MILANO - Più di dodici ore
di lavoro nei campi per un salario di 25-30 euro al giorno, meno di 2
euro e 50 l'ora. È la situazione in cui lavorano in Italia 400 mila
lavoratori sfruttati dal caporalato, stranieri nell'80% dei casi. È
quanto emerge da uno studio di The European House-Ambrosetti su dati
Flai Cgil relativi al 2015, presentato al convegno di
Assosomm-Associazione italiana delle agenzie per il lavoro 'Attiviamo
lavoro. Le potenzialità del lavoro in somministrazione nel settore
dell'agricolturà. Gli oltre 80 distretti agricoli italiani in cui si
pratica il caporalato vedono in 33 casi condizioni di lavoro "indecenti"
e in 22 casi condizioni di lavoro "gravemente sfruttato" e sottraggono
alle casse dello Stato circa 600 milioni di euro ogni anno.
Alla paga di chi lavora sotto caporali, pari alla metà di quanto
stabilito dai contratti nazionali, inoltre, devono essere sottratti i
costi del trasporto, circa 5 euro, l'acquisto di acqua e cibo, l'affitto
degli alloggi ed eventualmente l'acquisto di medicinali. Infatti il 74%
lavoratori impiegati sotto i caporali è malato e presenta disturbi che
all'inizio della stagionalità non si erano manifestati. Le malattie
riscontrate sono per lo più curabili con una semplice terapia
antibiotica ma si cronicizzano in assenza di un medico a cui rivolgersi e
di soldi per l'acquisto delle medicine.
Ad aggravare la situazione contribuisce poi il sovraccarico di lavoro,
l'esposizione alle intemperie, l'assenza di accesso all'acqua corrente,
che riguarda il 64% dei lavoratori, e ai servizi igienici, che riguarda
il 62%. Solo nell'estate 2015 lo studio stima che le vittime del
caporalato sono state almeno 10.
I crudi dati hanno richiamato l'attenzione del ministro delle Politiche
agricole, Maurizio Martina, presente al convegno Assosomm: "Questi
numeri non vanno sottovalutati perché dietro ci sono storie di vita e di
sfruttamento intollerabili. Serve alzare le misure di contrasto per
sconfiggere questa piaga. Il governo è in campo da mesi con scelte
concrete e strumenti già operativi come la Rete del lavoro agricolo di
qualità. Il disegno di legge contro il caporalato in agricoltura, che
abbiamo presentato e che è all'esame del Senato, va in questa direzione.
Prevediamo indennizzi per le vittime, un piano di interventi per
l'accoglienza dei lavoratori agricoli stagionali, l'inasprimento degli
strumenti penali con arresti e confisca dei beni. Allo stesso tempo è
necessario lavorare
a livello territoriale con un'attenzione particolare al sistema di
trasporto dei lavoratori agricoli. Andiamo avanti tenendo conto che, per
combattere questo fenomeno, serve un gioco di squadra tra Istituzioni,
sindacati e associazioni d'impresa. Tutti devono fare la loro parte".
rassegna stampa:la repubblica, 23 febbraio 2016
https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=353240452088341648#editor/src=sidebar
@GORA' :
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UN LABORATORIO DI PENSIERO E RIFLESSIONE FATTO DAI LAVORATORI:
il diario della crisi
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martedì 23 febbraio 2016
giovedì 11 febbraio 2016
Peggiora il Misery Index di Confcommercio, cresce il disagio sociale
Confcommercio traccia gli effetti dell'aumento della disoccupazione, mentre l'inflazione è rimasta stagnante. Segnali dell'incapacità della ripresa economica italiana di rafforzarsi
MILANO
- La ripresa economica non si rafforza e la stentata ripartenza
italiana si ripercuote anche sulla vita quotidiana dei cittadini. Ne è
testimonianza la risalita del Misery Index di Confcommercio, relativo al
mese di dicembre: l'indicatore sale a 19,2 punti, in aumento di due
decimi di punto. Si tratta dell'indice del "disagio sociale", che
contempera la situazione relativa alla disoccupazione e quella
dell'inflazione nel tracciare un quadro sullo stato di salute
dell'Italia. A differenza dell'indice tradizionale, nel quale entrambe
le voci hanno peso uguale, nel caso di Confcommercio l'inflazione vale
un po' meno nel conteggio complessivo.
La risalita del disagio di dicembre, spiega l'associazione, si inserisce
in un contesto in cui la ripresa dell'economia stenta ad assumere ritmi
di sviluppo sostenuti. Le dinamiche registrate negli ultimi mesi
dall'indice e dalle sue componenti indicano, dopo il calo rilevato nei
mesi estivi, una stabilizzazione, in linea con un andamento del mercato
del lavoro che, seppure in miglioramento nell'arco del 2015, non è stato
in grado di garantire un significativo e continuo aumento dei livelli
occupazionali e un ridimensionamento della disoccupazione estesa,
soprattutto di quella parte riconducibile agli scoraggiati.
A dicembre, ricorda Confcommercio, "il tasso di disoccupazione ufficiale
si è attestato all'11,4%, valore analogo a quello rilevato a novembre,
in riduzione di un punto percentuale su base annua. Il numero di
disoccupati è aumentato di 18mila unità sul mese precedente e si è
ridotto di 254mila unità rispetto a dicembre del 2014. Il numero di
occupati è diminuito di 21mila unità rispetto al mese precedente e
aumentato di 109mila nei confronti dello stesso mese del 2014". I dati
positivi visti sul fronte della Cassa integrazione (-52,3% sul 2014
delle ore autorizzate), possono esser stati influenzati, come nel mese
precedente, dal "blocco autorizzativo sostanzialmente disposto dall'Inps
e finalizzato all'allineamento delle procedure alle disposizioni
normative" sugli ammortizzatori sociali. "Sulla base di questa stima si è
calcolato che le ore di Cig utilizzate siano diminuite di 8mila unità
su base mensile e di 79mila unità su base annua. Anche a dicembre il
numero di scoraggiti è stimato in contenuto aumento. Il combinarsi
dell'aumento dei disoccupati ufficiali e degli scoraggiati con una
diminuzione del numero di persone in CIG ha comportato un modesto
incremento del tasso di disoccupazione esteso salito al 15,2%".
Poche variazioni, invece, sul fronte dei prezzi dei beni e dei servizi
ad alta frequenza d'acquisto sono rimasti invariati (-0,1% a novembre ed
ottobre).
rassegna stampa: la repubblica 9 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/rapporti/osserva-italia/mercati/2016/02/09/news/peggiora_il_misery_index_di_confcommercio_cresce_il_disagio_sociale-133025916/
Anche Deutsche Bank nel ciclone dei mercati
Il primo istituto tedesco deve smentire ufficialmente i dubbi circa la
sua crisi di liquidità, che renderebbe impossibile il pagamento di
alcune cedole su titoli subordinati. Il titolo ha perso il 55% in sei
mesi
MILANO - Anche la prima banca di Germania vive giornate di tensione in questa fase delicatissima per i mercati, a testimonianza di quanto sia tempestoso il mare nel quale navigano gli investitori. Continuano le vendite su Deutsche Bank, all'indomani del tonfo che ha portato il titolo ai minimi di sempre a causa dei timori sulla capacità dell'istituto di rimborsare le cedole di un bond subordinato. Oggi l'azione ha provato a reagire, ma come il resto dei mercati ha poi virato di nuovo al ribasso.
E' durato poco il beneficio derivante dall'intervento ufficiale sul mercato da parte della banca tedesca: una nota in cui spiegava di avere la liquidità sufficiente per i rimborsi. "Nel 2016 la nostra capacità di pagamento è prevista a circa 1 miliardo di euro, sufficiente per coprire il coupon AT1 che al 30 aprile sarà circa di 350 milioni di euro", ha scritto Deutsche Bank nella nota, aggiungendo: "Nel 2017 la capacità di pagamento stimata è di 4,3 miliardi prima dell'impatto del risultato operativo, grazie al completamento della cessione del 19,99% di Hua Xia Bank of China e di ulteriori riserve pari a circa 1,9 miliardi a disposizione per compensare le perdite future".
I titoli del gruppo sono crollati dopo le dichiarazioni degli analisti di Creditsights, secondo cui il colosso tedesco potrebbe far fatica a pagare i coupon sui co-co bonds qualora i risultati operativi dovessero essere peggiori del previsto o i costi di litigation superiori alle attese. Su questi timori, i cds sul debito del gruppo - assicurazioni contro il suo fallimento - sono saliti ieri a 236 punti, un livello non raggiunto nemmeno nemmeno nei momenti più bui della crisi finanziaria del 2008. La corsa è poi proseguita anche oggi, come mostra il grafico.
A poco, quindi, sono servite le parole del co-amministratore delegato John Cryan che ha detto: "Ai clienti potete comunicare che Deutsche Bank resta assolutamente e fondamentalmente solida, data la sua forte posizione di capitale e sul rischio".
rassegna stampa: la repubblica, 9 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/09/news/anche_deutsche_bank_nel_ciclone_dei_mercati-133049112/
MILANO - Anche la prima banca di Germania vive giornate di tensione in questa fase delicatissima per i mercati, a testimonianza di quanto sia tempestoso il mare nel quale navigano gli investitori. Continuano le vendite su Deutsche Bank, all'indomani del tonfo che ha portato il titolo ai minimi di sempre a causa dei timori sulla capacità dell'istituto di rimborsare le cedole di un bond subordinato. Oggi l'azione ha provato a reagire, ma come il resto dei mercati ha poi virato di nuovo al ribasso.
E' durato poco il beneficio derivante dall'intervento ufficiale sul mercato da parte della banca tedesca: una nota in cui spiegava di avere la liquidità sufficiente per i rimborsi. "Nel 2016 la nostra capacità di pagamento è prevista a circa 1 miliardo di euro, sufficiente per coprire il coupon AT1 che al 30 aprile sarà circa di 350 milioni di euro", ha scritto Deutsche Bank nella nota, aggiungendo: "Nel 2017 la capacità di pagamento stimata è di 4,3 miliardi prima dell'impatto del risultato operativo, grazie al completamento della cessione del 19,99% di Hua Xia Bank of China e di ulteriori riserve pari a circa 1,9 miliardi a disposizione per compensare le perdite future".
I titoli del gruppo sono crollati dopo le dichiarazioni degli analisti di Creditsights, secondo cui il colosso tedesco potrebbe far fatica a pagare i coupon sui co-co bonds qualora i risultati operativi dovessero essere peggiori del previsto o i costi di litigation superiori alle attese. Su questi timori, i cds sul debito del gruppo - assicurazioni contro il suo fallimento - sono saliti ieri a 236 punti, un livello non raggiunto nemmeno nemmeno nei momenti più bui della crisi finanziaria del 2008. La corsa è poi proseguita anche oggi, come mostra il grafico.
L'impennata dei cds di Deutsche Bank. I
credit default swap sono dei derivati sul rischio di credito:
assicurazioni che offrono la possibilità di coprirsi dall'eventuale
insolvenza di un debitore contro il pagamento di un premio periodico.
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A poco, quindi, sono servite le parole del co-amministratore delegato John Cryan che ha detto: "Ai clienti potete comunicare che Deutsche Bank resta assolutamente e fondamentalmente solida, data la sua forte posizione di capitale e sul rischio".
rassegna stampa: la repubblica, 9 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/09/news/anche_deutsche_bank_nel_ciclone_dei_mercati-133049112/
mercoledì 10 febbraio 2016
Credit Suisse, l'amministratore delegato si riduce lo stipendio
Il franco-ivoriano Tidjane
Thiam ha annunciato di voler rinunciare a una parte del suo bonus. Il
suo compenso netto ammonta oggi a circa 9 milioni di euro
di FRANCO ZANTONELLI
LUGANO - L'azienda ha qualche problema e, allora, l'amministratore delegato si autoriduce il bonus. È quello che ha annunciato, in un'intervista al settimanale SonntagsZeitung di Zurigo, Tidjane Thiam, amministratore delegato di Credit Suisse, seconda banca svizzera per importanza. "Non posso esigere sacrifici dai miei collaboratori e io non farne alcuno", ha dichiarato il manager franco-ivoriano. In effetti, nel 2015, Credit Suisse è stato costretto a pianificare un taglio di 4mila dipendenti, chiudendo inoltre l'esercizio con una perdita di 2,4 miliardi di franchi, oltre 2 miliardi e 150 milioni di euro. Da non dimenticare, poi, la multa di 2,5 miliardi di dollari, inflitta a Credit Suisse nel maggio del 2014 dalla giustizia statunitense che ha riconosciuto la grande banca svizzera colpevole di complicità in evasione fiscale. L'istituto guidato da Tidjame Thiam, stando agli analisti, non avrebbe ancora oggi le gambe saldissime a causa di prestiti per 16 miliardi di dollari, concessi ad aziende ritenute economicamente fragili. La mossa del numero uno di ridursi il bonus, peraltro non si sa di quanto, perché al riguardo il top manager ha preferito glissare, è comunque un segnale di inversione di tendenza, quanto alla disponibilità dei grandi dirigenti di azienda di adeguare le loro retribuzioni ai successi e agli insuccessi dei gruppi da loro diretti.
"Direi che, visto che Thiam è lì da poco più di un anno, non avendo quindi responsabilità sui cattivi risultati della banca, il suo annuncio può essere interpretato come un gesto di trasparenza", è l'opinione espressa a Repubblica.it dal professor Giovanni Barone Adesi, docente di Finanza all'Università della Svizzera Italiana di Lugano. "In sostanza il ceo di Credit Suisse lancia questo messaggio: giudicatemi su ciò che farò. Non voglio, invece, premi su quello che non ho ancora dimostrato di meritare". Quanto all'entità del taglio del bonus di Tidjame Thiam, vista la sua ritrosia a snocciolare cifre, i giornali elvetici si sbizzariscono ricordando che, complessivamente, per l'insieme del personale, c'è stata una riduzione dell'11 per cento. Il top manager franco-ivoriano non sarà, comunque, ridotto a una vita di ristrettezze, visto che il suo stipendio annuo, bonus a parte, supera abbondantemente i 9 milioni di euro. Da non dimenticare, infine, che di recente é stato costretto a respingere le accuse di spese eccessive in hotel di lusso e in voli in prima classe, oltre a quella di privilegiare gli spostamenti in elicottero.
rassegna stampa, la repubblica. 8 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/08/news/credit_suisse_l_amministratore_delegato_si_riduce_lo_stipendio-132962283/
di FRANCO ZANTONELLI
LUGANO - L'azienda ha qualche problema e, allora, l'amministratore delegato si autoriduce il bonus. È quello che ha annunciato, in un'intervista al settimanale SonntagsZeitung di Zurigo, Tidjane Thiam, amministratore delegato di Credit Suisse, seconda banca svizzera per importanza. "Non posso esigere sacrifici dai miei collaboratori e io non farne alcuno", ha dichiarato il manager franco-ivoriano. In effetti, nel 2015, Credit Suisse è stato costretto a pianificare un taglio di 4mila dipendenti, chiudendo inoltre l'esercizio con una perdita di 2,4 miliardi di franchi, oltre 2 miliardi e 150 milioni di euro. Da non dimenticare, poi, la multa di 2,5 miliardi di dollari, inflitta a Credit Suisse nel maggio del 2014 dalla giustizia statunitense che ha riconosciuto la grande banca svizzera colpevole di complicità in evasione fiscale. L'istituto guidato da Tidjame Thiam, stando agli analisti, non avrebbe ancora oggi le gambe saldissime a causa di prestiti per 16 miliardi di dollari, concessi ad aziende ritenute economicamente fragili. La mossa del numero uno di ridursi il bonus, peraltro non si sa di quanto, perché al riguardo il top manager ha preferito glissare, è comunque un segnale di inversione di tendenza, quanto alla disponibilità dei grandi dirigenti di azienda di adeguare le loro retribuzioni ai successi e agli insuccessi dei gruppi da loro diretti.
"Direi che, visto che Thiam è lì da poco più di un anno, non avendo quindi responsabilità sui cattivi risultati della banca, il suo annuncio può essere interpretato come un gesto di trasparenza", è l'opinione espressa a Repubblica.it dal professor Giovanni Barone Adesi, docente di Finanza all'Università della Svizzera Italiana di Lugano. "In sostanza il ceo di Credit Suisse lancia questo messaggio: giudicatemi su ciò che farò. Non voglio, invece, premi su quello che non ho ancora dimostrato di meritare". Quanto all'entità del taglio del bonus di Tidjame Thiam, vista la sua ritrosia a snocciolare cifre, i giornali elvetici si sbizzariscono ricordando che, complessivamente, per l'insieme del personale, c'è stata una riduzione dell'11 per cento. Il top manager franco-ivoriano non sarà, comunque, ridotto a una vita di ristrettezze, visto che il suo stipendio annuo, bonus a parte, supera abbondantemente i 9 milioni di euro. Da non dimenticare, infine, che di recente é stato costretto a respingere le accuse di spese eccessive in hotel di lusso e in voli in prima classe, oltre a quella di privilegiare gli spostamenti in elicottero.
rassegna stampa, la repubblica. 8 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/08/news/credit_suisse_l_amministratore_delegato_si_riduce_lo_stipendio-132962283/
I vertici Mps devolvono parte dello stipendio ai dipendenti
Il presidente Tononi offre i 500mila euro della retribuzione al fondo
Mpsolidale, per pagare 6mila giornate di permessi straordinari. L'ad
Viola dona 250mila euro
di Andrea Greco
MILANO - I vertici di Mps compiono un gesto di attenzione nei confronti dei dipendenti della banca. Subito dopo l'intesa sull'integrativo interno, il presidente Massimo Tononi ha deciso di devolvere tutti i 500mila euro della sua retribuzione annuale al fondo Mpsolidale, uno strumento grazie al quale i dipendenti potranno fruire di permessi retribuiti straordinari per le loro esigenze. L'amministratore delegato Fabrizio Viola, invece, lascerà 250mila euro del suo complessivo compenso al fondo (nel 2014 Viola ha percepito dall'istituto 1,3 milioni di euro). Grazie al beau geste dei due banchieri il fondo interno potrà creare un monte di 6mila giornate lavorative a disposizione dei circa 25mila dipendenti.
"La decisione è un atto di responsabilità, soprattutto in una fase così difficile della banca, in cui i dipendenti hanno dato, ancora una volta, un contributo concreto al sostegno dell'azienda - ha detto Giulio Romani, segretario generale di First Cisl - Gli accordi aziendali siglati hanno sempre evidenziato un sistema di relazioni industriali che ha saputo valorizzare il senso di appartenenza dei lavoratori alla banca, puntando anche su strumenti di mutualità interna tra i più avanzati del settore. Nessuna prospettiva sarebbe garantita all'azienda se non potesse contare su uno straordinario attaccamento dei propri dipendenti. Ci auguriamo che questo sia un esempio per tutti i top manager delle banche, sul quale costruire un modello retributivo responsabile".
Già il predecessore di Tononi, Alessandro Profumo, che si era insediato nel 2012 a Siena, aveva deciso di lasciare alla banca la gran parte delle sue retribuzioni nel triennio. Profumo aveva intascato 38 milioni di euro di buonuscita dopo un decennio alla guida operativa di Unicredit.
Anche se Mps ha tagliato di molto i costi operativi (circa di un quarto nella gestione di Viola) ha cercato di tenere desta l'attenzione per i lavoratori della banca, messi alla prova da anni di profonda crisi interna. Due settimane fa è stato siglato il nuovo accordo integrativo. "L'accordo rappresenta un importante traguardo per l'azienda e per i dipendenti poiché rinnova la contrattazione di secondo livello, arricchendola con importanti misure che rafforzano l'equità sociale in un'ottica redistributiva e solidale - ha detto Ilaria Dalla Riva, responsabile direzione risorse umane della banca -. L'accordo, inoltre, disciplina l'assetto della retribuzione variabile con l'introduzione del nuovo premio variabile di risultato, legato al raggiungimento degli obiettivi di rafforzamento di piano industriale in termini patrimoniali, di liquidità e di redditività e articolato su più quote per premiare i risultati e valorizzare le performance distintive, con un'attenzione a modalità di erogazione tipiche del welfare".
rassegna stampa: la Repubblica, 8 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/2016/02/08/news/i_vertici_mps_devolvono_parte_dello_stipendio_ai_dipendenti-132973180/
di Andrea Greco
MILANO - I vertici di Mps compiono un gesto di attenzione nei confronti dei dipendenti della banca. Subito dopo l'intesa sull'integrativo interno, il presidente Massimo Tononi ha deciso di devolvere tutti i 500mila euro della sua retribuzione annuale al fondo Mpsolidale, uno strumento grazie al quale i dipendenti potranno fruire di permessi retribuiti straordinari per le loro esigenze. L'amministratore delegato Fabrizio Viola, invece, lascerà 250mila euro del suo complessivo compenso al fondo (nel 2014 Viola ha percepito dall'istituto 1,3 milioni di euro). Grazie al beau geste dei due banchieri il fondo interno potrà creare un monte di 6mila giornate lavorative a disposizione dei circa 25mila dipendenti.
"La decisione è un atto di responsabilità, soprattutto in una fase così difficile della banca, in cui i dipendenti hanno dato, ancora una volta, un contributo concreto al sostegno dell'azienda - ha detto Giulio Romani, segretario generale di First Cisl - Gli accordi aziendali siglati hanno sempre evidenziato un sistema di relazioni industriali che ha saputo valorizzare il senso di appartenenza dei lavoratori alla banca, puntando anche su strumenti di mutualità interna tra i più avanzati del settore. Nessuna prospettiva sarebbe garantita all'azienda se non potesse contare su uno straordinario attaccamento dei propri dipendenti. Ci auguriamo che questo sia un esempio per tutti i top manager delle banche, sul quale costruire un modello retributivo responsabile".
Già il predecessore di Tononi, Alessandro Profumo, che si era insediato nel 2012 a Siena, aveva deciso di lasciare alla banca la gran parte delle sue retribuzioni nel triennio. Profumo aveva intascato 38 milioni di euro di buonuscita dopo un decennio alla guida operativa di Unicredit.
Anche se Mps ha tagliato di molto i costi operativi (circa di un quarto nella gestione di Viola) ha cercato di tenere desta l'attenzione per i lavoratori della banca, messi alla prova da anni di profonda crisi interna. Due settimane fa è stato siglato il nuovo accordo integrativo. "L'accordo rappresenta un importante traguardo per l'azienda e per i dipendenti poiché rinnova la contrattazione di secondo livello, arricchendola con importanti misure che rafforzano l'equità sociale in un'ottica redistributiva e solidale - ha detto Ilaria Dalla Riva, responsabile direzione risorse umane della banca -. L'accordo, inoltre, disciplina l'assetto della retribuzione variabile con l'introduzione del nuovo premio variabile di risultato, legato al raggiungimento degli obiettivi di rafforzamento di piano industriale in termini patrimoniali, di liquidità e di redditività e articolato su più quote per premiare i risultati e valorizzare le performance distintive, con un'attenzione a modalità di erogazione tipiche del welfare".
rassegna stampa: la Repubblica, 8 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/2016/02/08/news/i_vertici_mps_devolvono_parte_dello_stipendio_ai_dipendenti-132973180/
lunedì 8 febbraio 2016
da Eticanews: Mps cerca rating creditizio targato Csr
Incarico all'università di Siena per calcolare anche rischi ESG
Lo ha annunciato un manager della banca, in occasione di un convegno sul tema del merito di credito e Csr organizzato da Ediva. Il cui presidente Vernocchi chiede di inserire nei rating anche elementi aggiuntivi che premino le politiche di responsabilità aziendale.
Banca Mps ha affidato un incarico all’Università di Siena per definire i rischi di controparte che tengano conto anche degli elementi propri della Csr al fine di integrare gli attuali rating. Ad annunciare l’iniziativa è stato il responsabile Servizio Rating della banca senese, riconoscendo che gli attuali rating hanno limiti, e che sia necessario adeguarli e renderli più realistici. Il manager ha parlato in occasione della tavola rotonda “Rating di merito creditizio e Csr: idee e proposte per un accesso al credito solidale ed affidabile”, organizzata il 29 gennaio a Firenze da Ediva (Etica dignità e valori).
La tavola rotonda si è aperta con l’interrogativo posto dal presidente di Ediva Gianni Vernocchi: è possibile che, per poter concedere il credito, le banche utilizzino esclusivamente come valutazione del merito creditizio, con i suoi relativi rating discriminanti, solo gli aspetti economici e finanziari? Poiché questi ultimi non hanno funzionato, il suggerimento è quello di «inserire elementi aggiuntivi di valutazione quali l’incremento dell’occupazione, la tutela ambientale, il pagare le tasse, il porre l’attenzione concreta ai vari stakeholders e premiare quelle aziende che perseguono politiche virtuose di responsabilità sociale d’impresa».
Al convegno, Federica Ielasi, del Dipartimento di Scienze per l’economia e l’impresa dell’Università di Firenze, ha sostenuto che è possibile costruire rating di merito creditizio che premino l’impresa ad alto impatto sociale e valoriale, basta che si possa tenere conto degli elementi che non siano unicamente dati economici e finanziari. Ielasi, a sostegno della tesi, ha sottolineato come esista un vantaggio competitivo reale quando c’è correlazione tra risultati finanziari e fattori Esg (environmental, social, governance), facendo riferimento a uno studio di Harvard School. La ricerca ha comparato, su un periodo di 18 anni, 90 aziende ad alta attenzione sociale e 90 aziende a bassa attenzione sociale, e ha rilevato come le 90 aziende ad alta attenzione sociale abbiano riscontrato un vantaggio competitivo rispetto alle altre.
Giuseppina De Lorenzo, dell’Assessorato Attività produttive, credito e lavoro della Regione Toscana, è intervenuta ricordando l’impegno regionale a sviluppare e sostenere azioni di microcredito, facilitando piani di rientro e finanziando anche la liquidità. Ha evidenziato che il basso livello attuale di sofferenze registrato sta a dimostrare come l’accesso al credito debba risentire di azioni correlate con la responsabilità sociale d’impresa.
da Eticanews 8 febbraio 2016
http://www.eticanews.it/csr/mps-cerca-rating-creditizio-targato-csr/
Lo ha annunciato un manager della banca, in occasione di un convegno sul tema del merito di credito e Csr organizzato da Ediva. Il cui presidente Vernocchi chiede di inserire nei rating anche elementi aggiuntivi che premino le politiche di responsabilità aziendale.
Banca Mps ha affidato un incarico all’Università di Siena per definire i rischi di controparte che tengano conto anche degli elementi propri della Csr al fine di integrare gli attuali rating. Ad annunciare l’iniziativa è stato il responsabile Servizio Rating della banca senese, riconoscendo che gli attuali rating hanno limiti, e che sia necessario adeguarli e renderli più realistici. Il manager ha parlato in occasione della tavola rotonda “Rating di merito creditizio e Csr: idee e proposte per un accesso al credito solidale ed affidabile”, organizzata il 29 gennaio a Firenze da Ediva (Etica dignità e valori).
La tavola rotonda si è aperta con l’interrogativo posto dal presidente di Ediva Gianni Vernocchi: è possibile che, per poter concedere il credito, le banche utilizzino esclusivamente come valutazione del merito creditizio, con i suoi relativi rating discriminanti, solo gli aspetti economici e finanziari? Poiché questi ultimi non hanno funzionato, il suggerimento è quello di «inserire elementi aggiuntivi di valutazione quali l’incremento dell’occupazione, la tutela ambientale, il pagare le tasse, il porre l’attenzione concreta ai vari stakeholders e premiare quelle aziende che perseguono politiche virtuose di responsabilità sociale d’impresa».
Al convegno, Federica Ielasi, del Dipartimento di Scienze per l’economia e l’impresa dell’Università di Firenze, ha sostenuto che è possibile costruire rating di merito creditizio che premino l’impresa ad alto impatto sociale e valoriale, basta che si possa tenere conto degli elementi che non siano unicamente dati economici e finanziari. Ielasi, a sostegno della tesi, ha sottolineato come esista un vantaggio competitivo reale quando c’è correlazione tra risultati finanziari e fattori Esg (environmental, social, governance), facendo riferimento a uno studio di Harvard School. La ricerca ha comparato, su un periodo di 18 anni, 90 aziende ad alta attenzione sociale e 90 aziende a bassa attenzione sociale, e ha rilevato come le 90 aziende ad alta attenzione sociale abbiano riscontrato un vantaggio competitivo rispetto alle altre.
Giuseppina De Lorenzo, dell’Assessorato Attività produttive, credito e lavoro della Regione Toscana, è intervenuta ricordando l’impegno regionale a sviluppare e sostenere azioni di microcredito, facilitando piani di rientro e finanziando anche la liquidità. Ha evidenziato che il basso livello attuale di sofferenze registrato sta a dimostrare come l’accesso al credito debba risentire di azioni correlate con la responsabilità sociale d’impresa.
da Eticanews 8 febbraio 2016
http://www.eticanews.it/csr/mps-cerca-rating-creditizio-targato-csr/
domenica 7 febbraio 2016
Belpietro: "Ecco chi sta con la Merkel". I politici che votano contro i risparmiatori
Matteo Renzi si è fatto spesso vanto
del fatto che il Pd sia il partito più votato d' Europa. Come è noto,
alle elezioni del 2014 a nessun altro - nemmeno alla Cdu di Angela
Merkel - è riuscito il colpo di conquistare il 40 per cento dei voti e
dunque di spedire una nutrita pattuglia di onorevoli a Bruxelles. Ma
stanti così i fatti, sarà bene che il presidente del Consiglio informi i
suoi eurodeputati che non sono stati mandati in Europa per turismo, ma
per occuparsi degli interessi di questo Paese.
E per evitare che altri varino norme capestro nei confronti dell' Italia. Purtroppo abbiamo già visto che cos' è accaduto con il bail in, ovvero con la direttiva in cui si scaricano sui clienti i crac bancari. Varata dalla Commissione, la direttiva è stata votata senza batter ciglio da tutta una serie di parlamentari, con il risultato che al fondo salva banche italiano è stato impedito il salvataggio di quattro istituti di credito sull' orlo del fallimento (Etruria, Marche, Ferrara e Chieti) e i risparmiatori hanno visto andare in fumo i loro investimenti in azioni e obbligazioni subordinate. Ora la storia rischia di ripetersi, e anche in peggio.
In pratica a Bruxelles è stata votata una mozione che, dietro alle parole fumose, vuol dire una sola cosa: se una banca ha in portafoglio un certo numero di titoli di Stato non può essere considerata esente da rischi. Tradotto, significa che quei soldi non sono da considerare patrimonio, ma debito e, per mettersi in regola con le norme internazionali, gli istituti di credito devono accantonare denaro per far fronte al rischio di eventuali perdite. Se si vuole essere ancora più chiari, basta leggere ciò che una commissione di saggi ha preparato a Bruxelles. Si tratta di un piano in cui, in sostanza, si sostiene che i titoli di uno Stato - siccome quest' ultimo rischia di fallire come una qualunque società e di non pagare Bot, Cct e così via - non sono a rischio zero.
Dunque, se l' Italia non garantisce un bel niente, per dare garanzia di essere solidi gli istituti di credito devono mettere da parte un capitale pari a circa il 70 per cento del portafoglio investito in titoli di Stato.
Se il presidente della Bce Mario Draghi per riportare alla normalità le quotazioni del sistema bancario nelle scorse settimane ha usato il cannone, l' Europa a trazione tedesca si appresta quindi a sganciare una bomba atomica, che rischia però di sterminare il nostro sistema bancario e non solo. È risaputo infatti che gli istituti di credito sono acquirenti abituali dei titoli di Stato italiani e una recente indagine stima che abbiano in carico almeno 400 miliardi, ossia una cifra molto vicina al 20 per cento del totale del nostro debito pubblico.
Avete idea di quanti soldi servirebbero, in aumenti di capitale, per mettere da parte il 70 per cento del denaro investito in Bot e Btp? Duecentottanta miliardi, cioè circa il 13 per cento del nostro debito pubblico. Per le banche sarebbe una sventola da capogiro, ma anche per lo Stato, che vedrebbe salire lo spread come un palloncino pieno di elio, e pure per i risparmiatori.
Dietro alla mozione dell' Europarlamento votata anche dai deputati italiani e dietro lo studio dei saggi, ci sarebbe secondo il Corriere della Sera lo zampino di Wolfgang Schaeuble, ossia del ministro delle Finanze tedesco, il falco della Germania, colui che avrebbe voluto mandare al fallimento la Grecia e che non ha mollato un attimo la presa su Alexis Tsipras fino a che questi non ha alzato bandiera bianca. L' operazione in pratica vorrebbe dire che, se si riconosce la possibilità che uno Stato fallisca, le banche non possono detenere titoli ad alto rischio. Non solo: così facendo si estende il criterio del bail in dalle banche agli Stati, prevedendo che siano i risparmiatori e gli investitori a pagare il debito, con effetti devastanti sugli istituti di credito e sulla clientela. L' Italia è nel mirino: dato che non vuole decidersi a ridurre il debito pubblico con misure draconiane (tipo una patrimoniale e una robusta spending review) la si mette con le spalle al muro con la minaccia di tagliare il legame tra banche e debito pubblico.
Insomma, mentre Matteo Renzi litiga con l' Europa chiedendo maggiore flessibilità, Schaeuble e le sturmtruppen si preparano a regalarci maggior rigore. E i nostri europarlamentari che fanno? Dormono. Anzi no, peggio, votano una mozione in cui si vincola la Ue a separare Stati e banche, costringendo queste ultime a ridurre l' esposizione nei confronti del debito sovrano, ossia dell' Italia.
Perfetto. Dei geni. Anzi: dei nemici in casa.
Maurizio Belpietro
rassegna stampa: Libero Quotidiano - 7 febbraio 2016 -
http://www.liberoquotidiano.it/news/opinioni/11875923/maurizio-belpietro-voto-politici-contro-risparmiatore-crac-banche.html
E per evitare che altri varino norme capestro nei confronti dell' Italia. Purtroppo abbiamo già visto che cos' è accaduto con il bail in, ovvero con la direttiva in cui si scaricano sui clienti i crac bancari. Varata dalla Commissione, la direttiva è stata votata senza batter ciglio da tutta una serie di parlamentari, con il risultato che al fondo salva banche italiano è stato impedito il salvataggio di quattro istituti di credito sull' orlo del fallimento (Etruria, Marche, Ferrara e Chieti) e i risparmiatori hanno visto andare in fumo i loro investimenti in azioni e obbligazioni subordinate. Ora la storia rischia di ripetersi, e anche in peggio.
In pratica a Bruxelles è stata votata una mozione che, dietro alle parole fumose, vuol dire una sola cosa: se una banca ha in portafoglio un certo numero di titoli di Stato non può essere considerata esente da rischi. Tradotto, significa che quei soldi non sono da considerare patrimonio, ma debito e, per mettersi in regola con le norme internazionali, gli istituti di credito devono accantonare denaro per far fronte al rischio di eventuali perdite. Se si vuole essere ancora più chiari, basta leggere ciò che una commissione di saggi ha preparato a Bruxelles. Si tratta di un piano in cui, in sostanza, si sostiene che i titoli di uno Stato - siccome quest' ultimo rischia di fallire come una qualunque società e di non pagare Bot, Cct e così via - non sono a rischio zero.
Dunque, se l' Italia non garantisce un bel niente, per dare garanzia di essere solidi gli istituti di credito devono mettere da parte un capitale pari a circa il 70 per cento del portafoglio investito in titoli di Stato.
Se il presidente della Bce Mario Draghi per riportare alla normalità le quotazioni del sistema bancario nelle scorse settimane ha usato il cannone, l' Europa a trazione tedesca si appresta quindi a sganciare una bomba atomica, che rischia però di sterminare il nostro sistema bancario e non solo. È risaputo infatti che gli istituti di credito sono acquirenti abituali dei titoli di Stato italiani e una recente indagine stima che abbiano in carico almeno 400 miliardi, ossia una cifra molto vicina al 20 per cento del totale del nostro debito pubblico.
Avete idea di quanti soldi servirebbero, in aumenti di capitale, per mettere da parte il 70 per cento del denaro investito in Bot e Btp? Duecentottanta miliardi, cioè circa il 13 per cento del nostro debito pubblico. Per le banche sarebbe una sventola da capogiro, ma anche per lo Stato, che vedrebbe salire lo spread come un palloncino pieno di elio, e pure per i risparmiatori.
Dietro alla mozione dell' Europarlamento votata anche dai deputati italiani e dietro lo studio dei saggi, ci sarebbe secondo il Corriere della Sera lo zampino di Wolfgang Schaeuble, ossia del ministro delle Finanze tedesco, il falco della Germania, colui che avrebbe voluto mandare al fallimento la Grecia e che non ha mollato un attimo la presa su Alexis Tsipras fino a che questi non ha alzato bandiera bianca. L' operazione in pratica vorrebbe dire che, se si riconosce la possibilità che uno Stato fallisca, le banche non possono detenere titoli ad alto rischio. Non solo: così facendo si estende il criterio del bail in dalle banche agli Stati, prevedendo che siano i risparmiatori e gli investitori a pagare il debito, con effetti devastanti sugli istituti di credito e sulla clientela. L' Italia è nel mirino: dato che non vuole decidersi a ridurre il debito pubblico con misure draconiane (tipo una patrimoniale e una robusta spending review) la si mette con le spalle al muro con la minaccia di tagliare il legame tra banche e debito pubblico.
Insomma, mentre Matteo Renzi litiga con l' Europa chiedendo maggiore flessibilità, Schaeuble e le sturmtruppen si preparano a regalarci maggior rigore. E i nostri europarlamentari che fanno? Dormono. Anzi no, peggio, votano una mozione in cui si vincola la Ue a separare Stati e banche, costringendo queste ultime a ridurre l' esposizione nei confronti del debito sovrano, ossia dell' Italia.
Perfetto. Dei geni. Anzi: dei nemici in casa.
Maurizio Belpietro
rassegna stampa: Libero Quotidiano - 7 febbraio 2016 -
http://www.liberoquotidiano.it/news/opinioni/11875923/maurizio-belpietro-voto-politici-contro-risparmiatore-crac-banche.html
Banche, siamo sicuri che "grande è bello"?
Aggregare, fondere, ridurre di numero. E' la parola d'ordine per le
banche, non da oggi, ma da molti anni, e in tutto il mondo. Che ci
facciamo con quasi 400 piccole Banche di credito cooperativo, quasi
tutte monosportello? Aggregare, che diventino una sola. Pensa che
risparmio, unificare tutte le struttura possibili, che eliminazione di
sprechi, che guadagni di efficienza. E poi vuoi mettere, da 400
banchette insignificanti ne viene fori una bella grossa. Ma mica solo
quelle bisogna fondere, anche quelle più grosse, come Monte Paschi, Ubi e
compagnia. Perché noi abbiamo ancora solo due banche "di dimensione
europea", Intesa e Unicredit.
Già, di dimensione europea. Bell'esempio le banche europee (e non parliamo delle americane), ottima riuscita. Solide, non si sono quasi accorte della crisi. E poi mai uno scandalo, mai un imbroglio, mai una strategia sbagliata. Soprattutto, mai un dubbio che quella del gigantismo sia la strada giusta. Che importa se poi la crisi di una grande banca può far fallire un intero paese, e quindi bisogna salvarla per forza? Tanto basta aumentare le tasse ai cittadini, azzerare il welfare, togliere qualsiasi garanzia ai lavoratori e poi il Pil ricomincia a crescere, guardate com'è stata brava l'Irlanda.
Sì, ma i risparmi, l'efficienza? Beh, se per verificare l'efficienza contano i risultati, forse non ci siamo. E i risparmi possono anche non essere la strada migliore rispetto all'obiettivo da raggiungere. Già, qual è l'obiettivo? Perché sono parecchi anni che a questa domanda si dà una sola risposta: l'obiettivo è che "l'azienda guadagni", sia competitiva rispetto alle altre dello stesso settore, "crei valore per gli azionisti". Che tutto questo crei valore anche per la società si dà per scontato, ci pensa "la mano invisibile". La "mano invisibile" è come la Provvidenza: i suoi disegni sono imperscrutabili, ma è guidata dallo spirito divino, quindi mica si può dubitare che alla fine produca il migliore dei mondi possibili.
A pensarci bene, questa strategia dell'aggregazione si potrebbe attuare anche nella scuola. Che ci facciamo con un milione di insegnanti? Che spreco, che modo inutile di spendere i soldi delle tasse. Adesso c'è Internet, ci sono le videoconferenze. Di professori ne basterebbero un centinaio, uno per materia, e gli allievi tutti davanti a un video ad ascoltare. Che impennata dell'efficienza!
Come? Non è la stessa cosa? Insomma, c'è da discuterne. Cominciamo dal principio, cioè dall'obiettivo delle banche: quello prioritario dovrebbe essere il credito all'economia, o no? Tutto il resto dovrebbe venire dopo, compreso il fatto di fare più profitti possibile. Certo, non devono perdere. E per non perdere dovrebbero prestare in modo oculato. Per fare questo c'è bisogno di due cose: avere le competenze necessarie per capire se l'impresa a cui si fa il prestito è valida e conoscere i clienti. Il primo punto è critico da sempre, nella piccole banche come nelle grandi: bisognerebbe affrontarlo, ma lì la dimensione non conta. Il secondo punto comporta che non si possa ridurre troppo il personale, così come non si possono ridurre gli insegnanti senza rinunciare alla relazione personale che è un aspetto fondamentale della questione: in questo secondo caso avremo un apprendimento scadente, nell'altro aumenteranno i prestiti sbagliati.
Le banche stanno da tempo seguendo la strada opposta. Formazione rispetto ai problemi delle imprese niente, accentramento dei poteri decisionali (ormai un direttore di filiale ha poteri limitatissimi), standardizzazione delle procedure quando un credito oculato andrebbe studiato caso per caso. Certo, sui costi si risparmia, ma davvero è il modo migliore di fare banca? Nel frattempo l'informatica ha ridotto la necessità di personale che svolga lavoro di routine. E che ci si fa con questi dipendenti in sovrappiù? In parte si riducono con tutti i mezzi possibili (ah, che risparmi sul costo del lavoro!) e in parte gli si fa formazione: per renderli adeguati a decidere a chi prestare? Ma no: per farli diventare venditori di prodotti finanziari, visto che ormai si guadagna con quelli, mica prestando all'economia. Poi dice che le sofferenze aumentano...
Una rete di banche non enormi, con dipendenti debitamente istruiti e in grado di attuare un controllo di merito sui prestiti che si fanno e sull'andamento delle aziende affidate, sarebbe adatta alla struttura della nostra economia, dove il 90% delle imprese sono piccole o piccolissime. E vogliamo restare così? Chi assisterà le imprese più grandi, chi darà loro i mezzi per farle crescere? A parte che mantenere le banche piccole non significa che non ne debbano esistere alcune grandi, c'è un altro aspetto da considerare, ossia il ruolo che possono avere le banche d'affari: che neanch'esse debbono per forza essere gigantesche. Goldman Sachs è un mostro, ma quando Kkr organizzò il più grande leveraged buyout che si fosse visto fino ad allora, quello sulla Rjr Nabisco, era una piccola boutique del credito. Mediobanca, che ha guidato per quasi quarant'anni ogni più piccola mossa del capitalismo italiano, era di dimensioni modeste, e così Lazard. Per organizzare le grandi operazioni serve un nucleo pensante che può essere anche di dimensioni ridotte, e poi propone l'affare a un certo numero di banche le quali, se il proponente è di prestigio perché ha dimostrato di saper fare affari, partecipano al finanziamento. Tra l'altro, se l'affare va male - cosa che può sempre accadere - le perdite sono suddivise tra più aziende di credito, che in questo modo non subiscono un colpo drammatico. Agli investitori si dice sempre di "non mettere tutte le uova in un solo paniere", cioè di diversificare il rischio. Il principio è valido anche per le operazioni creditizie, tanto più che i dati sulla composizione delle sofferenze bancarie mostrano che sono i prestiti di importo più elevato ad essere più a rischio.
Bisognerebbe chiedersi come mai ciò accada. In parte probabilmente perché il "capitalismo di relazione", in cui contano più i rapporti di potere che l'andamento dell'impresa, è ancora tutt'altro che un ricordo. In parte perché i grandi clienti sono naturalmente appetiti, e quando vanno in crisi la banca tende a sostenerli anche oltre il ragionevole, in accordo con il vecchio detto che "un piccolo debito è un problema tuo, un grande debito è un problema della banca". La soluzione che i grandi prestiti siano organizzati da una merchant bank potrebbe evitare entrambi questi problemi: un istituto che proponga affari non perché hanno buone possibilità, ma in seguito a pressioni politiche o interessi di altro genere, durerebbe poco sul mercato: nessuna banca aderirebbe alle sue proposte dopo i primi affari andati male.
Una delle obiezioni più diffuse è che le piccole banche siano per la maggior parte covi di clientele, dove i prestiti vengono erogati, appunto, per lo più con criteri discutibili. Indubbiamente ci sono stati - e sempre ci saranno - casi in cui questo accade. Ma una banca piccola è priva di quella rete di sicurezza che in gergo si chiama "rilevanza sistemica", come invece hanno le banche "troppo grandi per fallire". E dunque, se sbaglia per incapacità o per malafede, si può "risolvere" - come si dice nell'ambiente - senza troppi problemi. E la consapevolezza di questo fatto dovrebbe tenere a bada quell'"azzardo morale" (cioè assumere rischi eccessivi perché si conta su un salvataggio senza il quale si creerebbe un disastro a macchia d'olio, come il caso Lehman ha insegnato) che ha provocato catastrofi in tutto il mondo.
E forse sta proprio qui uno dei motivi della corsa alla grande dimensione: diventa molto grande, e sarai quasi al sicuro, tanto più che raramente la rovina di una banca trascina con sé anche gli azionisti e i manager, che in un modo o nell'altro restano quasi sempre a galla. L'altro motivo è di potere: giganti il cui attivo è superiore al Pil della maggior parte degli Stati (e spesso superiore a quello del paese dove hanno sede) finanziano partiti e candidati, bloccano o modificano le leggi, sono al di fuori e al di sopra di ogni controllo politico. E' una delle cause più rilevanti del deperimento della democrazia a livello mondiale. E basterebbe questo (o meglio: "dovrebbe" bastare) per impedire che le aziende - non solo quelle del credito - diventino giganti che non solo non si possono controllare, ma che a controllare sono loro.
C'è poi un altro fattore da non trascurare. Il "Vangelo" delle fusioni e acquisizioni è predicato da chi su queste operazioni ci guadagna, grandi gruppi finanziari e agenzie di rating a cui sempre si deve ricorrere per valutazioni, ingegneria finanziaria, eventuali collocamenti di titoli. Sono gli stessi che in un altro capitolo di questa Vangelo raccomandano di privatizzare tutto il possibile e anche di più. Si può capire, alimentano il loro mercato. Quello che si capisce meno è perché tutti gli diano retta: è un po' come chiedere: "Oste, il tuo vino è buono?".
L'Italia, dal punto di vista dello strapotere dei gruppi finanziari, è ancora relativamente indietro (per fortuna), almeno per quel che riguarda le questioni interne. Ma un po' di pazienza: lo abbiamo visto, la parola d'ordine è "aggregare". Tra un po' sarà così anche da noi.
rassegna stampa: la repubblica, 30 gennaio 2016 di Carlo Clericetti
http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2016/01/30/banche-siamo-sicuri-che-grande-e-bello/
Già, di dimensione europea. Bell'esempio le banche europee (e non parliamo delle americane), ottima riuscita. Solide, non si sono quasi accorte della crisi. E poi mai uno scandalo, mai un imbroglio, mai una strategia sbagliata. Soprattutto, mai un dubbio che quella del gigantismo sia la strada giusta. Che importa se poi la crisi di una grande banca può far fallire un intero paese, e quindi bisogna salvarla per forza? Tanto basta aumentare le tasse ai cittadini, azzerare il welfare, togliere qualsiasi garanzia ai lavoratori e poi il Pil ricomincia a crescere, guardate com'è stata brava l'Irlanda.
Sì, ma i risparmi, l'efficienza? Beh, se per verificare l'efficienza contano i risultati, forse non ci siamo. E i risparmi possono anche non essere la strada migliore rispetto all'obiettivo da raggiungere. Già, qual è l'obiettivo? Perché sono parecchi anni che a questa domanda si dà una sola risposta: l'obiettivo è che "l'azienda guadagni", sia competitiva rispetto alle altre dello stesso settore, "crei valore per gli azionisti". Che tutto questo crei valore anche per la società si dà per scontato, ci pensa "la mano invisibile". La "mano invisibile" è come la Provvidenza: i suoi disegni sono imperscrutabili, ma è guidata dallo spirito divino, quindi mica si può dubitare che alla fine produca il migliore dei mondi possibili.
A pensarci bene, questa strategia dell'aggregazione si potrebbe attuare anche nella scuola. Che ci facciamo con un milione di insegnanti? Che spreco, che modo inutile di spendere i soldi delle tasse. Adesso c'è Internet, ci sono le videoconferenze. Di professori ne basterebbero un centinaio, uno per materia, e gli allievi tutti davanti a un video ad ascoltare. Che impennata dell'efficienza!
Come? Non è la stessa cosa? Insomma, c'è da discuterne. Cominciamo dal principio, cioè dall'obiettivo delle banche: quello prioritario dovrebbe essere il credito all'economia, o no? Tutto il resto dovrebbe venire dopo, compreso il fatto di fare più profitti possibile. Certo, non devono perdere. E per non perdere dovrebbero prestare in modo oculato. Per fare questo c'è bisogno di due cose: avere le competenze necessarie per capire se l'impresa a cui si fa il prestito è valida e conoscere i clienti. Il primo punto è critico da sempre, nella piccole banche come nelle grandi: bisognerebbe affrontarlo, ma lì la dimensione non conta. Il secondo punto comporta che non si possa ridurre troppo il personale, così come non si possono ridurre gli insegnanti senza rinunciare alla relazione personale che è un aspetto fondamentale della questione: in questo secondo caso avremo un apprendimento scadente, nell'altro aumenteranno i prestiti sbagliati.
Le banche stanno da tempo seguendo la strada opposta. Formazione rispetto ai problemi delle imprese niente, accentramento dei poteri decisionali (ormai un direttore di filiale ha poteri limitatissimi), standardizzazione delle procedure quando un credito oculato andrebbe studiato caso per caso. Certo, sui costi si risparmia, ma davvero è il modo migliore di fare banca? Nel frattempo l'informatica ha ridotto la necessità di personale che svolga lavoro di routine. E che ci si fa con questi dipendenti in sovrappiù? In parte si riducono con tutti i mezzi possibili (ah, che risparmi sul costo del lavoro!) e in parte gli si fa formazione: per renderli adeguati a decidere a chi prestare? Ma no: per farli diventare venditori di prodotti finanziari, visto che ormai si guadagna con quelli, mica prestando all'economia. Poi dice che le sofferenze aumentano...
Una rete di banche non enormi, con dipendenti debitamente istruiti e in grado di attuare un controllo di merito sui prestiti che si fanno e sull'andamento delle aziende affidate, sarebbe adatta alla struttura della nostra economia, dove il 90% delle imprese sono piccole o piccolissime. E vogliamo restare così? Chi assisterà le imprese più grandi, chi darà loro i mezzi per farle crescere? A parte che mantenere le banche piccole non significa che non ne debbano esistere alcune grandi, c'è un altro aspetto da considerare, ossia il ruolo che possono avere le banche d'affari: che neanch'esse debbono per forza essere gigantesche. Goldman Sachs è un mostro, ma quando Kkr organizzò il più grande leveraged buyout che si fosse visto fino ad allora, quello sulla Rjr Nabisco, era una piccola boutique del credito. Mediobanca, che ha guidato per quasi quarant'anni ogni più piccola mossa del capitalismo italiano, era di dimensioni modeste, e così Lazard. Per organizzare le grandi operazioni serve un nucleo pensante che può essere anche di dimensioni ridotte, e poi propone l'affare a un certo numero di banche le quali, se il proponente è di prestigio perché ha dimostrato di saper fare affari, partecipano al finanziamento. Tra l'altro, se l'affare va male - cosa che può sempre accadere - le perdite sono suddivise tra più aziende di credito, che in questo modo non subiscono un colpo drammatico. Agli investitori si dice sempre di "non mettere tutte le uova in un solo paniere", cioè di diversificare il rischio. Il principio è valido anche per le operazioni creditizie, tanto più che i dati sulla composizione delle sofferenze bancarie mostrano che sono i prestiti di importo più elevato ad essere più a rischio.
Bisognerebbe chiedersi come mai ciò accada. In parte probabilmente perché il "capitalismo di relazione", in cui contano più i rapporti di potere che l'andamento dell'impresa, è ancora tutt'altro che un ricordo. In parte perché i grandi clienti sono naturalmente appetiti, e quando vanno in crisi la banca tende a sostenerli anche oltre il ragionevole, in accordo con il vecchio detto che "un piccolo debito è un problema tuo, un grande debito è un problema della banca". La soluzione che i grandi prestiti siano organizzati da una merchant bank potrebbe evitare entrambi questi problemi: un istituto che proponga affari non perché hanno buone possibilità, ma in seguito a pressioni politiche o interessi di altro genere, durerebbe poco sul mercato: nessuna banca aderirebbe alle sue proposte dopo i primi affari andati male.
Una delle obiezioni più diffuse è che le piccole banche siano per la maggior parte covi di clientele, dove i prestiti vengono erogati, appunto, per lo più con criteri discutibili. Indubbiamente ci sono stati - e sempre ci saranno - casi in cui questo accade. Ma una banca piccola è priva di quella rete di sicurezza che in gergo si chiama "rilevanza sistemica", come invece hanno le banche "troppo grandi per fallire". E dunque, se sbaglia per incapacità o per malafede, si può "risolvere" - come si dice nell'ambiente - senza troppi problemi. E la consapevolezza di questo fatto dovrebbe tenere a bada quell'"azzardo morale" (cioè assumere rischi eccessivi perché si conta su un salvataggio senza il quale si creerebbe un disastro a macchia d'olio, come il caso Lehman ha insegnato) che ha provocato catastrofi in tutto il mondo.
E forse sta proprio qui uno dei motivi della corsa alla grande dimensione: diventa molto grande, e sarai quasi al sicuro, tanto più che raramente la rovina di una banca trascina con sé anche gli azionisti e i manager, che in un modo o nell'altro restano quasi sempre a galla. L'altro motivo è di potere: giganti il cui attivo è superiore al Pil della maggior parte degli Stati (e spesso superiore a quello del paese dove hanno sede) finanziano partiti e candidati, bloccano o modificano le leggi, sono al di fuori e al di sopra di ogni controllo politico. E' una delle cause più rilevanti del deperimento della democrazia a livello mondiale. E basterebbe questo (o meglio: "dovrebbe" bastare) per impedire che le aziende - non solo quelle del credito - diventino giganti che non solo non si possono controllare, ma che a controllare sono loro.
C'è poi un altro fattore da non trascurare. Il "Vangelo" delle fusioni e acquisizioni è predicato da chi su queste operazioni ci guadagna, grandi gruppi finanziari e agenzie di rating a cui sempre si deve ricorrere per valutazioni, ingegneria finanziaria, eventuali collocamenti di titoli. Sono gli stessi che in un altro capitolo di questa Vangelo raccomandano di privatizzare tutto il possibile e anche di più. Si può capire, alimentano il loro mercato. Quello che si capisce meno è perché tutti gli diano retta: è un po' come chiedere: "Oste, il tuo vino è buono?".
L'Italia, dal punto di vista dello strapotere dei gruppi finanziari, è ancora relativamente indietro (per fortuna), almeno per quel che riguarda le questioni interne. Ma un po' di pazienza: lo abbiamo visto, la parola d'ordine è "aggregare". Tra un po' sarà così anche da noi.
rassegna stampa: la repubblica, 30 gennaio 2016 di Carlo Clericetti
http://clericetti.blogautore.repubblica.it/2016/01/30/banche-siamo-sicuri-che-grande-e-bello/
giovedì 4 febbraio 2016
L'allarme rosso sulle Borse mondiali: "I fondi sovrani stanno vendendo"
La parola d'ordine in Borsa: vendere. Non stiamo parlando degli
azionisti della domenica ma degli investitori forse più importanti dal
2008 a questa parte, da quando cioè è esplosa la crisi. I fondi sovrani dei Paesi produttori di petrolio hanno dimezzato il loro potere d'acquisto. Colpa del prezzo del greggio colato a picco negli ultimi mesi (-70%), toccando i minimi degli ultimi 12 anni. Come spiega il Sole 24 Ore,
oggi quegli stessi fondi, che a pieno regime e con le casse piene
quando il petrolio era alle stelle pompavano sui mercati i loro 700-800 miliardi di dollari di surplus, possono investire "appena" 200-300 miliardi l'anno. Come dire: il "doping" delle Borse è finito e i mercati azionari e obbligazionari hanno sempre meno liquidità.
Dismissioni a catena - Per far fronte al prolungato debito di liquidità, i fondi hanno iniziato a dismettere il loro patrimonio finanziario, 4.000 miliardi di dollari: l'erosione anche di una minima parte di questo tesoro rischia di creare un'onda stile tsunami sull'economia globale. Secondo l'asset manager Lyxor negli ultimi mesi i fondi sovrani dei Paesi del Golfo, da soli, negli ultimi mesi hanno venduto circa 300 miliardi di dollari di azioni) e secondo molti analisti l'inquietante volatilità dei mercati potrebbe essere dovuta proprio alla smobilitazione selvaggia dei fondi sovrani.
Il caso Arabia - Lo specchio perfetto di quanto sta accadendo è l'Arabia Saudita, che ha già annunciato un deficit di 87 miliardi e conseguente massiccia opera di risanamento: più debito (prima emissione obbligazionaria in dollari dal 2007), privatizzazioni (in testa quella del colosso del settore idrocarburi Saudi Aramco) e dismissioni di asset, che nel 2015 si sono già ridotti di 73 miliardi di dollari.
rassegna stampa, Libero quotidiano, 4 febbariao 2016
http://www.liberoquotidiano.it/news/economia/11875301/petrolio-prezzo-calo-borse-panico-fondi-sovrani-vendono.html
Dismissioni a catena - Per far fronte al prolungato debito di liquidità, i fondi hanno iniziato a dismettere il loro patrimonio finanziario, 4.000 miliardi di dollari: l'erosione anche di una minima parte di questo tesoro rischia di creare un'onda stile tsunami sull'economia globale. Secondo l'asset manager Lyxor negli ultimi mesi i fondi sovrani dei Paesi del Golfo, da soli, negli ultimi mesi hanno venduto circa 300 miliardi di dollari di azioni) e secondo molti analisti l'inquietante volatilità dei mercati potrebbe essere dovuta proprio alla smobilitazione selvaggia dei fondi sovrani.
Il caso Arabia - Lo specchio perfetto di quanto sta accadendo è l'Arabia Saudita, che ha già annunciato un deficit di 87 miliardi e conseguente massiccia opera di risanamento: più debito (prima emissione obbligazionaria in dollari dal 2007), privatizzazioni (in testa quella del colosso del settore idrocarburi Saudi Aramco) e dismissioni di asset, che nel 2015 si sono già ridotti di 73 miliardi di dollari.
rassegna stampa, Libero quotidiano, 4 febbariao 2016
http://www.liberoquotidiano.it/news/economia/11875301/petrolio-prezzo-calo-borse-panico-fondi-sovrani-vendono.html
Credit Suisse, primo rosso dal 2008: perde 2,6 miliardi
Il risultato della banca elvetica è inferiore alle attese degli
analisti, pesano le svalutazioni legate allo shopping negli Stati Uniti.
Il ceo accelera il piano di taglio dei costi
MILANO - Credit Suisse chiude il 2015 con una perdita netta di competenza di 2,94 miliardi di franchi svizzeri (circa 2,6 miliardi di euro al cambio attuale) e una perdita prima delle imposte da 2,42 miliardi. Gli analisti si attendevano un risultato ante-tasse in negativo per 2,09 miliardi. Sul rosso del gruppo bancario elvetico pesano una svalutazione dell'avviamento da 3,79 miliardi nel quarto trimestre decisa dal nuovo piano strategico, varato ad ottobre, in occasione del maxi aumento di capitale da oltre 6 miliardi di franchi. La svalutazione dell'avviamento è in gran parte legata all'acquisizione, nel 2000, della banca d'investimento statunitense Donaldson, Lufkin e Jenrette, come ricorda una nota. A pesare sui profitti è stato soprattutto il tracollo (-90%) degli utili della divisione banca d'investimento.
Sul rosso annuale pesano anche i 355 milioni di costi di ristrutturazione emersi nel quarto trimestre in tutte le divisioni del gruppo per effetto del nuovo piano strategico. Per i contenziosi, invece, il gruppo ha stanziato oltre 820 milioni. Credit Suisse, nonostante la prima perdita registrata dall'inizio della crisi finanziaria ed economica, ha proposto la distribuzione di una cedola di 0,7 franchi svizzeri anche sotto forma di script dividend, cioè dividendo in azioni. Credit Suisse ha un ratio patrimoniale cet1 dell'11,4%. Il piano strategico annunciato ad ottobre mira a tagliare oltre 3 miliardi di franchi di costi entro il 2018 e il ceo Tijdane Thiam ha detto che - visto il risultato negativo del quarto trimestre - si è deciso di accelerare con il piano.
rassegna stampa, la repubblica: 4 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/04/news/credit_suisse_primo_rosso_dal_2008_perde_2_6_miliardi-132686707/
MILANO - Credit Suisse chiude il 2015 con una perdita netta di competenza di 2,94 miliardi di franchi svizzeri (circa 2,6 miliardi di euro al cambio attuale) e una perdita prima delle imposte da 2,42 miliardi. Gli analisti si attendevano un risultato ante-tasse in negativo per 2,09 miliardi. Sul rosso del gruppo bancario elvetico pesano una svalutazione dell'avviamento da 3,79 miliardi nel quarto trimestre decisa dal nuovo piano strategico, varato ad ottobre, in occasione del maxi aumento di capitale da oltre 6 miliardi di franchi. La svalutazione dell'avviamento è in gran parte legata all'acquisizione, nel 2000, della banca d'investimento statunitense Donaldson, Lufkin e Jenrette, come ricorda una nota. A pesare sui profitti è stato soprattutto il tracollo (-90%) degli utili della divisione banca d'investimento.
Sul rosso annuale pesano anche i 355 milioni di costi di ristrutturazione emersi nel quarto trimestre in tutte le divisioni del gruppo per effetto del nuovo piano strategico. Per i contenziosi, invece, il gruppo ha stanziato oltre 820 milioni. Credit Suisse, nonostante la prima perdita registrata dall'inizio della crisi finanziaria ed economica, ha proposto la distribuzione di una cedola di 0,7 franchi svizzeri anche sotto forma di script dividend, cioè dividendo in azioni. Credit Suisse ha un ratio patrimoniale cet1 dell'11,4%. Il piano strategico annunciato ad ottobre mira a tagliare oltre 3 miliardi di franchi di costi entro il 2018 e il ceo Tijdane Thiam ha detto che - visto il risultato negativo del quarto trimestre - si è deciso di accelerare con il piano.
rassegna stampa, la repubblica: 4 febbraio 2016
http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/04/news/credit_suisse_primo_rosso_dal_2008_perde_2_6_miliardi-132686707/
Risale la disoccupazione a dicembre, occupati in calo
Battuta d'arresto nel recupero del mercato del lavoro, con 21mila
occupati in meno su base mensile: il tasso di senza lavoro risale
all'11,4%. Ma nel raffronto annuo si conferma il trend positivo: 109mila
persone al lavoro in più sul dicembre 2014, mentre i disoccupati sono
254mila in meno
MILANO - Si ferma il recupero del mercato del lavoro italiano nell'ultimo mese del 2015: i dati provvisori dell'Istat riferiti allo scorso dicembre segnalano sia un aumento del tasso di disoccupazione che una diminuzione del numero degli occupati, anche se il raffronto con il 2014 resta ampiamente positivo. In sostanza, al di là delle variazioni da zero virgola che caratterizzano l'andamento nel breve periodo, si conferma la fragilità del quadro complessivo che alterna mesi ampiamente positivi a brusche frenate. Nel complesso, le variazioni di più lungo periodo indicano un trend di miglioramento della situazione, fornendo una prima indicazione al governo che nel 2015 ha puntato molto sulle agevolazioni alle assunzioni stabili (grazie agli sgravi sui contributi che deve versare il datore di lavoro) e sul Jobs Act.
Venendo ai numeri, gli occupati (cioè il numero di persone sopra 15 anni che lavorano) di dicembre sono calati di 21mila unità rispetto a novembre (-0,1%), soprattutto a causa del calo dei lavoratori autonomi. Tra gli assunti, comunque, quelli a tempo indeterminato sono balzati di 31mila unità: possibile che le aziende abbiano accelerato le assunzioni per centrare in pieno gli sgravi contributivi, che si sono sensibilmente ridotti a partire dal 2016. La variazione annua è positiva: ci sono 109mila occupati in più (+0,5%) rispetto al dicembre del 2014. Va ricordato che, allora, gli sgravi (che sarebbero partiti nel 2015) lavorarono in senso opposto: le aziende rimandarono la decontribuzione per assumere e questo elemento può influire sul raffronto tra i due mesi.
Il tasso di disoccupazione (cioè il rapporto tra le persone in cerca di lavoro e il totale della forza lavoro, data dalla somma di occupati e disoccupati) è salito leggermente all'11,4%, dall'11,3% precedente e dopo aver messo insieme una discesa di un punto percentuale tra giugno e novembre. Per intendersi, la Germania locomotiva d'Europa oggi ha aggiornato il record (positivo) di disoccupazione, con un tasso in calo al 6,2% a gennaio: mai così basso dai tempi della riunificazione. I tedeschi senza lavoro sono 2,73 milioni, gli italiani quasi 2,9 milioni. Nell'Eurozona, il tasso è calato ai minimi da quattro anni e mezzo al 10,4%. Nel nostro caso, a dicembre le persone disoccupate sono risultate 18mila in più su base mensile: faticano maggiormente a trovare lavoro gli uomini, nella fascia tra 25 e 49 anni. Anche in questo caso, la dinamica annua è ben più favorevole: rispetto al dicembre 2014 la disoccupazione è calata dell'8,1%, che significa 254mila persone in cerca di lavoro in meno. Tra i giovani, il tasso di disoccupazione ha limato 0,1 punti al 37,9%, sempre a dicembre. Se rapportata all'intera popolazione under 25, la fetta di coloro che non hanno lavoro è di poco inferiore al 10%.
In calo il numero degli inattivi, cioè le persone che non lavorano e neppure sono in cerca di occupazione: la stima dell'Istat è di un calo dello 0,1% (19mila persone), ma solo grazie alla componente maschile.
I dati dell'Istat arrivano mentre il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, è all'opera sui temi del contrasto alla povertà: il governo ha lanciato un intervento da 320 euro a famiglia per un milione di individui in maggiore difficoltà. Da monitorare, però, c'è anche una nuova frontiera del precariato: quella dei buoni lavoro, che hanno conosciuto una crescita vertiginosa negli ultimi tempi. Dietro i 'voucher' orari, però, come molti sanno si celano dei veri e propri rapporti di lavoro subordinato, che sfuggono così alle giuste regole del gioco: lo stesso ministero, dopo gli allarmi dell'Inps, ha detto di voler affrontare il problema con una riforma dello strumento.
Il quadro sul mercato del lavoro Italiano
Dicembre 2015, dati destagionalizzati
rassegna stampa: la repubblica, 2 febberaio 2015
http://www.repubblica.it/economia/2016/02/02/news/disoccupazione_dicembre_2015_istat-132539490/
MILANO - Si ferma il recupero del mercato del lavoro italiano nell'ultimo mese del 2015: i dati provvisori dell'Istat riferiti allo scorso dicembre segnalano sia un aumento del tasso di disoccupazione che una diminuzione del numero degli occupati, anche se il raffronto con il 2014 resta ampiamente positivo. In sostanza, al di là delle variazioni da zero virgola che caratterizzano l'andamento nel breve periodo, si conferma la fragilità del quadro complessivo che alterna mesi ampiamente positivi a brusche frenate. Nel complesso, le variazioni di più lungo periodo indicano un trend di miglioramento della situazione, fornendo una prima indicazione al governo che nel 2015 ha puntato molto sulle agevolazioni alle assunzioni stabili (grazie agli sgravi sui contributi che deve versare il datore di lavoro) e sul Jobs Act.
Venendo ai numeri, gli occupati (cioè il numero di persone sopra 15 anni che lavorano) di dicembre sono calati di 21mila unità rispetto a novembre (-0,1%), soprattutto a causa del calo dei lavoratori autonomi. Tra gli assunti, comunque, quelli a tempo indeterminato sono balzati di 31mila unità: possibile che le aziende abbiano accelerato le assunzioni per centrare in pieno gli sgravi contributivi, che si sono sensibilmente ridotti a partire dal 2016. La variazione annua è positiva: ci sono 109mila occupati in più (+0,5%) rispetto al dicembre del 2014. Va ricordato che, allora, gli sgravi (che sarebbero partiti nel 2015) lavorarono in senso opposto: le aziende rimandarono la decontribuzione per assumere e questo elemento può influire sul raffronto tra i due mesi.
Il tasso di disoccupazione (cioè il rapporto tra le persone in cerca di lavoro e il totale della forza lavoro, data dalla somma di occupati e disoccupati) è salito leggermente all'11,4%, dall'11,3% precedente e dopo aver messo insieme una discesa di un punto percentuale tra giugno e novembre. Per intendersi, la Germania locomotiva d'Europa oggi ha aggiornato il record (positivo) di disoccupazione, con un tasso in calo al 6,2% a gennaio: mai così basso dai tempi della riunificazione. I tedeschi senza lavoro sono 2,73 milioni, gli italiani quasi 2,9 milioni. Nell'Eurozona, il tasso è calato ai minimi da quattro anni e mezzo al 10,4%. Nel nostro caso, a dicembre le persone disoccupate sono risultate 18mila in più su base mensile: faticano maggiormente a trovare lavoro gli uomini, nella fascia tra 25 e 49 anni. Anche in questo caso, la dinamica annua è ben più favorevole: rispetto al dicembre 2014 la disoccupazione è calata dell'8,1%, che significa 254mila persone in cerca di lavoro in meno. Tra i giovani, il tasso di disoccupazione ha limato 0,1 punti al 37,9%, sempre a dicembre. Se rapportata all'intera popolazione under 25, la fetta di coloro che non hanno lavoro è di poco inferiore al 10%.
In calo il numero degli inattivi, cioè le persone che non lavorano e neppure sono in cerca di occupazione: la stima dell'Istat è di un calo dello 0,1% (19mila persone), ma solo grazie alla componente maschile.
I dati dell'Istat arrivano mentre il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, è all'opera sui temi del contrasto alla povertà: il governo ha lanciato un intervento da 320 euro a famiglia per un milione di individui in maggiore difficoltà. Da monitorare, però, c'è anche una nuova frontiera del precariato: quella dei buoni lavoro, che hanno conosciuto una crescita vertiginosa negli ultimi tempi. Dietro i 'voucher' orari, però, come molti sanno si celano dei veri e propri rapporti di lavoro subordinato, che sfuggono così alle giuste regole del gioco: lo stesso ministero, dopo gli allarmi dell'Inps, ha detto di voler affrontare il problema con una riforma dello strumento.
Il quadro sul mercato del lavoro Italiano
Dicembre 2015, dati destagionalizzati
Valori assoluti (migliaia di unità) | Variazioni congiunturali | Variazioni tendenziali | |||||
---|---|---|---|---|---|---|---|
Dic15 Nov15 |
Dic15 Nov15 |
Ott-Dic15 Lug-Set15 |
Ott-Dic15 Lug-Set15 |
Dic15 Dic14 |
Dic15 Dic14 |
||
ass. | % | ass. | % | ass. | % | ||
MASCHI | |||||||
Occupati | 13.135 | -12 | -0,1 | 2 | 0,0 | 132 | 1,0 |
Disoccupati | 1.646 | 36 | 2,3 | -6 | -0,4 | -45 | -2,6 |
Inattivi 15-64 anni | 4.966 | -41 | -0,8 | -21 | -0,4 | -170 | -3,3 |
FEMMINE | |||||||
Occupati | 9.335 | -9 | -0,1 | -28 | -0,3 | -23 | -0,2 |
Disoccupati | 1.252 | -18 | -1,4 | -65 | -4,8 | -209 | -14,3 |
Inattivi 15-64 anni | 9.120 | 22 | 0,2 | 53 | 0,6 | 154 | 1,7 |
TOTALE | |||||||
Occupati | 22.470 | -21 | -0,1 | -26 | -0,1 | 109 | 0,5 |
Disoccupati | 2.898 | 18 | 0,6 | -70 | -2,4 | -254 | -8,1 |
Inattivi 15-64 anni | 14.086 | -19 | -0,1 | 32 | 0,2 | -15 | -0,1 |
rassegna stampa: la repubblica, 2 febberaio 2015
http://www.repubblica.it/economia/2016/02/02/news/disoccupazione_dicembre_2015_istat-132539490/
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