(AGI) - CdV, 28 feb. - "Quando il denaro diventa un idolo,
comanda le scelte dell'uomo. E allora rovina l'uomo e lo
condanna". Papa Francesco ha ripetuto la sua forte denuncia
contro il capitalismo nel discorso rivolto a 7 mila soci della
Confcooperative, citando Basilio di Cesarea, Padre della Chiesa
del IV secolo, ripreso poi da san Francesco d'Assisi, che
diceve "il denaro e' lo sterco del diavolo". "Lo ripete ora
anche il Papa: il denaro e' lo sterco del diavolo. Ma - ha
aggiunto - per fare tutte le cose che fate ci vuole denaro!".
Secondo Bergoglio, infatti, "il denaro a servizio della vita
puo' essere gestito nel modo giusto dalla cooperativa, se pero'
e' una cooperativa autentica, vera, dove non comanda il
capitale sugli uomini ma gli uomini sul capitale".
In
proposito, Francesco ha ricordato che "le cooperative in genere
non sono state fondate da grandi capitalisti, anzi si dice
spesso che esse siano strutturalmente sottocapitalizzate". "Per
questo e forse vi sorprendera', il Papa - ha scandito - vi
dice: dovete investire, e dovete investire bene!". "In Italia,
ma non solo - ha poi osservato - e' difficile ottenere denaro
pubblico per colmare la scarsita' delle risorse". "La soluzione
che vi propongo - ha detto ancora - e' questa: mettete insieme
con determinazione i mezzi buoni per realizzare opere buone".
Il suggerimento di Francesco e' stato molto pratico:
"collaborate di piu' - ha esortato - tra cooperative bancarie e
imprese, organizzate le risorse per far vivere con dignita' e
serenita' le famiglie; pagate giusti salari ai lavoratori,
investendo soprattutto per le iniziative che siano veramente
necessarie". "E' noto - ha denunciato in proposito il Papa -
che un certo liberismo crede che sia necessario prima produrre
ricchezza, e non importa come, per poi promuovere qualche
politica redistributiva da parte dello Stato: prima riempiamo i
nostri bicchieri, poi pensiamo agli altri, si dice". "Altri -
ha elencato - pensano che sia la stessa impresa a dover
elargire le briciole della ricchezza accumulata, assolvendo
cosi' alla propria cosiddetta responsabilita' sociale".
Ma, per
Francesco, in questo modo "si corre il rischio di illudersi di
fare del bene mentre, purtroppo, si continua soltanto a fare
marketing, senza uscire dal circuito fatale dell'egoismo delle
persone e delle aziende".
"Se ci guardiamo attorno non accade mai - ha poi
sottolineato - che l'economia si rinnovi in una societa' che
invecchia, invece di crescere". Dunque, "il movimento
cooperativo puo' esercitare un ruolo importante per sostenere,
facilitare e anche incoraggiare la vita delle famiglie". "So
bene - ha dato atto Francesco alla Confcooperative - che le
cooperative propongono gia' tanti servizi e tante formule
organizzative, come quella mutualistica, che vanno incontro
alle esigenze di tutti, dei bambini e degli anziani in
particolare, dagli asili nido fino all'assistenza domiciliare".
"Questo - ha concluso - e' il nostro modo di gestire i beni
comuni, quei beni che non devono essere solo la proprieta' di
pochi e non devono perseguire scopi speculativi".
Papa: "Combattete disonesti, apritevi a tutti"
"A molti che cercano lavoro viene detto: 'Undici ore di lavoro
a 600 euro. Ti piace? No? Vattene a casa, perche' c'e la coda,
la fila di gente che cerca lavoro'". Papa Francesco lo ha
denunciato in un appassionato discorso alla Confcooperative.
"La fame - ha sottolineato - ci fa accettare il lavoro nero".
Ricordando che "i valori cristiani non sono solo per noi, sono
anche per gli altri, cioe' dobbiamo condividerli" perche' "la
fede non si salva rimanendo chiusi in se stessi, rimanendo solo
tra di noi", ai 7 mila soci delle cooperative bianche presenti
nell'Aula Nervi, ha rivolto con forza un appello: "contrastare
e combattere le false cooperative, quelle che prostituiscono il
proprio nome di cooperativa, cioe' di una realta' assai buona,
per ingannare la gente con scopi di lucro contrari a quelli
della vera e autentica cooperazione".
Ad opporvi a questi furbi
disonesti, ha detto ai cooperatori presenti, "fate bene, e vi
dico anche di farlo sempre piu', perche' assumere una facciata
onorata e perseguire invece finalita' disonorevoli e immorali,
spesso rivolte allo sfruttamento del lavoro, oppure alle
manipolazioni del mercato, e persino a scandalosi traffici di
corruzione, e' una vergognosa e gravissima menzogna che non si
puo' assolutamente accettare".
Papa: "undici ore di lavoro a 600 euro. Se non ti va,
vattene"
A molti che cercano lavoro viene detto: "Undici ore di lavoro a
600 euro. Ti piace? No? Vattene a casa, perche' c'e la coda, la
fila di gente che cerca lavoro". Papa Francesco lo ha
denunciato nel discorso alla Confcooperative. "La fame - ha
sottolineato - ci fa accettare il lavoro nero". "E il
personmale domestico?", si e' chiesto. "Quanti uomini e donne
nel personale domestico hanno l'assicurazione sociale per la
pensione?", si e' domandato ancora.
Papa: le cooperative contro disoccupazione giovani e donne
"Le cooperative devono continuare ad essere il motore che
solleva e sviluppa la parte piu' debole delle nostre comunita'
locali e della societa' civile". Lo ha chiesto Papa Francesco
incontrando la Confcooperative. "Occorre - ha raccomandato ai 7
mila soci presenti oggi nell'Aula Nervi - mettere al primo
posto la fondazione di nuove imprese cooperative, insieme allo
sviluppo ulteriore di quelle esistenti, in modo da creare
soprattutto nuove possibilita' di lavoro che oggi non ci sono".
Le iniziative, ha raccomandato Francesco, debbono essere
rivolte in particolare "ai giovani, perche' sappiamo che la
disoccupazione giovanile, drammaticamente elevata, distrugge in
loro la speranza", ed "anche alle tante donne che hanno bisogno
e volonta' di inserirsi nel mondo del lavoro".
Il Papa ha
esortato le cooperative rappresentate in Aula Nervi a
"realizzare la conciliazione, o forse meglio l'armonizzazione
tra lavoro e famiglia, e' un compito che avete gia' avviato e
che dovete realizzare sempre di piu'". "Fare questo - ha
sottolineato - significa anche aiutare le donne a realizzarsi
pienamente nella propria vocazione e nel mettere a frutto i
propri talenti. Donne libere di essere sempre piu'
protagoniste, sia nelle imprese sia nelle famiglie!".
Attenzione poi ci vuole anche per i capo famiglia
disoccupati: "tu che sei ingegnere, quanti anni hai?", chiedono
a volte, ha detto il Pontefice. "E se quello risponde 49, lo
mandano a casa". "Non trascuriamo gli adulti che spesso
rimangono prematuramente senza lavoro", ha chiesto infatti
Francesco, elencando poi come destinatari dell'impegno delle 20
mila cooperative aderenti a Confcooperative, "oltre alle nuove
imprese", anche "le aziende che sono in difficolta', a quelle
che ai vecchi padroni conviene lasciar morire e che invece
possono rivivere con le iniziative che voi chiamate 'Workers
buy out' cioe' 'aziende salvate'".
"Globalizzare la solidarieta' - ha affermato - significa
pensare all'aumento vertiginoso dei disoccupati, alle lacrime
incessanti dei poveri, alla necessita' di riprendere uno
sviluppo che sia un vero progresso integrale della persona che
ha bisogno certamente di reddito, ma non soltanto del
reddito!". "Pensiamo - ha suggerito ancora - ai bisogni della
salute, che i sistemi di welfare tradizionale non riescono piu'
a soddisfare; alle esigenze pressanti della solidarieta',
ponendo di nuovo, al centro dell'economia mondiale, la dignita'
della persona umana". Ai soci delle 'cooperative bianche', il
Pontefice ha chiesto anche di "attivarsi come protagonisti per
realizzare nuove soluzioni di Welfare, in particolare nel campo
della sanita', un campo delicato dove tanta gente povera non
trova piu' risposte adeguate ai propri bisogni".
Papa: combattere le false cooperative che ingannano la gente
"Contrastare e combattere le false cooperative, quelle che
prostituiscono il proprio nome di cooperativa, cioe' di una
realta' assai buona, per ingannare la gente con scopi di lucro
contrari a quelli della vera e autentica cooperazione". Lo ha
chiesto Papa Francesco a 7 mila soci della Confcooperative,
presenti oggi nell'Aula Nervi. Ad opporvi a questi furbi
disonesti, ha detto loro il Papa, "fate bene, e vi dico anche
di farlo sempre piu', perche' assumere una facciata onorata e
perseguire invece finalita' disonorevoli e immorali, spesso
rivolte allo sfruttamento del lavoro, oppure alle manipolazioni
del mercato, e persino a scandalosi traffici di corruzione, e'
una vergognosa e gravissima menzogna che non si puo'
assolutamente accettare".
"Lottate contro questo. E non con le
parole solo o con le idee: lottate con la cooperativita'
giusta, quella che sempre vince", ha esortato il Pontefice
rivolto alle cooperative bianche. Secondo Francesco,
"l'economia cooperativa, se e' autentica, se vuole svolgere una
funzione sociale forte, se vuole essere protagonista del futuro
di una nazione e di ciascuna comunita' locale, deve perseguire
finalita' trasparenti e limpide". "Non accontentatevi mai - ha
ammonito Bergoglio rivolto ai soci di Confcooperative - della
parola 'cooperativa' senza avere la consapevolezza della vera
sostanza e dell'anima della cooperazione".
rassegna stampa: AGI:IT
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UN LABORATORIO DI PENSIERO E RIFLESSIONE FATTO DAI LAVORATORI:
il diario della crisi
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sabato 28 febbraio 2015
lunedì 23 febbraio 2015
L’Eba «cancella» 8,5 miliardi di capitale
Nuova sforbiciata al patrimonio delle banche italiane (e non
solo): stando alle ultime interpretazioni diffuse ieri dall’Eba, gli
istituti non potranno computare ai fini del total capital ratio -
l’indicatore di patrimonio più sensibile ai fini di vigilanza insieme al
common equity Tier 1 - i bond subordinati Tier 2 per i quali è prevista
la possibilità di rimborso anticipato entro i primi cinque anni
dall’emissione, anche nel caso in cui la scadenza sia più ampia. Si
tratta di una sottocategoria dei titoli subordinati Tier2, di cui sono
pieni i patrimoni delle banche e che - stando alle prime stime degli
addetti ai lavori - solo per i primi 20 istituti italiani varrebbe
circa 8,5 miliardi.
La brutta sorpresa si è materializzata negli ultimi giorni. Cioè quando l’Eba, la European banking authority, ha fatto intendere che su questa particolare tipologia di obbligazioni applicherà un’interpretazione restrittiva già a partire dai conti 2014: l e comunicazioni da parte dell’Eba avvengono attraverso le banche centrali nazionali, ma secondo quanto appreso da Il Sole 24 Ore, ieri sera sarebbe arrivato il chiarimento definitivo, peraltro a poche ore dall’approvazione dei primi dati di bilancio da parte delle banche, attesi a partire da oggi; ovviamente l’interpretazione definitiva non avrà impatti sull’ultima riga dei bilanci, ma andrà a ridurre il Total capital ratio delle banche nella sua versione aggiornata al 31 dicembre scorso:
Come detto, si stima che l’impatto per i primi 20 gruppi
bancari in Italia possa essere di circa 8,5 miliardi di euro, a cui si
aggiungerebbero altri 5,3 miliardi di titoli subordinati sempre Tier 2,
che diventerebbero computabili soltanto in parte.
Marco Ferrando pagina 29
rassegna stampa: Il Sole 24 Ore 10 febbraio 2015
La brutta sorpresa si è materializzata negli ultimi giorni. Cioè quando l’Eba, la European banking authority, ha fatto intendere che su questa particolare tipologia di obbligazioni applicherà un’interpretazione restrittiva già a partire dai conti 2014: l e comunicazioni da parte dell’Eba avvengono attraverso le banche centrali nazionali, ma secondo quanto appreso da Il Sole 24 Ore, ieri sera sarebbe arrivato il chiarimento definitivo, peraltro a poche ore dall’approvazione dei primi dati di bilancio da parte delle banche, attesi a partire da oggi; ovviamente l’interpretazione definitiva non avrà impatti sull’ultima riga dei bilanci, ma andrà a ridurre il Total capital ratio delle banche nella sua versione aggiornata al 31 dicembre scorso:
Marco Ferrando pagina 29
rassegna stampa: Il Sole 24 Ore 10 febbraio 2015
domenica 22 febbraio 2015
Così la ricca Europa moltiplica i poveri
Il fatto. Una persona su 4 nella Ue e in Italia il 28% della popolazione a rischio di esclusione sociale: un frutto delle rigide politiche di austerità
La Caritas: reddito minimo e aiuti alle famiglie
I livelli insostenibili di disoccupazione e precarietà, in particolar modo giovanile, sono la causa principale di un’Europa sempre più povera, uscita con le ossa rotte dalla cura a base di austerity decisa con le politiche Ue
degli ultimi anni. È quanto sostiene il rapporto di Caritas Europa, secondo cui oltre 122 milioni di persone, nel Vecchio continente, sono a forte rischio di esclusione sociale.
Caritas: crisi Ue, aumentano i poveri
In Europa 123 milioni di persone (24,5% della popolazione), 1 su 4, sono poveri, un dato in aumento perché aggravato dalla crisi e dai tagli dei governi al sociale, che hanno provocato le conseguenze maggiori proprio sui poveri, paradossalmente arricchendo i più ricchi. Ma le possibilità e le proposte per invertire la rotta, cambiando le politiche sociali, ci sono. È la denuncia lanciata oggi da Caritas Europa e Caritas italiana, presentando a Roma il terzo rapporto sulla crisi in Europa realizzato indagando i dati in alcuni Paesi deboli (Italia, Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda, Romania, Cipro) e proponendo una lunga serie di raccomandazioni. L’Europa, che si era impegnata a diminuire il numero dei poveri entro il 2020 con la Strategia di Lisbona, al contrario ne ha aumentato il numero: “Dovevano diventare 96,4 milioni entro il 2020, ossia 20 milioni di poveri in meno”, ha precisato Walter Nanni, responsabile dell’Ufficio studi di Caritas italiana, “sono invece aumentati. Viene da chiedersi se la medicina per risanare la spesa pubblica non abbia invece ucciso il paziente”.
La Caritas evidenzia la crescita delle persone a rischio povertà gravemente indigenti, la disoccupazione soprattutto giovanile, le famiglie in cui non si lavora come si dovrebbe (aumentano lavori precari e part time), i giovani che non studiano né lavoro, la dispersione scolastica, l’impossibilità di pagare le cure mediche. “I tagli ai servizi pubblici essenziali hanno pesato sui più poveri, creando maggiori disuguaglianze”, ha sottolineato Nanni. Per Jorge Nuno Mayer, segretario generale di Caritas Europa, questo “è il risultato di scelte politiche terribili”. Dopo sette anni dall’inizio della crisi, ha fatto notare Paolo Beccegato, vicedirettore di Caritas italiana, “in tutta Europa la coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni stanno diminuendo, il rischio di razzismi e odio è in aumento”, e anche l’Italia “è un Paese più povero e meno giusto”, da cui la proposta di “una revisione complessiva del modello sociale per una migliore giustizia sociale”. Facendo riferimento al vertice dell’Ecofin in corso oggi per prendere decisioni sul debito della Grecia, Beccegato ha auspicato “che non succeda anche stavolta che i poveri debbano pagare il prezzo più alto”.
Un italiano su tre è a rischio povertà nei sette 'paesi deboli' dell'Unione Europea (Italia, Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda, Romania, Cipro). È l'allarme lanciato dalla Caritas nel Rapporto Europa sull'impatto della crisi. "Numerose situazioni di povertà o di esclusione sociale - sottolinea la Caritas - sono state provocate o aggravate dalle politiche di austerity messe in atto dai governi nazionali, in risposta alle richieste di contenimento della spesa pubblica sollecitate dall'Unione Europea".
Il rapporto della Caritas fotografa "un'Europa a due velocità": alla fine del 2013 il 24,5% della popolazione europea (122,6 milioni di persone, un quarto del totale) era a rischio di povertà o esclusione sociale (1,8 milioni in meno rispetto al 2012). Nei sette 'paesi debolì lo stesso fenomeno coinvolge il 31% della popolazione residente (+6,5 punti percentuali rispetto alla media Ue a 28). L'Italia si posiziona su valori intermedi (28,4%) mentre il valore più alto si registra in Romania (40,4%).
rassegna stampa: Avvenire 20 febbraio 2015
http://www.avvenire.it/Economia/Pagine/crisi-in-europa-aumentano-i-poveri.aspx
Caritas: crisi Ue, aumentano i poveri
In Europa 123 milioni di persone (24,5% della popolazione), 1 su 4, sono poveri, un dato in aumento perché aggravato dalla crisi e dai tagli dei governi al sociale, che hanno provocato le conseguenze maggiori proprio sui poveri, paradossalmente arricchendo i più ricchi. Ma le possibilità e le proposte per invertire la rotta, cambiando le politiche sociali, ci sono. È la denuncia lanciata oggi da Caritas Europa e Caritas italiana, presentando a Roma il terzo rapporto sulla crisi in Europa realizzato indagando i dati in alcuni Paesi deboli (Italia, Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda, Romania, Cipro) e proponendo una lunga serie di raccomandazioni. L’Europa, che si era impegnata a diminuire il numero dei poveri entro il 2020 con la Strategia di Lisbona, al contrario ne ha aumentato il numero: “Dovevano diventare 96,4 milioni entro il 2020, ossia 20 milioni di poveri in meno”, ha precisato Walter Nanni, responsabile dell’Ufficio studi di Caritas italiana, “sono invece aumentati. Viene da chiedersi se la medicina per risanare la spesa pubblica non abbia invece ucciso il paziente”.
La Caritas evidenzia la crescita delle persone a rischio povertà gravemente indigenti, la disoccupazione soprattutto giovanile, le famiglie in cui non si lavora come si dovrebbe (aumentano lavori precari e part time), i giovani che non studiano né lavoro, la dispersione scolastica, l’impossibilità di pagare le cure mediche. “I tagli ai servizi pubblici essenziali hanno pesato sui più poveri, creando maggiori disuguaglianze”, ha sottolineato Nanni. Per Jorge Nuno Mayer, segretario generale di Caritas Europa, questo “è il risultato di scelte politiche terribili”. Dopo sette anni dall’inizio della crisi, ha fatto notare Paolo Beccegato, vicedirettore di Caritas italiana, “in tutta Europa la coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni stanno diminuendo, il rischio di razzismi e odio è in aumento”, e anche l’Italia “è un Paese più povero e meno giusto”, da cui la proposta di “una revisione complessiva del modello sociale per una migliore giustizia sociale”. Facendo riferimento al vertice dell’Ecofin in corso oggi per prendere decisioni sul debito della Grecia, Beccegato ha auspicato “che non succeda anche stavolta che i poveri debbano pagare il prezzo più alto”.
Un italiano su tre è a rischio povertà nei sette 'paesi deboli' dell'Unione Europea (Italia, Portogallo, Spagna, Grecia, Irlanda, Romania, Cipro). È l'allarme lanciato dalla Caritas nel Rapporto Europa sull'impatto della crisi. "Numerose situazioni di povertà o di esclusione sociale - sottolinea la Caritas - sono state provocate o aggravate dalle politiche di austerity messe in atto dai governi nazionali, in risposta alle richieste di contenimento della spesa pubblica sollecitate dall'Unione Europea".
Il rapporto della Caritas fotografa "un'Europa a due velocità": alla fine del 2013 il 24,5% della popolazione europea (122,6 milioni di persone, un quarto del totale) era a rischio di povertà o esclusione sociale (1,8 milioni in meno rispetto al 2012). Nei sette 'paesi debolì lo stesso fenomeno coinvolge il 31% della popolazione residente (+6,5 punti percentuali rispetto alla media Ue a 28). L'Italia si posiziona su valori intermedi (28,4%) mentre il valore più alto si registra in Romania (40,4%).
rassegna stampa: Avvenire 20 febbraio 2015
http://www.avvenire.it/Economia/Pagine/crisi-in-europa-aumentano-i-poveri.aspx
lunedì 16 febbraio 2015
Fallite 15mila imprese in un anno, dal 2008 perso un milione di occupati
Nel 2014 record di chiusure aziendali: sono 82mila dall'inizio della crisi. Secondo l'osservatorio del Cerved l'aumento rispetto al 2013 è del 10,7%. Calano la procedure concursuali non fallimentari
MILANO - Nel 2014 sono fallite oltre 15mila aziende italiane, dato che fa segnare un nuovo record negativo da oltre un decennio e un aumento del 10,7% rispetto al 2013. E' quanto emerge dall'osservatorio su fallimenti, procedure e chiusure di imprese di Cerved.
Complessivamente l'anno scorso hanno chiuso i battenti 104mila aziende (-3,5% rispetto al picco toccato nel 2013), tra fallimenti, procedure concorsuali non fallimentari e liquidazioni volontarie, e sono stati persi 175mila posti di lavoro (-0,5%). Nel solo quarto trimestre dello scorso anno sono state dichiarate fallite 4.479 aziende (+7% annuo), il massimo osservato in un singolo trimestre dall'inizio della serie storica nel 2001. Dall'inizio della crisi nel 2008 le aziende fallite sono state oltre 82mila e i posti persi un milione.
Sono, invece, incoraggianti i dati 2014 sulle procedure concorsuali non fallimentari, scese del 16,4% rispetto al 2013 a quota 2.784. Contrazione dovuta soprattutto al netto calo dei concordati preventivi, scesi del 20%. Nel 2014, inoltre, sono diminuite le liquidazioni volontarie per la prima volta da quattro anni: la discesa è del 5,3% a 86mila.
"L'anno da poco concluso presenta, accanto ad aspetti negativi, anche elementi incoraggianti - ha commentato Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato Cerved - la crescita record dei fallimenti del 2014 e le conseguenze sull'occupazione riflettono l'onda lunga della crisi, dovuta a più di sei anni di recessione e debolezza economica. D'altra parte - ha aggiunto - il calo delle liquidazioni volontarie è il termometro di un ritorno di fiducia da parte degli imprenditori che fa ben sperare per i trimestri a venire".
rassegna stampa: la Repubblica 16.2.2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/02/16/news/fallite_15mila_imprese_in_un_anno_dal_2008_perso_un_milione_di_occupati-107462293/?ref=HREC1-13
MILANO - Nel 2014 sono fallite oltre 15mila aziende italiane, dato che fa segnare un nuovo record negativo da oltre un decennio e un aumento del 10,7% rispetto al 2013. E' quanto emerge dall'osservatorio su fallimenti, procedure e chiusure di imprese di Cerved.
Complessivamente l'anno scorso hanno chiuso i battenti 104mila aziende (-3,5% rispetto al picco toccato nel 2013), tra fallimenti, procedure concorsuali non fallimentari e liquidazioni volontarie, e sono stati persi 175mila posti di lavoro (-0,5%). Nel solo quarto trimestre dello scorso anno sono state dichiarate fallite 4.479 aziende (+7% annuo), il massimo osservato in un singolo trimestre dall'inizio della serie storica nel 2001. Dall'inizio della crisi nel 2008 le aziende fallite sono state oltre 82mila e i posti persi un milione.
Sono, invece, incoraggianti i dati 2014 sulle procedure concorsuali non fallimentari, scese del 16,4% rispetto al 2013 a quota 2.784. Contrazione dovuta soprattutto al netto calo dei concordati preventivi, scesi del 20%. Nel 2014, inoltre, sono diminuite le liquidazioni volontarie per la prima volta da quattro anni: la discesa è del 5,3% a 86mila.
"L'anno da poco concluso presenta, accanto ad aspetti negativi, anche elementi incoraggianti - ha commentato Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato Cerved - la crescita record dei fallimenti del 2014 e le conseguenze sull'occupazione riflettono l'onda lunga della crisi, dovuta a più di sei anni di recessione e debolezza economica. D'altra parte - ha aggiunto - il calo delle liquidazioni volontarie è il termometro di un ritorno di fiducia da parte degli imprenditori che fa ben sperare per i trimestri a venire".
rassegna stampa: la Repubblica 16.2.2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/02/16/news/fallite_15mila_imprese_in_un_anno_dal_2008_perso_un_milione_di_occupati-107462293/?ref=HREC1-13
«Contro la fame sconfiggere le inequità»
Il testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha
inviato in occasione dell’evento "Le Idee di Expo 2015 - Verso la Carta
di Milano", in programma sabato 7 febbraio alla Bicocca di Milano con la
partecipazione di 500 esperti nazionali e internazionali.
"Buongiorno a voi tutti, donne e uomini, che siete radunati oggi per riflettere sul tema: Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita.
1) Andare dalle urgenze alle priorità
2) Siate testimoni di carità
rassegna stampa: Avvenire 7 febbraio2015
http://www.avvenire.it/Papa_Francesco/Messaggi%20e%20lettere/Pagine/Videomessaggio-del-Santo-Padre-per-evento-Expo.aspx
"Buongiorno a voi tutti, donne e uomini, che siete radunati oggi per riflettere sul tema: Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita.
In occasione della mia visita alla FAO ricordavo come, oltre
all'interesse "per la produzione, la disponibilità di cibo e l'accesso a
esso, il cambiamento climatico, il commercio agricolo" che sono
questioni ispiratrici cruciali, "la prima preoccupazione dev’essere la
persona stessa, quanti mancano del cibo quotidiano e hanno smesso di
pensare alla vita, ai rapporti familiari e sociali, e lottano solo per
la sopravvivenza" (Discorso alla FAO, 24 novembre 2014).
Oggi, infatti, nonostante il moltiplicarsi delle organizzazioni e i
differenti interventi della comunità internazionale sulla nutrizione,
viviamo quello che il santo Papa Giovanni Paolo II indicava come
"paradosso dell'abbondanza". Infatti, "c'è cibo per tutti, ma non tutti
possono mangiare, mentre lo spreco, lo scarto, il consumo eccessivo e
l'uso di alimenti per altri fini sono davanti ai nostri occhi. Questo è
il paradosso! Purtroppo questo paradosso continua a essere attuale. Ci
sono pochi temi sui quali si sfoderano tanti sofismi come su quello
della fame; e pochi argomenti tanto suscettibili di essere manipolati
dai dati, dalle statistiche, dalle esigenze di sicurezza nazionale,
dalla corruzione o da un richiamo doloroso alla crisi economica"
(ibid.).
Per superare la tentazione dei sofismi - quel nominalismo del
pensiero che va oltre, oltre, oltre, ma non tocca mai la realtà - per
superare questa tentazione, vi suggerisco tre atteggiamenti concreti.
1) Andare dalle urgenze alle priorità
Abbiate uno sguardo e un cuore orientati non ad un pragmatismo
emergenziale che si rivela come proposta sempre provvisoria, ma ad un
orientamento deciso nel risolvere le cause strutturali della povertà.
Ricordiamoci che la radice di tutti i mali è la inequità (cfr Evangelii
gaudium, 202). A voi desidero ripetere quanto ho scritto in Evangelii
gaudium: "No, a un'economia dell’esclusione e della inequità. Questa
economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che
muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia
il ribasso di due punti in borsa" (ibid., 53). Questo è il frutto della
legge di competitività per cui il più forte ha la meglio sul più debole.
Attenzione: qui non siamo di fronte solo alla logica dello
sfruttamento, ma a quella dello scarto; infatti "gli esclusi non sono
solo esclusi o sfruttati, ma rifiuti, sono avanzi" (ibid., 53).
È dunque necessario, se vogliamo realmente risolvere i problemi e
non perderci nei sofismi, risolvere la radice di tutti i mali che è
l'inequità. Per fare questo ci sono alcune scelte prioritarie da
compiere: rinunciare all'autonomia assoluta dei mercati e della
speculazione finanziaria e agire anzitutto sulle cause strutturali della
inequità.
2) Siate testimoni di carità
"La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una
delle forme più preziose della carità perché cerca il bene comune".
Dobbiamo convincerci che la carità "è il principio non solo delle
micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma
anche delle macrorelazioni: rapporti sociali, economici, politici"
(ibid., 205).
Da dove dunque deve partire una sana politica economica? Su cosa si
impegna un politico autentico? Quali i pilastri di chi è chiamato ad
amministrare la cosa pubblica? La risposta è precisa: la dignità della
persona umana e il bene comune. Purtroppo, però, questi due pilastri,
che dovrebbero strutturare la politica economica, spesso "sembrano
appendici aggiunte dall'esterno per completare un discorso politico
senza prospettive né programmi di vero sviluppo integrale" (ibid., 203).
Per favore, siate coraggiosi e non abbiate timore di farvi interrogare
nei progetti politici ed economici da un significato più ampio della
vita perché questo vi aiuta a "servire veramente il bene comune" e vi
darà forza nel "moltiplicare e rendere più accessibili per tutti i beni
di questo mondo" (ibid.).
3) Custodi e non padroni della terra
Ricordo nuovamente, come già fatto alla FAO, una frase che ho
sentito da un anziano contadino, molti anni fa: "Dio perdona sempre, le
offese, gli abusi; Dio sempre perdona. Gli uomini perdonano a volte. La
terra non perdona mai! Custodire la sorella terra, la madre terra,
affinché non risponda con la distruzione" (Discorso alla FAO, 24 nov.
2014).
Dinanzi ai beni della terra siamo chiamati a "non perdere mai di
vista né l'origine, né la finalità di tali beni, in modo da realizzare
un mondo equo e solidale", così dice la dottrina sociale della Chiesa
(Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 174). La terra ci è
stata affidata perché possa essere per noi madre, capace di dare quanto
necessario a ciascuno per vivere. Una volta, ho sentito una cosa bella:
la Terra non è un’eredità che noi abbiamo ricevuto dai nostri genitori,
ma un prestito che fanno i nostri figli a noi, perché noi la custodiamo e
la facciamo andare avanti e riportarla a loro. La terra è generosa e
non fa mancare nulla a chi la custodisce. La terra, che è madre per
tutti, chiede rispetto e non violenza o peggio ancora arroganza da
padroni. Dobbiamo riportarla ai nostri figli migliorata, custodita,
perché è stato un prestito che loro hanno fatto a noi. L'atteggiamento
della custodia non è un impegno esclusivo dei cristiani, riguarda tutti.
Affido a voi quanto ho detto durante la Messa d'inizio del mio
ministero come Vescovo di Roma: "Vorrei chiedere, per favore, a tutti
coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico,
politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà:
siamo custodi della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura,
custodi dell'altro, dell'ambiente; ......................"rassegna stampa: Avvenire 7 febbraio2015
http://www.avvenire.it/Papa_Francesco/Messaggi%20e%20lettere/Pagine/Videomessaggio-del-Santo-Padre-per-evento-Expo.aspx
giovedì 12 febbraio 2015
In Italia un dipendente costa 31mila euro e ne guadagna 16mila
La differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta del lavoratore è in media al 46,7%: i contributi sociali dei datori di lavoro ammontano al 25,6% e il restante 21,1% è a carico dei lavoratori in termini di imposte e contributi. Oltre la metà dei redditi lordi tra 10 e 30mila euro
MILANO - Il costo del lavoro è sempre stata una delle problematiche che i governi italiani di ogni colore hanno detto di voler affrontare, e in questo senso qualcosa si sta muovendo. Anche perché, dicono i dati che necessariamente non tengono conto degli ultimi aggiornamenti legislativi, in Italia il costo medio del lavoro dipendente, al lordo delle imposte e dei contributi sociali, è di 30.953 euro all'anno. Il lavoratore, sotto forma di retribuzione netta, ne percepisce poco più della metà (il 53,3%), ovvero 16.498 euro. Lo rileva l'Istat, diffondendo le rilevazioni relative al 2012.
La differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta del lavoratore, il cosiddetto cuneo fiscale e contributivo, è pari, in media, al 46,7%: i contributi sociali dei datori di lavoro ammontano al 25,6% e il restante 21,1% è a carico dei lavoratori in termini di imposte e contributi. Il reddito medio da lavoro autonomo, al lordo delle imposte e dei contributi sociali, è pari a 23.432 euro annui, il reddito netto rappresenta il 69,3% del totale, (16.237 euro). Se si include anche la stima dell'Irap, le imposte sul reddito da lavoro autonomo rappresentano il 14,3% del reddito lordo, i contributi sociali il 16,4%.
L'Istat spiega che oltre la metà dei redditi lordi individuali (54%) si colloca tra 10.001 e 30.000 euro annui, il 25,8% è al di sotto dei 10.001 euro e il 17,6% risulta tra 30.001 e 70.000. Solo il 2,4% supera i 70.000 euro. In questo contesto, l'incidenza delle imposte dirette sul totale dei redditi individuali lordi (al netto dei contributi sociali) è pari al 19,4%, si attesta al 21,3% per il reddito da lavoro dipendente, al 17,5% per le pensioni e al 17,1% (Irap inclusa) per il reddito da lavoro autonomo.
Nel 2012, l'aliquota media del prelievo fiscale a livello familiare è risultata pari al 19,4%. Grazie alle detrazioni per familiari a carico, a parità di reddito le famiglie con minori usufruiscono di un più favorevole trattamento fiscale, anche al crescere del numero di percettori. Sfavorevole invece la situazione per i single sotto 64 anni: sono la tipologia familiare su cui grava il maggiore peso fiscale, con un'aliquota media del 21,6%.
Dal punto di vista geografico, il carico fiscale è inferiore tra le famiglie del Mezzogiorno (16,3%) - essendo il reddito mediamente più basso e il numero di familiari a carico più elevato - rispetto a quelle del Nord-est (19,9%) del Centro (20,1%) e del Nord-ovest (21%). Per le famiglie con un solo percettore, il più basso livello di reddito determina un'aliquota media fiscale inferiore di oltre mezzo punto percentuale (18,9%) a quella delle famiglie con due o più percettori (19,6%).
Fra il 2011 e il 2012, spiega infine l'Istat, l'aliquota media fiscale passa dal 17,9% al 18,3% per le famiglie con unico percettore di reddito se si tratta di un reddito (prevalente) da lavoro autonomo, con una crescita inferiore rispetto a quanto registrato per le restanti due tipologie di famiglie monopercettore (lavoro dipendente dal 19,5% al 20,5% e redditi non da lavoro dal 16,8% al 17,4%).
rassegna stampa: Repubblica 9 .febbrario 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/02/09/news/in_italia_un_dipendente_costa_31mila_euro_e_ne_guadagna_16mila-106873877/
MILANO - Il costo del lavoro è sempre stata una delle problematiche che i governi italiani di ogni colore hanno detto di voler affrontare, e in questo senso qualcosa si sta muovendo. Anche perché, dicono i dati che necessariamente non tengono conto degli ultimi aggiornamenti legislativi, in Italia il costo medio del lavoro dipendente, al lordo delle imposte e dei contributi sociali, è di 30.953 euro all'anno. Il lavoratore, sotto forma di retribuzione netta, ne percepisce poco più della metà (il 53,3%), ovvero 16.498 euro. Lo rileva l'Istat, diffondendo le rilevazioni relative al 2012.
La differenza tra il costo sostenuto dal datore di lavoro e la retribuzione netta del lavoratore, il cosiddetto cuneo fiscale e contributivo, è pari, in media, al 46,7%: i contributi sociali dei datori di lavoro ammontano al 25,6% e il restante 21,1% è a carico dei lavoratori in termini di imposte e contributi. Il reddito medio da lavoro autonomo, al lordo delle imposte e dei contributi sociali, è pari a 23.432 euro annui, il reddito netto rappresenta il 69,3% del totale, (16.237 euro). Se si include anche la stima dell'Irap, le imposte sul reddito da lavoro autonomo rappresentano il 14,3% del reddito lordo, i contributi sociali il 16,4%.
L'Istat spiega che oltre la metà dei redditi lordi individuali (54%) si colloca tra 10.001 e 30.000 euro annui, il 25,8% è al di sotto dei 10.001 euro e il 17,6% risulta tra 30.001 e 70.000. Solo il 2,4% supera i 70.000 euro. In questo contesto, l'incidenza delle imposte dirette sul totale dei redditi individuali lordi (al netto dei contributi sociali) è pari al 19,4%, si attesta al 21,3% per il reddito da lavoro dipendente, al 17,5% per le pensioni e al 17,1% (Irap inclusa) per il reddito da lavoro autonomo.
Nel 2012, l'aliquota media del prelievo fiscale a livello familiare è risultata pari al 19,4%. Grazie alle detrazioni per familiari a carico, a parità di reddito le famiglie con minori usufruiscono di un più favorevole trattamento fiscale, anche al crescere del numero di percettori. Sfavorevole invece la situazione per i single sotto 64 anni: sono la tipologia familiare su cui grava il maggiore peso fiscale, con un'aliquota media del 21,6%.
Dal punto di vista geografico, il carico fiscale è inferiore tra le famiglie del Mezzogiorno (16,3%) - essendo il reddito mediamente più basso e il numero di familiari a carico più elevato - rispetto a quelle del Nord-est (19,9%) del Centro (20,1%) e del Nord-ovest (21%). Per le famiglie con un solo percettore, il più basso livello di reddito determina un'aliquota media fiscale inferiore di oltre mezzo punto percentuale (18,9%) a quella delle famiglie con due o più percettori (19,6%).
Fra il 2011 e il 2012, spiega infine l'Istat, l'aliquota media fiscale passa dal 17,9% al 18,3% per le famiglie con unico percettore di reddito se si tratta di un reddito (prevalente) da lavoro autonomo, con una crescita inferiore rispetto a quanto registrato per le restanti due tipologie di famiglie monopercettore (lavoro dipendente dal 19,5% al 20,5% e redditi non da lavoro dal 16,8% al 17,4%).
rassegna stampa: Repubblica 9 .febbrario 2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/02/09/news/in_italia_un_dipendente_costa_31mila_euro_e_ne_guadagna_16mila-106873877/
mercoledì 11 febbraio 2015
La crisi che uccide: 45mila suicidi all'anno per la perdita di lavoro
Secondo uno studio della rivista Lancet e del sociologo svizzero Nordt un quinto di coloro che si tolgono la vita lo fa per problemi economici e di disoccupazione. In Italia 900 casi: "Non è una media elevata"
di FRANCO ZANTONELLI
LUGANO - Dati agghiaccianti. Arrivano da uno studio della prestigiosa rivista scientifica americana Lancet e riguardano i suicidi dovuti alla perdita del lavoro. La ricerca è stata effettuata in collaborazione con il sociologo svizzero Carl Nordt, del Dipartimento di Psichiatria dell'Università di Zurigo. "Stiamo parlando di 45 mila morti all'anno, un quinto del totale di tutti coloro che si sono tolti la vita, stando a quanto abbiamo potuto appurare, tenendo sotto controllo 63 Paesi, tra il 2000 e il 2011", spiega a Repubblica.it il dottor Nordt. Di questi 45 mila quanti sono italiani? "Circa 900, ovvero 1,7 casi per 100 mila abitanti".
La possiamo considerare una percentuale elevata? "No, se pensiamo che, ad esempio, la Lituania, con una popolazione di poco inferiore ai 3 milioni di abitanti, ha dovuto registrare 224 suicidi provocati dalla disoccupazione, quindi in percentuale quasi 10 volte più dell'Italia". Va detto, al riguardo, che nel 2010 la Lituania, a causa dei contraccolpi della crisi finanziaria, si è ritrovata con un tasso di disoccupazione del 17,9 per cento. E, visto che abbiamo accennato alla crisi, chiediamo al dottor Nordt se, nel lavoro portato avanti con Lancet, abbia notato degli sbalzi, nei periodi più duri della recessione. "In realtà la situazione è risultata essere sempre piuttosto stabile, con solo lievi oscillazioni", afferma l'esperto dell'Università di Zurigo.
Va detto, tuttavia, che una buona fetta della popolazione mondiale è rimasta fuori dallo studio di Lancet. India e Cina in particolare, non sono state prese in considerazione. In realtà Lancet ha preferito focalizzarsi sui cosidetti paesi sviluppati. Sostanzialmente sono stati esaminati i dati americani, sia del sud che del nord, quelli europei, come pure le indicazioni provenienti da alcune nazioni dell'Asia e dell'Oceania. La prossima volta si può auspicare che un maggior numero di Paesi venga esaminato, visto che, ogni anno, si stimano, nel pianeta, un milione di suicidi, contro i 225 mila di cui si è occupato il lavoro di Lancet e del dottor Nordt.
rassegna stampa: Repubblica 11.02.2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/02/11/news/suicidi_disoccupazione-107050515/?ref=HRLV-4
di FRANCO ZANTONELLI
LUGANO - Dati agghiaccianti. Arrivano da uno studio della prestigiosa rivista scientifica americana Lancet e riguardano i suicidi dovuti alla perdita del lavoro. La ricerca è stata effettuata in collaborazione con il sociologo svizzero Carl Nordt, del Dipartimento di Psichiatria dell'Università di Zurigo. "Stiamo parlando di 45 mila morti all'anno, un quinto del totale di tutti coloro che si sono tolti la vita, stando a quanto abbiamo potuto appurare, tenendo sotto controllo 63 Paesi, tra il 2000 e il 2011", spiega a Repubblica.it il dottor Nordt. Di questi 45 mila quanti sono italiani? "Circa 900, ovvero 1,7 casi per 100 mila abitanti".
La possiamo considerare una percentuale elevata? "No, se pensiamo che, ad esempio, la Lituania, con una popolazione di poco inferiore ai 3 milioni di abitanti, ha dovuto registrare 224 suicidi provocati dalla disoccupazione, quindi in percentuale quasi 10 volte più dell'Italia". Va detto, al riguardo, che nel 2010 la Lituania, a causa dei contraccolpi della crisi finanziaria, si è ritrovata con un tasso di disoccupazione del 17,9 per cento. E, visto che abbiamo accennato alla crisi, chiediamo al dottor Nordt se, nel lavoro portato avanti con Lancet, abbia notato degli sbalzi, nei periodi più duri della recessione. "In realtà la situazione è risultata essere sempre piuttosto stabile, con solo lievi oscillazioni", afferma l'esperto dell'Università di Zurigo.
Va detto, tuttavia, che una buona fetta della popolazione mondiale è rimasta fuori dallo studio di Lancet. India e Cina in particolare, non sono state prese in considerazione. In realtà Lancet ha preferito focalizzarsi sui cosidetti paesi sviluppati. Sostanzialmente sono stati esaminati i dati americani, sia del sud che del nord, quelli europei, come pure le indicazioni provenienti da alcune nazioni dell'Asia e dell'Oceania. La prossima volta si può auspicare che un maggior numero di Paesi venga esaminato, visto che, ogni anno, si stimano, nel pianeta, un milione di suicidi, contro i 225 mila di cui si è occupato il lavoro di Lancet e del dottor Nordt.
rassegna stampa: Repubblica 11.02.2015
http://www.repubblica.it/economia/2015/02/11/news/suicidi_disoccupazione-107050515/?ref=HRLV-4
sabato 7 febbraio 2015
La crisi dell'euro? Un conflitto tra capitale e lavoro
ROMA - Come avrebbe giudicato Karl Marx la crisi dell’euro? Facile: come un conflitto fra capitale e lavoro. Più sorprendente è che questa sia ormai l'interpretazione più corrente fra gli economisti anglosassoni e che ad alzare il vessillo della lotta di classe siano ambienti vicini alla City londinese, con il Financial Times in prima fila. Il ministro tedesco delle Finanze, Schaueble, maltratta il collega greco, Varoufakis, spiega che la crisi ha fatto emergere paesi "responsabili e irresponsabili" e, comunque, i problemi della Grecia sono stati generati dalla Grecia e non, certo, dalla Germania? Tutte balle. Se qualcuno è stato tanto stupido da riempirsi di debiti - è l'obiezione ricorrente, da Krugman a Stiglitz all'ultimo blogger - è perché qualcuno è stato tanto stupido da prestargli tutti quei soldi. Soprattutto, questo non è un confronto-scontro fra Germania e Grecia, fra paesi virtuosi e paesi neghittosi, fra chi ha fatto le riforme e chi non le ha fatte. Non è un conflitto nazionale, ma sociale: i lavoratori e le classi medie sia della Germania che della Grecia e degli altri paesi, contro gli azionisti e i creditori delle banche, cioè i capitalisti. Neanche Tsipras e Varoufakis sono così espliciti. La sintesi più lucida di questa intepretazione l'ha fatta un ex banchiere e professore di finanza, Michael Pettis e il Financial Times la rilancia con entusiasmo. La spia, avverte il quotidiano della City, è la produttività. I politici tedeschi parlano molto di riforme e citano con orgoglio quelle che hanno fatto loro. Tuttavia, le riforme tedesche hanno clamorosamente fallito in quello che dovrebbe essere lo scopo principale: rilanciare la produttività. Al contrario, fra il 1998 e il 2014, la produttività dei lavoratori tedeschi è cresciuta in media solo dello 0,6 per cento l'anno, un flop clamoroso, una performance peggiore non solo di Svezia e Usa, ma anche di Irlanda, Spagna e Grecia (il calcolo non include l'Italia): di fatto, la produttività tedesca dal 2007 ad oggi - riforme o no - è scesa. Cos'è successo, allora? Il punto chiave è la compressione dei salari avvenuta in Germania. I pingui profitti che ne sono risultati non sono stati investiti dalle aziende in Germania (come mostra l'andamento della produttività) ma sono stati parcheggiati nelle banche. E queste, non avendo occasione di impiego in patria, visto il ristagno degli investimenti, li hanno utilizzati all'estero, dove i tassi di interesse erano anche più interessanti.
Nasce qui il torrente di crediti tedeschi alla Spagna, alla Grecia, all'Irlanda, per finanziare soprattutto improbabili boom immobiliari. A finanziare quei boom sono stati le buste paga più magre dei lavoratori tedeschi. Quando poi è esplosa la crisi, a pagare non sono state le banche, i loro azionisti e i titolari delle loro obbligazioni (cioè chi aveva, a sua volta, prestato i soldi alle banche), dunque i capitalisti, ma i lavoratori dei paesi irrorati di crediti, con la disoccupazione di massa. E non è finita, avverte Pettis. Con quelle montagne di debiti, l'economia non può riprendere a svilupparsi. Basta guardare la Grecia che, oppressa dal pagamento degli interessi, non ha le risorse per incentivare la crescita. La strada segnata è quella di un lento assorbimento dei debiti. Ovvero, le banche risaneranno lentamente i loro conti, smaltendo quei crediti incagliati, in Grecia come in Spagna o in Portogallo, facendone pagare il costo alle classi medie, sia come depositanti, che come contribuenti.
E’ una rilettura dell'austerità, assai scomoda per la classe dirigente della Ue. Ancora più scomoda è la ricetta che ne scaturisce. In una cultura, come quella anglosassone, in cui la bancarotta è il primo passo per ripartire e non l'ultimo per uscire di scena, la crisi finirà quando sarà ristrutturato il debito. Tagliandolo, oppure con le idee creative (legare i titoli del debito alla crescita del Pil) proposte da Atene. Per radicali ex rivoluzionari, come Tsipras e Varoufakis, da Washington e da Londra scrosciano gli applausi.
(07 febbraio 2015)
di MAURIZIO RICCI
rassegna stampa: Repubblica
http://www.repubblica.it/economia/rubriche/eurobarometro/2015/02/06/news/la_crisi_dell_euro_un_conflitto_tra_capitale_e_lavoro-106702975/?ref=HRLV-6
mercoledì 4 febbraio 2015
Stiglitz: "Il problema dell'Eurozona è la Germania, non la Grecia"
04/02/2015 - Anche il premio Nobel per l'economia Josep Stiglitz ha voluto dire la sua sulle recenti dinamiche interne all'Eurozona, che dopo la vittoria di Syriza nelle elezioni politiche greche ha a che fare con il rischio default del paese ellenico. Il professore della Columbia University è infatti uno dei 18 economisti di spicco co-autore di una lettera nella quale si sostiene che l'Europa trarrebbe beneficio dal dare alla Grecia un nuovo inizio attraverso la riduzione del debito.
QUI FINANZA
ERRORI - "La Grecia ha fatto diversi errori ... ma l'Europa ha reso questi errori ancora più grandi ", ha detto Stiglitz alla CNBC. " La medicina che le hanno dato era velenosa. Ha portato il debito a crescere e l'economia a rallentare. Quella greca non è l'unica economia in difficoltà sotto l'euro e per questo è necessario un nuovo approccio - ha aggiunto Stiglitz - le politiche che l'Europa ha rifilato alla Grecia non hanno funzionato e questo è vero anche per la Spagna e altri paesi del sud Europa."
INTEGRAZIONE - "Se la Grecia lascia la zona euro starà effettivamente meglio - prosegue l'economista -. Ci sarà un periodo di adattamento. Ma la Grecia inizierà a crescere. Se ciò accade, si verificherà poi in Spagna e Portogallo, c'è una via alternativa a questa medicina tossica. Insistendo che è meglio per l'Europa e il mondo mantenere intatto l'euro, il Premio Nobel ha sostenuto che mantenere la moneta unica insieme richiede più integrazione. "C'è un programma economico incompiuto sul quale la maggior parte degli economisti concorda, tranne la Germania". (Continua sotto)
DEBITO MAI SCESO - A fare da eco a Stiglitz anche l'economista italiano, docente del Politecnico di Milano, Fabio Sdogati, che ha parlato sul proprio blog Scenari Economici (corredato da dati e grafici) del rapporto fra le politiche di austerità e il debito dei Paesi in difficoltà. Scrive Sdogati:
NON È VERO che l’austerità abbia generato il risanamento progressivo del debito pubblico e dell’economia nel suo complesso. La buona teoria economica lo diceva, lo dice e lo dirà. Il resto è ideologia.
Esistono quattro soli motori capaci di far ripartire le economie in stallo - prosegue -. Tutti, ovviamente, motori della domanda, senza la quale le imprese prima rallentano la produzione e poi dismettono (il percorso è, purtroppo, assai ben conosciuto: pur se con qualche variante, blocco degli straordinari, poi blocco del turnover, poi prepensionamenti, poi cassa integrazione... E a ogni passo lungo questo percorso la domanda cade, poiché cadono i redditi di chi lavora e spende). I quattro motori sono: le famiglie, che spendono per beni di consumo; le imprese, che spendono in beni di investimento; l’estero, cioè la domanda "loro" di produzione "nostra" al netto della domanda "nostra" di produzione "loro"; il governo".
Che famiglie e imprese spendano durante fasi di recessione che si alternano a stagnazione è, evidentemente, un qualcosa che può credere solo chi crede nel potere salvifico dei mercati come si crede a Biancaneve.
Che "loro" comprino tante nostre esportazioni è dura da credere, anche se ciò che da noi sono recessioni alternate a stagnazione da loro è solo stagnazione. Rimane solo il governo. Ma i governi europei non vogliono spendere. Non lo fanno dal 2009. E anzi hanno adottato la fede del pareggio di bilancio e della riduzione del debito. Bene: avete visto l’ammontare del debito ridursi? Ricordate il governo del professor Monti? Ricordate l’obiettivo di riduzione del debito?
rassegna stampa: Qui Finanza 4.2.2015
QUI FINANZA
ERRORI - "La Grecia ha fatto diversi errori ... ma l'Europa ha reso questi errori ancora più grandi ", ha detto Stiglitz alla CNBC. " La medicina che le hanno dato era velenosa. Ha portato il debito a crescere e l'economia a rallentare. Quella greca non è l'unica economia in difficoltà sotto l'euro e per questo è necessario un nuovo approccio - ha aggiunto Stiglitz - le politiche che l'Europa ha rifilato alla Grecia non hanno funzionato e questo è vero anche per la Spagna e altri paesi del sud Europa."
INTEGRAZIONE - "Se la Grecia lascia la zona euro starà effettivamente meglio - prosegue l'economista -. Ci sarà un periodo di adattamento. Ma la Grecia inizierà a crescere. Se ciò accade, si verificherà poi in Spagna e Portogallo, c'è una via alternativa a questa medicina tossica. Insistendo che è meglio per l'Europa e il mondo mantenere intatto l'euro, il Premio Nobel ha sostenuto che mantenere la moneta unica insieme richiede più integrazione. "C'è un programma economico incompiuto sul quale la maggior parte degli economisti concorda, tranne la Germania". (Continua sotto)
DEBITO MAI SCESO - A fare da eco a Stiglitz anche l'economista italiano, docente del Politecnico di Milano, Fabio Sdogati, che ha parlato sul proprio blog Scenari Economici (corredato da dati e grafici) del rapporto fra le politiche di austerità e il debito dei Paesi in difficoltà. Scrive Sdogati:
NON È VERO che l’austerità abbia generato il risanamento progressivo del debito pubblico e dell’economia nel suo complesso. La buona teoria economica lo diceva, lo dice e lo dirà. Il resto è ideologia.
Esistono quattro soli motori capaci di far ripartire le economie in stallo - prosegue -. Tutti, ovviamente, motori della domanda, senza la quale le imprese prima rallentano la produzione e poi dismettono (il percorso è, purtroppo, assai ben conosciuto: pur se con qualche variante, blocco degli straordinari, poi blocco del turnover, poi prepensionamenti, poi cassa integrazione... E a ogni passo lungo questo percorso la domanda cade, poiché cadono i redditi di chi lavora e spende). I quattro motori sono: le famiglie, che spendono per beni di consumo; le imprese, che spendono in beni di investimento; l’estero, cioè la domanda "loro" di produzione "nostra" al netto della domanda "nostra" di produzione "loro"; il governo".
Che famiglie e imprese spendano durante fasi di recessione che si alternano a stagnazione è, evidentemente, un qualcosa che può credere solo chi crede nel potere salvifico dei mercati come si crede a Biancaneve.
Che "loro" comprino tante nostre esportazioni è dura da credere, anche se ciò che da noi sono recessioni alternate a stagnazione da loro è solo stagnazione. Rimane solo il governo. Ma i governi europei non vogliono spendere. Non lo fanno dal 2009. E anzi hanno adottato la fede del pareggio di bilancio e della riduzione del debito. Bene: avete visto l’ammontare del debito ridursi? Ricordate il governo del professor Monti? Ricordate l’obiettivo di riduzione del debito?
rassegna stampa: Qui Finanza 4.2.2015
martedì 3 febbraio 2015
Stipendi, Paperoni irraggiungibili: per l'1% più ricco crescono del 1.500%
Nella media della vita
lavorativa, secondo una ricerca Usa, si ha un progresso del 38%. Ma gli
assegni d'oro crescono a un ritmo decisamente maggiore, rendendo
impossibile un livellamento dei redditi
di RAFFAELE RICCIARDIMILANO - Mettetevi l'animo in pace: se non siete nell'1% della popolazione che riceve gli stipendi migliori, non ci entrerete mai. A meno di scossoni, infatti, il ritmo di crescita del reddito per i 'comuni mortali' resterà una frazione di quello dei Paperoni, che così scaveranno un divario sempre maggiore rispetto al resto della popolazione.
I numeri, tarati sul quadro degli Stati Uniti, sono impressionanti: durante il ciclo di vita lavorativa, tra i 25 e i 55 anni, la popolazione sperimenta una crescita mediana dei salari del 38 per cento. Se si dividono i lavoratori in una scala fatta di 100 gradini, dal reddito più basso al più alto, quelli che stazionano al livello 95, quindi molto vicini alla vetta, vedono crescere il loro stipendio del 230 per cento. Allacciare le cinture se si ha la fortuna (e perché no il merito) di ricadere nell'1% più ricco: la prospettiva di crescita dell'assegno mensile è vicina al 1.500 per cento.
La ricerca, di cui dà conto Bloomberg, è stata pubblicata dal National Bureau for Economic Research. Uno dei quattro autori, Fatih Guvenen dell'Università del Minnesota, esemplifica: il lavoratore nel Paradiso degli stipendi (l'1% più alto) può passare da 50mila dollari di reddito a 25 anni, a 750mila dollari quando di anni ne avrà 55. La crescita media dello stipendio annuo tra 25 e 55 anni è dell'1%, ma se si è nella fascia altissima di reddito si ha il +9%: i Paperoni non solo fanno più soldi, ma anche molto più in fretta.
JOBPRICING. Il calcolatore: il tuo stipendio è giusto?
Quello che accade con la dinamica delle remunerazioni echeggia quanto Thomas Piketty ha descritto per l'intero progresso economico nel suo Capitale del XXI Secolo, il bestseller che ribalta la teoria in base alla quale il modello economico capitalistico porterebbe una riduzione delle diseguaglianze di reddito. Al contrario, per l'economista francese, visto che la rendita finanziaria è sempre superiore alla crescita economica, le poche mani che hanno accumulato molte ricchezze saranno sempre più irraggiungibili per il resto della popolazione.
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In ogni caso, spiega ancora lo studio Usa, quale sarà il destino del proprio stipendio lo si può interpretare fin dai propri anni: nella prima decina (quindi fino a 35 anni) si concentra il grosso della crescita della remunerazione, mentre una volta scavallata la soglia dei 45 in genere ci si ferma. Anche in questo caso, ci sono le eccezioni che premiano chi ha già molto: soltanto il 2% degli stipendi più pesanti continua a crescere nella fase finale della carriera.
rassegna stampa: repubblica - 3 febbraio 2015
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