 settembre 2015

Fed, stretta sui big bancari: Capitale più alto contro la crisi

Stefania Spani •• 
 Le nuove regole in vigore dal 2019 sono più severe di quelle di Basilea. 
Gli 8 colossi potrebbero dover incrementare le riserve di 200 miliardi. 

La Federal Reserve al lavoro sui requisiti di capitale delle grandi banche americane 

NEW YORK -  Con l'intento di evitare che una banca si ritrovi ad essere «troppo grande per fallire», la Federal Reserve ha adottato nuove regole in base alle quali gli otto principali istituti di credito americani potrebbero dovere incrementare le loro riserve di capitale per un valore totale di 200 miliardi di dollari. La mossa della banca centrale Usa-pensata per i gruppi così «importanti su scala globale» da mettere potenzialmente a repentaglio l'intero sistema finanziario - è stata annunciata alla vigilia del quinto anniversario del Dodd-Frank Act, la riforma finanziaria ratificata dal presidente americano Barack Obama il 21 luglio 2010 ossia quasi due anni dopo il collasso di Lehman Brothers. Come da attese, sette banche (Bank of America, Wells Fargo, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of New York Mellon, Citigroup e State Street) già rispettano i nuovi requisiti, proposti per la prima volta lo scorso dicembre e finalizzati ieri. Fa eccezione soltanto JP Morgan, che si trova a corto di 12,5 miliardi di dollari, una cifra comunque più bassa del buco da 21 miliardi stimato a fine 2014. 
Le nuove regole, che entreranno in vigore dal gennaio 2019, sono più severe di quelle stabilite a livello internazionale dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria e sono pensate per «ridurre i rischi posti da una GSIB (global systemi- cally important bank, ndr) alla stabilità finanziaria Usa», ha spiegato la banca centrale Usa. Gli addizionali "cuscinetti" di capitale richiesti aiuteranno a «garantire che una GSIB abbia capitali sufficienti per continuare le sue attività durante periodi di stress e a proteggere il sistema finanziario dai rischi legati al suo fallimento». Come aggiunto da Janet Yellen, «l'obiettivo chiave dell'aumento delle riserve di capitale è richiedere alle banche di farsi carico dei costi che il loro fallimento imporrebbe agli altri». Il governatore della Fed ha precisato che quelle banche «devono avere una quantità di capitale sostanzialmente più alta, ridurre la probabilità che falliscano o rimpicciolire le loro dimensioni minimizzando i danni che il loro fallimento causerebbe al nostro sistema finanziario». In pratica, le nuove regole portano le banche a due possibili scelte. La prima è finanziare le loro attività con meno fondi presi in prestito e aumentare i loro cuscinetti di capitale sotto forma di common equity, opzione che mette un freno ai ritorni. La seconda è ridurre la portata delle riserve addizionali riducendo le loro attività rischiose attraverso per esempio un ridimensionamento della dipendenza da fonti di finanziamento di breve termine, che come tali possono essere volatili. Se le norme non verranno rispettate, le banche rischiano di vedersi imporre limiti alla distribuzione di dividendi e di bonus. La dimensione del capitale addizionale richiesto varia da banca a banca e dipende da quanto è rischiosa in base a una formula creata dalla Fed e dai regolatori internazionali. Il valore di quel cuscinetto può salire o scendere a seconda dei cambiamenti nella dimensione e nella complessità di un gruppo. Quel cuscinetto è compreso tra l'1% e il 4,5% degli asset considerati rischiosi e va ad aggiungersi al requisito del 7% che le istituzioni finanziarie devono già rispettare. È JP Morgan a dovere subire il maggiore incremento, pari al 4,5% degli asset ritenuti rischiosi. Segue Citigroup con un « surcharge» (così lo chiamano in Usa) del 3,5%; per Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley è del 3%; WellsFargo del 2%; State Street delPi.5%; Bank of New York Mellon dell'1%. Resta ancora da capire se la Fed intende incorporare il nuovo requisito nei cosiddetti "stress test" annuali. Se così fosse le banche sarebbero costrette ad ampliare ancora di più le loro riserve di capitale contro potenziali perdite, una prospettiva che di certo non piace alle dirette interessate. Una decisione è attesa per fine anno. Sempre ieri la Fed ha deciso di dare a Ge Capital più tempo per adeguarsi alle regole più stringenti dell'istituto centrale. Di fatto scala al 2018 il momento il cui la divisione finanziaria di General Electric dovrà prepararsi agli stress test, avere più alti livelli patrimoniali e aggiungere membri indipendenti al suo cda. Sostanzialmente la Fed - che ha etichettato Ge Capital come una «istituzione finanziaria importante alivello sistemico» (SIFI) riconosce il processo in corso di disinvestimento del braccio finanziario di Ge, cosa che porterà la conglomerata a cercare di non essere più considerata una SIFI. 
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rassegna stampa: il Sole 24 Ore 21 luglio 2015