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UN LABORATORIO DI PENSIERO E RIFLESSIONE FATTO DAI LAVORATORI:
il diario della crisi

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giovedì 30 ottobre 2014

Il Papa: «Terra, casa, lavoro per tutti»

Terra, casa, lavoro. Sono i tre punti fondamentali attorno ai quali è ruotato il lungo discorso di Papa Francesco ai partecipanti all'Incontro mondiale dei Movimenti Popolari, ricevuti nell’Aula Vecchia del Sinodo in Vaticano. Il Papa ha sottolineato che bisogna rivitalizzare le democrazie, sconfiggere la fame e la guerra, garantire a tutti la dignità, soprattutto ai più poveri e marginalizzati.

Quello di Francesco è stato un intervento appassionato, di speranza e di denuncia al tempo stesso. Un discorso che, per ampiezza e profondità, ha il valore, lo afferma la Radio Vaticana, di una piccola enciclica di Dottrina Sociale. Del resto, che Papa Francesco sarebbe stato particolarmente sollecitato dall’incontro con i Movimenti Popolari era naturale. In Argentina, infatti, da vescovo e poi cardinale Bergoglio era sempre stato vicino alle comunità popolari come "cartoneros" e "campesinos". In questa udienza ha dunque ripreso il filo di un impegno infondo mai interrotto. Francesco ha subito evidenziato che la solidarietà, di cui sono incarnazione i Movimenti Popolari, si trovano ad “affrontare gli effetti distruttivi dell’impero del denaro”. E ha annotato che non si vince “lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che solamente convertono i poveri in esseri domestici e inoffensivi”. Chi riduce i poveri alla “passività”, ha detto, Gesù “li chiamerebbe ipocriti”.

Quindi, si è soffermato su tre punti chiave: “Terra, tetto, lavoro. E’ strano – ha detto – ma quando parlo di queste cose per qualcuno sembra che il Papa sia comunista. Non si capisce che l’amore per i poveri è al centro del Vangelo”. Dunque, ha soggiunto, terra, casa e lavoro sono “diritti sacri”, “è la Dottrina sociale della Chiesa”. Francesco, rivolgendosi ai "campesinos", ha detto che lo preoccupa il loro sradicamento a causa “di guerre e disastri naturali”. E ha aggiunto che è un crimine che milioni di persone soffrano la fame, mentre la “speculazione finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti, trattandoli come qualsiasi altra merce”. Di qui, l’esortazione a continuare “la lotta per la dignità della famiglia rurale”.

Ha rivolto poi il pensiero a quanti sono costretti a vivere senza una casa, come aveva sperimentato anche Gesù, costretto a fuggire con la sua famiglia in Egitto. Oggi, ha osservato, viviamo in “città immense che si mostrano moderne, orgogliose e vanitose”. Città che offrono “numerosi luoghi” per una minoranza felice e però “negano la casa a migliaia di nostri vicini, compresi i bambini”. E ha rilevato con amarezza che “nel mondo delle ingiustizie, abbondano gli eufemismi per cui una persona che soffre la miseria si definisce semplicemente 'senza fissa dimora'". Viviamo in città che costruiscono centri commerciali e abbandonano “una parte di sé ai margini, nelle periferie”. Ha così elogiato quelle città dove si “segue una linea di integrazione urbana”, dove “si favorisce il riconoscimento dell’altro”.

Papa Francesco ha affrontato quindi il tema del lavoro. “Non esiste – ha sottolineato con urgenza – una povertà materiale peggiore di quella che non permette di guadagnarsi il pane e priva della dignità del lavoro”. Francesco ha citato in particolare il caso dei giovani disoccupati e ha sottolineato che tale situazione non è inevitabile, ma è il risultato “di un’opzione sociale, di un sistema economico che pone i benefici prima dell’uomo”, di una cultura che scarta l’essere umano come “un bene di consumo”.

Parlando a braccio, il Pontefice ha ripreso la "Evangelii Gaudium" per denunciare ancora una volta che a essere scartati sono bambini e anziani. E ora, ha detto ancora, c’è lo scarto dei giovani con milioni di disoccupati. Una disoccupazione giovanile, ha constatato, che in alcuni Paesi supera perfino il 50%. Tutti, ha così ribadito, hanno diritto a “una remunerazione degna e alla sicurezza sociale”.

Qui, ha detto, ci sono "cartoneros", venditori ambulanti, minatori, "campesinos" a cui sono impediti i diritti del lavoro, “a cui si nega la possibilità di sindacalizzarsi”. “Oggi – ha affermato – desidero unire la mia voce alla vostra e accompagnarvi nella vostra lotta”. Francesco ha quindi offerto la sua riflessione sul binomio ecologia-pace, affermando che sono questioni che devono riguardare tutti, “non si possono lasciare solo nelle mani dei politici”.

Anche in questa occasione, Francesco ha ribadito che stiamo vivendo la “Terza Guerra Mondiale” a pezzi, denunciando che “ci sono sistemi economici che per sopravvivere devono fare la guerra”.
“Quanta sofferenza, quanta distruzione – ha detto il Papa – quanto dolore. Oggi, si leva da tutte le parti della terra, in tutti popoli, in ogni cuore e nei movimenti popolari, il grido di pace: Mai più la guerra!”. Un sistema economico, incentrato sul denaro – ha soggiunto – sfrutta la natura “per sostenere il ritmo frenetico di consumo” e di qui derivano effetti distruttivi come il cambiamento climatico e la deforestazione.

Il Papa ha ricordato che sta preparando un’Enciclica sull’ecologia assicurando che le preoccupazioni dei Movimenti Popolari saranno presenti in essa. Il Pontefice si è dunque chiesto perché assistiamo a tutte queste situazioni. “Perché – ha risposto – in questo sistema si è scacciato l’uomo dal centro e si è rimpiazzato con un’altra cosa. Perché si rende un culto idolatrico al denaro, si è globalizzata l’indifferenza”. Perché, ha detto ancora, “il mondo si è dimenticato Dio che è Padre ed è divenuto orfano perché ha posto Dio a lato”. Il Papa ha quindi esortato i Movimenti Popolari a cambiare questo sistema, a “costruire delle strutture sociali alternative”.

Bisogna, ha ammonito, “farlo con coraggio ma anche con intelligenza. Con tenacia, però senza fanatismo. Con passione, ma senza violenza”. Noi cristiani, ha detto, abbiamo un bel programma: le Beatitudini e il capitolo 25 del Vangelo di Matteo. Francesco ha ribadito l’importanza della cultura dell’incontro per sconfiggere ogni discriminazione e ha detto che è necessario un maggior coordinamento dei movimenti, senza però dar vita a “rigide strutture”.

“I Movimenti Popolari – ha quindi affermato – esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte sequestrate da innumerevoli fattori”. E’ “impossibile”, ha ripreso, “immaginare un futuro per una società senza la partecipazione protagonista della grande maggioranza” della persone. Bisogna superare “l’assistenzialismo paternalista” per avere pace e giustizia, ha proseguito, creando “nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari” e il “loro torrente di energia morale”.

Francesco ha dunque concluso il suo discorso con un vibrante appello: "Nessuna famiglia senza casa – ha detto – Nessun campesino senza terra! Nessun lavoratore senza diritti! Nessuna persona senza la dignità che dà il lavoro”.

Tra i partecipanti all’incontro in Vaticano dei Movimenti Popolari figura anche il presidente della Bolivia, Evo Morales. Ai giornalisti, il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, ha spiegato che, in questa occasione, la visita del capo di Stato boliviano non è stata “organizzata tramite i consueti canali diplomatici” e che l’incontro “privato e informale” che Papa Francesco avrà con il presidente questa sera va considerato “un’espressione di affetto e vicinanza al popolo e alla Chiesa boliviana e un sostegno per il miglioramento dei rapporti fra le Autorità e la Chiesa nel Paese”.

rassegna stampa: Avvenire 28.10.2014
 http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/papa-francesco-incontro-movimenti-popolari.aspx


domenica 26 ottobre 2014

Il paradosso delle banche tedesche: hanno più derivati che crediti ma vengono promosse

Tutte promosse, solo la piccola o meglio minuscola quanto a dimensioni, Munchener Hypothekenbank non ha passato gli esami della Bce. Le banche tedesche escono a pieni voti dal test della verità. Tutte anche quelle Landesbank, le banche regionali, su cui molti analisti nelle simulazioni condotte prima della prova da sforzo erano dubbiosi sulla reale solidità finanziaria.
È questa la vera sorpresa uscita dalle urne della prova cui Francoforte ha sottoposto il sistema bancario europeo. Del resto era ovvio che la Germania, nonostante la recente frenata inaspettata della sua economia, era il Paese che aveva meno da temere dagli esami europei. Le banche sono pro-cicliche alla congiuntura economica: se l'economia gira, le banche continuano a prestare denaro con poco rischio, dato che le sofferenze sono ridotte al minimo. Al contrario economie in stagnazione, vedono le banche ridurre i prestiti e dover fronteggiare le perdite sui crediti che si deteriorano.
 
Ma c'è un ma in tutto ciò. Le banche tedesche non solo godono di un'economia tra le più salde, ma sono di fatto le meno esposte. È infatti il credito l'attività considerata più a rischio per una banca. Le attività finanziarie, comprare e vendere azioni, bond e commodity sono considerate meno pericolose, tanto più se gli asset finanziari, come è accaduto in questi ultimi anni salgono a dismisura. Quel capitale, calcolato dalle autorità per stabilire la solidità patrimoniale, non è parametrato all'intero bilancio ma alle sole attività a rischio, i cosiddetti Rwa.
E qui il sistema tedesco ha tutti i vantaggi dalla sua parte. Gli Rwa, le attività ponderate per il rischio, sono infatti relativamente più basse delle altre banche commerciali, in particolare quelle del Sud Europa. Le banche germaniche cioè fanno, in proporzione, meno credito e più trading finanziario.
Basti vedere i bilanci della Deutsche Bank, la più grande banca dell'eurozona e il colosso tedesco per eccellenza. Il suo bilancio complessivo è di 1.580 miliardi di euro. Ma quello considerato a rischio (Rwa) e che determina il rapporto con il capitale necessario è di soli 353 miliardi. Poco più del 20% dell'intero bilancio vale per la determinazione del capitale necessario a rendere solida la banca. Tanto per fare un confronto, la Deutsche è grande oltre due volte banche come Intesa e UniCredit, ma ha attività a rischio che sono meno delle italiane.
Basta quindi avere come nel caso di Deutsche solo 47 miliardi di capitale per superare i requisiti di forza patrimoniale. Con un rapporto tra capitale e attivo totale di solo il 3% Deutsche appare una banca più che solida. Ma solo perché oltre 1.200 miliardi di attività di bilancio sono di fatto escluse dal computo per determinare quanto capitale occorre per superare i test della Bce. Il quadro di Deutsche Bank è esemplificativo dell'intero sistema bancario tedesco.
L'altro big la Commerzbank, ha attivo a rischio per poco più di 200 miliardi, ma ha un bilancio doppio pari a 561 miliardi. E anche qui con solo 20 miliardi di capitale, la seconda banca tedesca appare più solida di banche del Sud Europa. Come se azioni, bond, derivati siano esenti dal rischio di perdite e quindi di erosione di capitale.
Una delle Landesbank considerate più in bilico dagli analisti prima degli stress test, la Hsh Nordbank ha capitale per soli 3,8 miliardi che bastano a farle superare il test, perché parametrati su un attivo a rischio (Rwa) di 38 miliardi. Peccato che l'intero bilancio della banca sia di ben 110 miliardi.
Di fatto ciò che rende più solide le banche germaniche è la loro bassa esposizione al credito, non certo l'abbondanza di capitale che anzi è tenuto ai livelli minimi indispensabili. Quel che lascia perplessi è che le attività di trading finanziario siano di fatto considerate meno pericolose. Finché i mercati salgono nessun problema per i bilanci di banche come le tedesche imbottite di Bund, azioni, titoli strutturati.
Ma i mercati non possono salire sempre. Siamo poi così sicuri che banche più propense alla speculazione finanziaria che al credito all'economia reale non siano anch'esse una minaccia sistemica?

 http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-10-26/il-paradosso-banche-tedesche-hanno-piu-derivati-che-crediti-ma-vengono-promosse-155132.shtml

venerdì 24 ottobre 2014

L'appello dei 340 economisti al premier: «Serve una nuova Bretton Woods»

@GORA' SOTTOSCRIVE L'APPELLO 
DI 340 ECONOMISTI, 
E ADERISCE ALL'INIZIATIVA DI AVVENIRE.

Ci aspettiamo che il governo italiano capisca la gravità del momento e non si accontenti di negoziare deroghe, ma proponga con forza un momento di verità chiedendo la convocazione di una conferenza per una nuova macroeconomia civile nell’Unione Europea. I temi fondamentali di discussione su cui costruire un nuovo accordo dovrebbero essere i seguenti:

1. Un ruolo molto più attivo della Bce sul modello di quanto fatto dalle banche centrali di Stati Uniti e Regno Unito che si spinga fino alle politiche di acquisto di titoli pubblici e privati.

2. È inutile costruire un’unione monetaria se non si sfrutta e capitalizza appieno il potere della sua banca centrale che è potenzialmente superiore a quello delle banche centrali nazionali. Da questo punto di vista si dovrebbero seriamente discutere progetti come il piano PADRE, che prevede un’operazione di ristrutturazione dei debiti dei paesi membri dove la Bce ne acquista la quota eccedente il 60% convertendola in titoli senza interesse che saranno ripagati negli anni dalle risorse da signoraggio spettanti a ciascun paese. Liberando di fatto importanti risorse oggi destinate al pagamento degli interessi e producendo un formidabile stimolo alla domanda interna di tutti i paesi. Con vantaggi per tutti, Germania inclusa, che vedrebbe aumentare l’acquisto dei propri beni importati dagli altri paesi membri. Piani di questo tipo potrebbero essere avviati in via sperimentale su porzioni più piccole dei debiti pubblici per verificarne gli effetti.

3. A fronte di questi vantaggi macroeconomici i paesi membri devono essere posti nelle condizioni di poter realizzare riforme di struttura sui principali assi di modernizzazione delle loro economie (infrastrutture digitali, politica industriale e di innovazione tecnologica ed organizzativa del lavoro, efficienza ed efficacia della pubblica amministrazione e della amministrazione della giustizia, protezione sociale per coloro che sono esclusi dal lavoro, contrasto alle disuguaglianze economiche e sociali divenute insostenibili e che compromettono la crescita dei sistemi economici).

4. Si procede nel frattempo alla costruzione di meccanismi in grado di contrastare le asimmetrie dell’area euro. In primis penalità non solo per paesi in deficit ma anche per paesi in surplus con obbligo a realizzare politiche di rilancio della domanda interna per contrastare le asimmetrie. In secondo luogo un sussidio europeo di disoccupazione come forma di stabilizzatore automatico che preveda in cambio prestazioni sociali o formazione per la rioccupazione per i beneficiari e sospensione in caso di non accettazione di posto di lavoro.

5. Varo di una concreta e non solo annunciata politica fiscale Ue espansiva per realizzare su scala europea investimenti pubblici e realizzare infrastrutture fisiche e digitali nei paesi membri, puntando ad un bilancio comunitario con risorse proprie ben oltre l’1% attuale (tra il 3% ed il 5%).

6. Un forte impegno verso l’armonizzazione fiscale e la riduzione delle forchette eccessive nelle aliquote nazionali sulle imprese che producono elusione fiscale ed spostamento dei profitti alterando le stesse statistiche sulla crescita. Paradisi fiscali interni all’unione non potranno essere più tollerati e le pratiche più aggressive andranno considerate alla stregua di aiuti di stato (come sembra iniziare ad essere l’orientamento comunitario in alcuni recentissimi casi).

7. Un forte impegno verso forme di unificazione politica e di partecipazione attiva dei cittadini europei alla nomina democratica dei propri rappresentanti nelle istituzioni europee non più esclusivamente su base nazionale, in maniera tale che il benessere di tutti i cittadini europei e non dei cittadini di ciascun paese membro sia posto al centro del processo decisionale in sede europea».
 
Il Comitato promotore: Leonardo Becchetti (Università di Roma Tor Vergata), Roberto Cellini (Università di Catania), Paolo Pini (Università di Ferrara), Alberto Zazzaro (Università Politecnica delle Marche).
 
Rassegna stampa: Avvenire del 22 ottobre 2014
 
 

lunedì 20 ottobre 2014

Rampini e l'economia spiegata con i Beatles


repubblica pubblica un estratto di "All you need is love", il libro di Federico Rampini tratto dallo spettacolo del giornalista che prova a raccontare la crisi attraverso le canzoni dei Fab Four

Rampini e l'economia spiegata con i Beatles6. Here Comes The Sun

"Here comes the sun /
Here comes the sun /
And I say it's all right /
Little darling, it's been a long, cold, lonely winter".

Ecco arriva il sole, ecco arriva il sole, e io dico tutto bene. Cara piccola, è stato un lungo, freddo, solitario inverno.

L'inverno del 1969 è il più triste nella storia dei Beatles. La fine della loro avventura comune è ormai vicina, e il popolo dei fan lo sa. I rapporti sono così tesi, racconta Harrison, "che andare agli studi di Apple per le registrazioni era una corvée, come andare a scuola; e poi firma qui firma lì, sembravamo dei businessmen, sommersi tra contratti e dispute legali".

 

Eppure, quando nessuno lo spera più, in mezzo a quel gelido inverno si riaccende una fiamma. Il 30 gennaio del '69 i quattro fanno una follia, un gesto che sorprende, stordisce, elettrizza i loro fan. Nel cuore di Londra improvvisano un concerto dal vivo, all'aperto, sul tetto del palazzo dove ha la sede la loro casa discografica. E' un blitz, uno happening temerario: i quattro hanno smesso di suonare dal vivo tre anni prima, nessuno si aspetta che siano ancora capaci di farlo, tantomeno che ne abbiano voglia. E senza un cachet, senza uno stadio pieno di spettatori paganti. Per di più quel giorno un vento gelido spazza Londra, la meteo invernale è proibitiva, le dita che devono suonare chitarre e pianoforte sono intirizzite, l'acustica è pessima. L'apparizione dei Beatles su quel tetto all'aperto crea lo scompiglio nel Business District, il quartiere degli affari dove ha sede Apple. E' l'ora del lunch, per la pausa pranzo molti impiegati sono già per strada. Non credono ai loro occhi. Sembra una visione, un'allucinazione. Il gruppo pop più celebre della storia, ormai sparito dalle scene e abituato a lavorare solo nel chiuso degli studi di registrazione, è in mezzo alla città che suona davanti a tutti. Proprio mentre s'intensificano voci o leggende metropolitane sulla loro dissoluzione o sulla morte di Paul, eccoli lassù in carne ed ossa, musicalmente affiatati come non mai, scatenati a interpretare pezzi sublimi come "Get Back", "Dont'Let Me Down" (tutti pieni di doppi sensi, "torna indietro", "non mi mollare", possono essere letti anche come allusioni ai rapporti fra di loro).

LEGGI Raccontare la crisi con la musica. Rampini: "Modello Beatles, una start up di successo" di ERNESTO ASSANTE

La notizia che i Beatles stanno suonando in pubblico nel cuore di Londra si sparge all'istante  -  malgrado non esistano ancora cellulari né tantomeno Internet...   -  per strada affluisce una massa di spettatori, la gente si accalca intorno per guardare e sentire l'inverosimile concerto le cui note irradiano dal tetto. Il Metropolitan Police Service è in allarme, il traffico è paralizzato, ci sono dei fan che per vedere i Beatles fanno di tutto, si arrampicano sui tetti vicini, sui cornicioni, si sporgono dalle finestre. Può succedere una tragedia. Gli agenti cominciano a "scalare" la sede di Apple per mettere fine alla follia. Quando la polizia arriva fino a loro sul tetto, i Beatles non si scompongono, continuano a suonare ancora per qualche minuto. Finché coi megafoni i poliziotti minacciano di arrestare e portar via tutto lo staff di Apple. Alla fine, l'ultimo concerto dal vivo dei Beatles, il più pazzo di tutti, sarà durato 42 minuti e finirà filmato nel documentario "Let It Be". Come uno sprazzo di calore nel gelo invernale, un guizzo di vitalità, di amore per la musica e di fantasia, in un periodo pieno di malinconia.   

Un altro scatto lo avrà di lì a poco George Harrison. All'arrivo della primavera, un giorno invece di presentarsi agli studi di Apple come da programma, sparisce. Se ne va a casa del suo amico e collega chitarrista Eric Clapton. "Per il sollievo di non vedere tutti quegli amministratori e avvocati, passeggiando nel giardino di Eric ho composto Here Comes The Sun". Diventerà, dopo "Something", la più popolare delle canzoni di Harrison. Mentre i Beatles si stanno separando, l'ultimo frutto della loro collaborazione è proprio questo: fiorisce più che mai il talento del "fratellino piccolo". George dopo essere vissuto a lungo all'ombra della coppia John-Paul s'impone a sua volta come un grande autore.

La crisi è finita!
Quante volte hanno già annunciato agli italiani, agli europei, che la crisi è finita. Per poi dover smentire le previsioni ottimistiche. L'inverno è stato davvero lungo e freddo come non mai. Ma quando arriva il sole?

L'eurozona è stata precipitata in una prima recessione "made in Usa" nel 2009; poi è ricaduta in una seconda, quindi stremata da una terza depressione. Queste ultime due crisi in rapida successione sono state fabbricate a tavolino, sono "made in Europe", perché sono il frutto delle scelte dei governi.

La forza delle ideologie può essere micidiale. Come diceva Keynes: uomini che si credono pratici e pragmatici (gli uomini di governo), sono schiavi dei preconcetti di qualche economista defunto da molti anni. E' il caso di Angela Merkel e di buona parte della classe dirigente tedesca: insistendo sull'austerity hanno finito per danneggiare perfino la Germania, la cui crescita è stata debole, penalizzata dallo sprofondamento dei suoi mercati di sbocco più vicini (Francia e Italia). Intere classi dirigenti europee, succubi della Germania, hanno continuato a raccontare la favola della Fata della Fiducia: tagliate, tagliate le spese, tagliate i redditi, alla fine questo aggiusterà i conti pubblici e grazie alla magica fiducia ricostruite nei mercati finanziari ripartiranno gli investimenti, quindi anche le assunzioni. La Fata della Fiducia è una favola ingannevole e crudele, ha fatto perdere cinque anni all'Europa, ha distrutto risorse umane che è molto difficile ricostruire. Ma le ideologie economiche possono essere come i fanatismi religiosi: impermeabili alla prova dei fatti.
(....)

Economisti "organici": è un tema troppo poco studiato, indagato. L'accademia non è un luogo neutro, uno spazio riservato esclusivamente alla libertà del pensiero. Le università americane sono le migliori del mondo anche per la ricchezza dei finanziamenti. Molti di questi sono privati, vengono dalle grandi imprese. Così come accade nella ricerca medica, le donazioni sono anche strumenti per orientare, influenzare, dirigere. Il conflitto d'interessi è pervasivo nel lavoro degli economisti, molti dei quali ricevono borse di studio e di ricerca da grandi banche e industrie private. Ma negli studi che pubblicano, nei loro libri, nei loro articoli sui giornali, nelle loro interviste televisive, non compare mai un'avvertenza al pubblico di questo tipo: "E' bene sappiate che io vengo finanziato da Goldman Sachs, Exxon, Lockheed. Le mie opinioni non riflettono necessariamente gli interessi dei miei generosi committenti. Però forse non mi conviene troppo infilargli le dita negli occhi..."
(...)

Pil vs Hdi
Una distorsione permanente delle nostre "rappresentazioni", del modo in cui leggiamo la realtà, nasce dall'uso di indicatori economici sbagliati. Il Prodotto interno lordo continua a dominare il discorso pubblico sull'economia. Una critica, celebre e appassionata, è quella espressa da Bob Kennedy. A demolire il Pil (anzi all'epoca il Pnl) è dedicato il passaggio-chiave di un discorso che Bob pronuncia all'università del Kansas il 18 marzo 1968, tre mesi prima di morire ucciso da Shiran Shiran, mentre fa campagna elettorale per conquistare a la Casa Bianca. "Per troppo tempo e in misura eccessiva  -  dice Bob Kennedy  -  abbiamo sacrificato l'eccellenza personale e i valori comunitari sull'altare di una mera accumulazione di beni materiali. Il nostro Prodotto nazionale lordo oggi è di oltre 800 miliardi di dollari. In quegli 800 miliardi sono addizionati l'inquinamento atmosferico, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze che trasportano le vittime delle stragi sulle autostrade. Aggiungiamo al conteggio il valore dei lucchetti delle porte di casa, e delle prigioni dove rinchiudiamo quelli che li hanno scassinati. Addizioniamo la distruzione delle sequoie, l'urbanizzazione caotica che distrugge le bellezze naturali. Nel Prodotto nazionale lordo ci sono il napalm (agente chimico defoliante usato nei bombardamenti del Vietnam, ndr), le testate nucleari, i blindati della polizia per combattere le rivolte nelle nostre città. Ci sono dentro le pistole e i pugnali, i programmi televisivi che esaltano la violenza per vendere giocattoli ai nostri bambini. Invece il Prodotto nazionale lordo non calcola la salute dei nostri figli, la qualità della loro istruzione, o la serenità dei loro giochi. Non include la bellezza della poesia o la solidità dei nostri matrimoni, l'intelligenza del dibattito pubblico o l'onestà dei funzionari dello Stato. Non misura il coraggio né la saggezza né l'apprendimento, non misura la carità né la dedizione agli interessi del paese. In sintesi: misura tutto, eccetto quello che rende la vita degna di essere vissuta. Ci può dire tutto dell'America, fuorché la ragione per cui siamo orgogliosi di essere americani".
(...)

Un indicatore ben più completo e utile è quello elaborato per le Nazioni Unite da Amartya Sen ed altri, lo Human Development Index (abbreviato in Hdi, indice dello sviluppo umano): misura per esempio la qualità della salute e dell'istruzione. Qualità vuol dire, nel caso della salute, per esempio l'aumento della longevità, la riduzione delle morti al parto, tutti dati oggettivi ma che non coincidono affatto con il volume delle spese. Balza agli occhi che queste sono le statistiche importanti, eppure quanti di noi ricordano di avere mai letto titoli di giornali che inneggiano a un aumento dell'indice di sviluppo umano, o lamentano un suo calo? Perché continuiamo a usare i dati sbagliati? Ne parlo proprio con Amartya Sen, il padre di questo indice, che è anche uno dei più autorevoli economisti viventi. Un personaggio singolare, indiano ma docente a Harvard, dove è l'unico ad avere insegnato tre materie: economica, matematica, filosofia. A lui chiedo perché il Pil continua ad avere un ruolo dominante. "Che la Cina possa superare gli Stati Uniti  -  mi dice Sen  -  o che l'India possa diventare la terza economia mondiale in base allo stesso criterio, io lo trovo poco significativo. Quello che conta davvero è il benessere delle persone. L'indice dello sviluppo umano, pur imperfetto, include l'istruzione che invece non entra nel Pil. Il Bangladesh ha un reddito pro capite inferiore all'India e tuttavia la speranza di vita è più lunga, la mortalità infantile è inferiore. Perché l'indice dello sviluppo umano riceve meno attenzione? Perché la sua importanza è fondamentale per i ceti più poveri. I ricchi s'interessano del Pil perché la crescita economica misurata con quell'indicatore concentra su di loro i massimi benefici. Usare statistiche alternative significa anche attirare l'attenzione su settori come le ong, il non-profit, la cooperazione, il terzo settore, di cui non si parla abbastanza".

La lezione di Sen ci riguarda tutti: la democrazia è quello che ne facciamo noi. La sua forza, la sua capacità di risolvere problemi e di fornire risultati, è direttamente legata al nostro livello di attenzione, alle priorità che le assegniamo. La sua è una grande lezione di passione civile, di senso della responsabilità civica. L'economia è una costruzione umana, è il riflesso della gerarchia di valori che decidiamo di imprimerle.
(...)

All You Need Is Love...
John Lennon la compone aggiungendoci in apertura le note della Marsigliese, il canto di "liberté, égalité, fraternité", I Beatles la cantano accompagnati da Mick Jagger, Keith Richard, Marianne Faithfull e Donovan.
"There's nothing you can do that can't be done".

Non c'è nulla di quello che tu puoi fare, che non possa essere fatto.
Sembra un inno a quello che Antonio Gramsci chiamava l'ottimismo della volontà?
I confini del possibile cambiano nella storia umana. Le dottrine economiche plasmate da potenti interessi costituiti, sono riuscite a convincerci che certe regole del gioco sono naturali, immutabili. Ci hanno abituati a pensare "dentro la scatola", in un universo senza alternative vere. E invece i confini del possibile sono determinati da noi. I nostri sistemi di valori, le nostre ideologie, stabiliscono "quello che puoi fare".

Federico Rampini
All you need is love
Mondadori 2014
288 pagine €17,00

****
Federico Rampini porterà in tutta Italia lo spettacolo da cui ha tratto il libro. Queste le prime date

23 ottobre: Teatro Cittadella Lugano h. 20.30  -  Corso Elvezia 35
24 ottobre: Politecnico di Milano h. 21 -  Piazza L. Da Vinci., aula De Donato
25 ottobre: Teatro Verdi Pordenone h. 20.45   - Viale Martelli 2
26 ottobre Teatro Comunale Monfalcone (GO) h. 20.45 -   Corso del popolo 20
28 ottobre: Teatro Cristallo Bolzano h. 21 -  Via Dalmazia 30
31 ottobre: Teatro Rossetti Trieste  20.30 -  Largo G. Gaber 1

In gennaio gli altri appuntamenti.


rassegna stampa: Repubblica, 19.10.2014
http://www.repubblica.it/cultura/2014/10/19/news/libro_rampini-98528629/?ref=HREC1-34




 

giovedì 16 ottobre 2014

Fischer contro la Merkel: “Così distrugge l’Europa”

https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=353240452088341648#editor/target=post;postID=1323319464907685005;onPublishedMenu=allposts;onClosedMenu=allposts;postNum=0;src=link
inviata a berlino 
È «deprimente» constatare che se la maggioranza della Bce non avesse seguito le decisioni di Mario Draghi ma le obiezioni dei tedeschi, a quest’ora «l’euro non esisterebbe più».  

Ed è altrettanto avvilente, per un politico di razza come Joschka Fischer, ammettere che il suo Paese sia attualmente il più grande pericolo per l’Europa. «Se non cadono i tabù tedeschi», ossia la messa in comune dei debiti e una maggiore integrazione finanziaria, e se non si esce dallo stallo provocato dalla politica dei «piccoli passi», tanto cara ad Angela Merkel e bollata come pragmatismo «pigro» e «difensivo», l’epilogo tragico è certo. «Bisogna prepararsi seriamente alla fine del progetto europeo» scrive l’ex ministro degli Esteri tedesco nel suo nuovo libro dal titolo eloquente, «Scheitert Europa?» («L’Europa fallisce?» Kiepenheuer & Witsch) che è anzitutto un durissimo atto di accusa contro la Germania della Cancelliera.  


L’ex enfant prodige dei Verdi tedeschi, figura chiave dei governi Schroeder, traccia un bilancio amaro della crisi, che ha messo in luce una verità fondamentale sulla moneta unica: era stata progettata «per il bel tempo». L’uragano della bolla immobiliare americana e lo scoppiare della Grande crisi l’hanno colta impreparata. Ma se lo tsunami da subprime ha preso piede nel Vecchio continente, è anche per l’incapacità di molti politici di capirne la portata. Un anno dopo il crash, il ministro delle Finanze Peer Steinbrueck continuava a parlare di «crisi americana». Senza accorgersi che «i lembi del suo frac stavano già prendendo fuoco», scrive Fischer, che alle sue spalle si era accesa la miccia greca. E nell’autunno caldo del 2008, Angela Merkel si rese responsabile di una decisione che contribuì secondo l’ex ministro degli Esteri ad accelerare il disastro finanziario: rifiutò una soluzione comune europea sin dall’inizio, inaugurò il triste filone dell’«ognun per sé».  

Fischer ritiene inoltre devastante l’austerità «alla tedesca», perché ha imposto ai Paesi del Sud Europa una deflazione interna dei salari e dei prezzi che avrebbe ora bisogno di essere mitigata da una «soluzione comune per tutti i debiti pregressi». Bloccando quest’opzione, Berlino sta condannando il Sud Europa alla «trappola» della spirale dei debiti, cioè a non uscire mai dalla crisi. E il politico accusa il suo Paese di avere la memoria troppo corta, in questo accanimento pedagogico contro i partner meridionali. «Sorprendente», scrive, che la Germania abbia dimenticato la storica Conferenza di Londra in cui l’Europa nel 1952 le abbonò tutti i debiti. Senza quel regalo, «non avremmo riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati», la Germania «non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miracolo economico».  

rassegna stampa: la stampa  14.10.14

martedì 14 ottobre 2014

Banche e derivati: arriva la peggiore catastrofe della storia finanziaria?

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/14/banche-e-derivati-arriva-la-peggiore-catastrofe-della-storia-finanziaria/1154750/

Banche e derivati: arriva la peggiore catastrofe della storia finanziaria?Parliamo di banche e di derivati. Tranquilli non delle nostre, sulle quali pure ci sarebbe da dire, ma di quelle made in Usa e made in Europa. Se c’è qualcosa che la storia possa insegnare è non ripetere gli errori passati. Eppure questa semplice assunzione è sempre più spesso disattesa. Quando parliamo di banche è meglio farlo con i dati alla mano (sono quelli pubblici dell’Office of the Controller of the Currency – Occ). E i dati ci dicono che il totale dell’attivo delle prime 25 banche Usa a fine giungo 2014 era di 14,1 trilioni di dollari, mentre il valore nozionale dei prodotti derivati in pancia alle stesse ammontava a 302,2 trilioni di dollari. Di questi il 58.4% erano contratti swaps e il 16.6% contratti forward, tutti Over The Counter, ovvero contratti che non passano dai listini di nessuna borsa e i cui scambi sono organizzati da alcuni attori del mercato (spesso le banche stesse). In altre parole per ogni dollaro di totale attivo, ce ne sono 21,4 di prodotti derivati. Ci si aspetterebbe che dopo la crisi finanziaria iniziata con i subprime che ha investito il mondo intero (ve la ricordate) e tutte le promesse fatte circa la regolamentazione del sistema bancario, la situazione sia migliorata. Invece è il contrario, è fortemente peggiorata: i dati al giugno 2006 indicano che l’ammontare del totale dell’attivo delle prime 25 banche made in Usa ammontava a 8,95 trilioni di dollari, mentre il valore nozionale dei contratti derivati era 124,3 trilioni di dollari, vale a dire che per ogni dollaro di attivo ne esistevano 13,9 (contro 21,4 del giugno 2014) di derivati. Detto in altri termini, la bomba Lehman Brothers non ha insegnato nulla alle banche made in Usa. Non ci vuole tanto per capire che il rischio complessivo del sistema bancario americano è decisamente maggiore oggi di quanto non lo fosse all’epoca del fallimento di Lehman. La volatilità (il rischio) di una perdita in conto capitale dei prodotti derivati è decisamente molto più elevata rispetto a quella media degli altri prodotti finanziari. E lo abbiamo visto nel picco della crisi, quando il valore di mercato di gran parte dei derivati era pari a zero.

rassegna stampa: il fatto quotidiano 14.10.14


sabato 11 ottobre 2014

Le politiche Bce senza effetto

Comperi i debiti pubblici eccedenti il 60% del pil 

La riduzione dei tassi è al massimo. 
E i soldi dati alle banche non passano poi alle imprese.
Alla recente conferenza di Napoli, il governatore centrale Mario Draghi ha ribadito l'importanza delle tre operazioni di intervento finanziario della Bce a sostegno del sistema bancario. Si tratta del programma di acquisto di derivati abs, di acquisto di covered bond (obbligazioni bancarie garantite) e il programma Ltro (piani di rifinanziamento bancario a lungo termine).
Come è noto la manovra sul tasso di interesse è ormai esaurita. Di conseguenza, ha aggiunto Draghi, con l'immissione di nuova liquidità il bilancio Bce dovrebbe risalire ai livelli del 2012 quando aveva raggiunto i 3.000 miliardi di euro circa. Il volume potenziale di nuovi acquisti sarebbe intorno a 1.000 miliardi di euro.
Ancora una vota si tratta di interventi a favore del sistema bancario europeo che poi, bontà sua, dovrebbe o potrebbe trasformali in nuove linee di credito per le Pmi e per nuovi investimenti. Questo passaggio «obbligatorio» è giustificato dalla Bce per il fatto che in Europa l'80% del credito transita attraverso il sistema bancario. Secondo noi questo passaggio è invece necessario solo per la salute delle grandi banche, sempre esposte ai rischi di nuove crisi per avere continuato a mantenere certi comportamenti speculativi e poco virtuosi anche dopo il 2008.
Un recente studio indica che, a fine luglio 2014, le 100 banche europee più esposte ai rischi sistemici avevano insieme 810 miliardi di euro in titoli ad alto rischio. Soltanto 5 banche, con la Deutsche Bank in testa, ne detengono il 39%. Le banche di Francia e Gran Bretagna insieme ne detengono il 55%. Il 4 novembre prossimo la Bce inizierà ad attuare la vigilanza diretta sui 120 maggiori gruppi bancari dell'area dell'euro, che rappresentano oltre l'85% delle attività bancarie. Per l'occasione molto probabilmente occorreranno molte «pezze finanziarie» d'appoggio!
Alla prova dei fatti i citati meccanismi finora non sono stati però capaci di mettere in moto una ripresa effettiva ne dell'economia né della domanda aggregata. Infatti, alla fine del 2013, i consumi privati erano del 2% inferiori a quelli del 2007 e gli investimenti privati erano sotto del 20%. Hanno retto soltanto le esportazioni. Nel frattempo, per alcuni paesi europei, il debito pubblico rischia davvero di diventare insostenibile. Nell'euro zona è in media il 95,5% del Pil. Qualora dovesse ancora aumentare, esso sarebbe un fardello pesante che potrebbe frenare e ulteriormente bloccare la ripresa economica. Non si dimentichi che il pagamento degli interessi passivi sul debito sottrae notevoli risorse alle politiche economiche e sociali. Nel 2013 l'Italia ne ha pagato 95 miliardi di euro.
In molte capitali europee però la ristrutturazione del debito pubblico è ancora un tabu in quanto è stata erroneamente e maliziosamente associata ad un presunto aiuto gratuito fatto dai Paesi sedicenti virtuosi a quelli cosiddetti spendaccioni. Noi riteniamo che in una tale situazione la Bce non abbia soltanto l'opzione di aiuto finanziario al sistema bancario. Essa potrebbe per esempio acquistare una parte del debito pubblico, sopra il limite del 60% del Pil indicato dai parametri di Maastricht, e tenerlo congelato al tasso di interesse zero, come indicato nel documento «Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone» preparato da economisti dell'International Center for Monetary and Banking Studies (ICMB) di Ginevra. La Bce sarebbe l'unica istituzione capace di mobilitare sufficienti risorse per una tale operazione. Se ad esempio lo si volesse fare per metà del debito pubblico europeo l'ammontare sarebbe di circa 4,5 trilioni di euro.
La Bce dovrebbe prendere in prestito una simile cifra sui mercati finanziari in cambio di sue obbligazioni, oppure creare la liquidità interna necessaria per acquistare i debiti pubblici da ritirare. Ovviamente l'operazione, almeno inizialmente, sarebbe in perdita, in quanto la Bce dovrebbe pagare gli interessi sui nuovi titoli emessi senza ricevere gli interessi dei vecchi titoli del debito pubblico dei vari Stati. Non si genererebbe inflazione in quanto la Bce chiederebbe dei prestiti, oppure la liquidità creata ed usata per l'acquisto dei debiti sarebbe poi «sterilizzata» attraverso l'emissione di obbligazioni Bce. La Bce ha una sua forte credibilità sui mercati. Per cui essa acquisterebbe parte del debito pubblico eccedente la quota del 60% in proporzione allo stock di partecipazione dei singoli Paesi europei al suo capitale. Essi ripagherebbero l'ammontare degli interessi per un periodo indefinito, lasciando nelle casse della Banca centrale il profitto che spetterebbe loro dai proventi di signoraggio che la Bce annualmente dovrebbe distribuire agli Stati. Ciò potrebbe essere sufficiente se l'intereresse sulle nuove obbligazioni emesse dalla Banca centrale fosse contenuto.
Molto probabilmente il costo complessivo di tale operazione della Bce non dovrebbe essere maggiore di quello che attualmente sostiene per finanziare il sistema bancario. In ogni caso, i costi verrebbero progressivamente assorbiti anche attraverso la presumibile crescita economica prodotta dalla capacità delle economie di operare per lo sviluppo in modo meno condizionato dai debiti e dai mercati. La Bce dovrebbe mantenere l'autorità di imporre il vecchio pagamento degli interessi sul debito ad un Paese che intendesse continuare con la pratica del debito facile.
Una simile operazione si combinerebbe perfettamente con il programma annunciato timidamente dal nuovo presidente della Commissione europea, Jean-Claude Junker, di lanciare investimenti pubblici in infrastrutture, modernizzazioni e nuove tecnologie per 300 miliardi di euro in un periodo di 3 anni. Finalmente i governi sarebbero meno dipendenti e pressati dai mercati finanziari mentre i settori dell'economia reale verrebbero stimolati da nuovi investimenti.

rassegna stampa: ITALIA OGGI  11.10.14

giovedì 9 ottobre 2014

La rivoluzione di Piketty: "Salario minimo e supertasse sugli stipendi dei manager"

"Stiamo tornando in una situazione ottocentesca"  è il  grido di allarme dell'autore del best seller "Il Capitale del XXI secolo" che ha denunciato la crescente disuguaglianza tra ricchi e poveri.  Suggerisce alcune soluzioni per evitare che la divaricazione tra capitale e reddito si accentui ancora di più. "Sanzioni commerciali contro gli Stati che aiutano gli evasori".

 Thomas Piketty, economista e professore
 alla Ecole des hautes études en sciences 
 sociales (Parigi)

La rivoluzione di Piketty: "Salario minimo e supertasse sugli stipendi dei manager" MILANO - La barba non ce l'ha e il soprannome di novello Marx affibbiatogli dall'Economist se lo è aggiudicato con il titolo del suo libro "Il capitale del XXI secolo" (Bompiani) e con il merito di aver riportato il dibattito economico sulle disparità tra ricchi e poveri. Un divario che l'economista francese giudica incolmabile perché chi è nato ricco o è diventato ricco, grazie a un matrimonio fortunato o a un superstipendio, difficilmente vedrà il proprio capitale ridursi. Anzi diventerà sempre più ricco perché il rendimento del capitale è superiore alla crescita dell'economia reale (Pil) e del reddito, con buona pace di chi vive di solo stipendio. Per di più, in uno scenario come quello europeo, in cui l'economia non cresce, sarà facilissimo per chi vive di rendita mantenere la propria posizione di preminenza. La via d'uscita suggerita da Thomas Piketty è la tassazione progressiva dei grandi patrimoni accompagnata da una politica almeno europea, se non mondiale, capace di smascherare chi vuole celare la propria ricchezza. Come? Con una lotta senza quartieri ai paradisi fiscali e con norme severissime sull'evasione.
Per lei la crescita della ricchezza di pochi a danni di molti è inarrestabile perché il capitale cresce sempre più in fretta dell'economia reale. "Non importa quanto lavori, qualunque carriera non potrà mai eguagliare un buon matrimonio". Come si potrebbe ridistribuire la ricchezza?
"Il problema è che le nostre economie occidentali non si muovono verso una maggiore uguaglianza, le spinte verso la socialdemocrazia e la ridistribuzione del Novecento sono state un'eccezione e un'illusione, quello che ci aspetta è il ritorno a un capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Balzac in cui non importa quanto tu possa lavorare duro: la ricchezza non si accumula, si eredita. Il paradosso del matrimonio rappresenta una visione cinica della vita, ma per quanto uno studente possa investire sul suo futuro non potrà mai raggiungere la ricchezza di chi ha ereditato un patrimonio. E così se la sua ambizione è diventare ricco, farà meglio a sposare una ragazza senza qualità, né bella né intelligente, ma molto ricca. L'unica soluzione è quella di ripristinare la meritocrazia, altrimenti nei Paesi a crescita demografica vicina allo zero o negativa le eredità avranno un peso sempre maggiore".
Una forma di ridistribuzione potrebbe essere il salario minimo: è davvero utile o è solo una battaglia d'immagine che rischia di livellare gli stipendi verso il basso?"Il salario minimo serve davvero. È un ottimo strumento per avviare la ridistribuzione del reddito, ma da solo non basta. Resto convinto che servano soprattutto investimenti nella formazione dei lavoratori, altrimenti il provvedimento resterebbe lettera morta e si avrebbe un livellamento verso il basso. Di certo bisogna trovare nuove formule di negoziazione contrattuale. E anche il ruolo dei sindacati è destinato a cambiare."
I rappresentanti dei lavoratori sono ancora importanti? In Italia sono spesso all'angolo.
"Io credo siano molto importanti, basterebbe guardare al ruolo che hanno in Germania con la cogestione e la presenza all'interno dei consigli di amministrazione delle aziende. Servono leggi che aumentino le responsabilità dei rappresentati dei lavoratori, in modo da renderli anche più consapevoli. In Francia è stata approvata una legge in questo senso, ma gli imprenditori si sono ribellati e così ai rappresentati dei lavoratori nei consigli di amministrazione spetta solo un posto ogni venti consiglieri: una legge così non serve a molto".


La rivoluzione di Piketty: "Salario minimo e supertasse sugli stipendi dei manager"Dal salario minimo, al tetto di 240mila euro agli stipendi per i manager pubblici. Può servire?
"Certo, ma non solo nel settore pubblico. Un provvedimento del genere, però, ancora una volta, andrebbe coordinato a livello europeo. Oltre certo soglie alcuni stipendi non hanno proprio senso. E poi non si può valutare un manager solo sulla base dei risultati in Borsa e sull'utile. Andrebbe valutato anche per il numero di posti di lavoro che crea per esempio".
Per Adriano Olivetti "nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario minimo". Lei ha mai pensato quale dovrebbe essere il giusto rapporto?
"No, ma penso che l'intervento migliore sarebbe sul livello di tassazione. Negli Stati Uniti, tra il 1930 e il 1980, il tasso marginale d'imposta sui redditi più elevati è stato in media all'82% con punte superiori al 90% e di certo non ha ucciso il capitalismo americano, anzi la crescita economica di quegli anni è stata molto più forte che dal 1980 a oggi. Quando è arrivato Ronald Reagan e il tasso marginale è passato dal 1980 al 1988 dal 70% al 27%".
Il governo Renzi si gioca molto sulla riforma del lavoro: salario minimo, contratti a tempo indeterminato, ma anche revisione dell'articolo 18 e quindi licenziamenti più facili. Come giudica la proposta?
"Non conosco abbastanza bene le leggi italiane sul lavoro, ma è evidente che troppa rigidità non funziona, così come non funziona troppa flessibilità. Serve sempre il giusto equilibrio, ma non possiamo pensare che l'alto livello di disoccupazione in Europa  -  e in Italia  -  sia colpa delle regole: il problema è nelle politiche economiche. Senza investimenti non si crea fiducia e non si cresce. Di certo la stabilizzazione dei lavoratori aiuterebbe la ripresa dei consumi e gli investimenti delle imprese sulla formazione".
Nella Legge di Stabilità italiana ci saranno due miliardi per la riduzione delle tasse sul lavoro e un miliardo per la scuola. Sarà inserita pure una quota aggiuntiva di 1,5 miliardi per estendere gli ammortizzatori sociali. E' la strada giusta?
"Di certo è meglio dell'austerity. E' un segnale importante, perché si torna a spendere e la crescita si fa con gli investimenti, ma purtroppo la soluzione non può arrivare solo dall'Italia perché questo non è un tema solo italiano. La crescita della Germania sta rallentando e l'Europa è ferma, c'è stata troppa austerity. Serve un cambio di regole a livello europeo: tutto è incentrato sui parametri di Maastricht che sono stati decisi a priori senza un voto del Parlamento. All'Eurozona serve fiducia e senza democrazia non ci può essere fiducia".
Sta dicendo che i parametri di Maastricht su debito e deficit sono sbagliati?
"Sto dicendo che sono stati fissati in modo sbagliato, senza un intervento del Parlamento europeo. E poi sono convinto che l'Eurozona vada ripensata. Come possiamo avere una moneta unica e poi 18 deficit diversi, 18 debiti pubblici diversi? Come è possibile creare fiducia quando ci sono Paesi che pagano meno dell'1% di interessi sul loro debito pubblico e altri che ne pagano il 4 o 5%? A questi livelli di debito l'uno percento in più o in meno equivale a un punto in più o meno di Pil: stiamo parlando di più dell'intero budget destinato alle scuole e alle università francesi. Gli Stati devono capire che se vogliono creare fiducia non possono più fissare paletti in anticipo senza che ci un voto del Parlamento europeo".
Nel suo libro, lei chiede più trasparenza sui redditi e sulla ricchezza privata, in modo da mettere i governi in grado di contrastare la disuguaglianza tra ricchi e poveri. Come si potrebbe ottenerla in un'Europa i cui principali Stati hanno tutti un piccolo paradiso fiscale a disposizione?
"Ancora una volta la risposta è la stessa: serve un'azione coordinata di tutti i Paesi per ridurre questa patina di opacità. Eppure qualcosa sta cambiando. In Svizzera è caduto il segreto bancario e la Ue sta attuando una stretta sull'elusione fiscale. Mi spiace solo che per arrivare a questo punto si siano dovute aspettare le sanzioni degli Stati Uniti nei confronti delle banche svizzere, altrimenti, probabilmente non sarebbe successo nulla. Bisognerebbe istituire della sanzioni commerciali sia per i Paesi che per i soggetti che sfruttano queste falle nel sistema".
Davvero solo una guerra potrebbe allentare la disuguaglianza tra ricchi e poveri?
"No, una guerra no, ma delle pesanti sanzioni commerciali sì".
Per molti il suo libro è un manifesto politico. Ha ambizioni di questo tipo?
"No, assolutamente. La mia ambizione è studiare e scrivere. Ho il massimo rispetto per chi fa politica, ma non è il mio mestiere. Voglio cercare di far circolare le idee: credo che sia il miglior modo in cui posso aiutare la democrazia".
Lei però è diventato il simbolo del movimento 99% e di Occupy...
"Non so se sono un simbolo, mi fa piacere però pensare di aver contribuito a creare coscienza e conoscenza. Il mio intento era quello di scrivere un libro accessibile a tutti, un libro democratico che raccontasse la verità".

rassegna stampa: Repubblica 8.10.2014


mercoledì 8 ottobre 2014

Fmi: Vinals, crescenti eccessi nell'assunzione di rischi finanziari



Fmi: Vinals, crescenti eccessi nell'assunzione di rischi finanziariI legislatori si trovano a fare i conti con un nuovo squilibrio globale: non sufficiente assunzione di rischi a sostegno della crescita ma crescenti eccessi nell'assunzione di rischi finanziari. Lo sostiene Josè Vinals, consigliere finanziario del Fondo monetario internazionale, nel testo del discorso preparato per la presentazione del primo capitolo del Global Financial Stability Report pubblicato oggi. L'esperto invia altri due messaggi: riconosce che le banche sono "più sicure" ma potrebbero non essere forti a sufficienza per sostenere la crescita. E lo spostamento del rischio verso il settore bancario ombra (che alza i rischi di mercato e liquidità), se non affrontato, potrebbe "compromettere la stabilità finanziaria globale". Ecco perché, aggiunge, Vinals, "dobbiamo promuovere l'assunzione di rischi economici migliorando la trasmissione della politica monetaria all'economia reale". Gli eccessi finanziari vadano risolti con politiche micro e macroprudenziali. 

rassegna stampa: Milano Finanza 8.10.14

sabato 4 ottobre 2014

Fmi: 'I banchieri restituiscano i bonus se loro decisioni hanno causato danni' - Il Fatto Quotidiano

Fmi: 'I banchieri restituiscano i bonus se loro decisioni hanno causato danni' - Il Fatto Quotidiano
Fmi: “I banchieri restituiscano i bonus se loro decisioni hanno causato danni”

Washington sostiene che "i compensi degli alti dirigenti devono essere allineati in modo più appropriato" fino a rendere quanto assegnato per le perdite causate da decisioni sbagliate o troppo rischiose 

Fmi: “I banchieri restituiscano i bonus se loro decisioni hanno causato danni”I top manager bancari dovrebbero restituire i bonus ricevuti se i dirigenti hanno causano danni a lungo termine con decisione sbagliate e troppo rischiose. Lo sostiene il Fondo monetario internazionale in uno dei capitoli analitici dell’aggiornamento del Global Financial Stability Report. Il Fondo sottolinea che “vi è un ampio consenso sul fatto che i rischi eccessivi presi dalle banche abbiano contribuito alla crisi finanziaria globale” e per questo “sono in corso riforme per rafforzare ulteriormente il quadro normativo, riallineare gli incentivi e favorire un comportamento prudente dei banchieri”.
“La riforma della finanza ha fatto molto per migliorare gli standard di governance e di compenso dei manager ma in alcune aree è necessario fare di più, rendendo i compensi dei manager più sensibili ai rischi di default e più dipendenti ai risultati di lungo termine”, mette in evidenza Gaston Gelos, responsabile della divisione sulla Stabilità Finanziaria Globale del Fmi. “I banchieri dovrebbero essere premiati per la creazione di valore di lungo termine, non per le scommesse di breve termine. Anche se assumere una dose salutare di rischi è parte della mission della banca, qualche volta ne vengono assunti di più di quanto non sia socialmente desiderabile”.
Le pratiche salariali, raccomanda ancora Washington, “devono riflettere appieno i rischi che i banchieri prendono”. I risultati dell’analisi del Fondo “mostrano che le banche con membri del consiglio che guadagnano indipendentemente dalla gestione si assumono meno rischi”. Nel rapporto si sostiene che i compensi dei top manager devono essere allineati “in modo più appropriato” con “metodi di differimento delle compensazioni” e anche con delle vere e proprie “restituzioni” di quanto assegnato come bonus di risultato.
“I compensi dei banchieri e la governance devono essere migliorati se si vuole un sistema finanziario più sicuro”, afferma ancora il Fmi, sottolineando che i compensi dei manager dovrebbero essere adeguati al rischio e nei consigli di amministrazione dovrebbero sedere amministratori indipendenti e si dovrebbe valutare la possibilità di dare accesso ai creditori nei cda: “La trasparenza è essenziale per la responsabilità e l’efficacia della disciplina di mercato”.
Dopo essere calati in seguito alla crisi, i compensi degli amministratori delegati hanno recuperato, mette in evidenza ancora il Fondo, precisando che il ruolo degli incentivi di lungo termine è in aumento. La quota degli amministratori indipendenti  è cresciuta sia in Europa che negli Stati Uniti così come il ruolo delle funzioni legate al rischio.

rassegna stampa:  Il Fatto Quotidiano 1 ottobre 2014


giovedì 2 ottobre 2014

Conti pubblici, Padoan: “Caduta Pil Italia superiore a Grande depressione ’29″

Il governo garantisce a Bruxelles che se le sue ricette non funzioneranno, nel triennio 2016-18 saranno chiesti agli italiani oltre 50 miliardi di euro. Il ministro dell'Economia in calce alla nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza: “L'area dell’euro è a un bivio, occorre muovere con decisione su più fronti nella consapevolezza che in assenza di una ripresa robusta la tenuta del tessuto produttivo e sociale risulterebbe a rischio, la ricchezza delle famiglie minacciata, le prospettive dei giovani compromesse”. Tutti i conti che hanno portato al rinvio del pareggio di bilancio


Conti pubblici, Padoan: “Caduta Pil Italia superiore a Grande depressione ’29″“In termini cumulati la caduta del Pil in Italia è superiore rispetto a quella verificatasi durante la Grande depressione del ’29”. E’ la conclusione a cui è arrivato il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, con l’aggiornamento del Documento di economia e finanza. “L’area dell’euro è a un bivio”, aggiunge il ministro sottolineando che i Paesi in assenza di interventi “rischiano di avvitarsi in una spirale di stagnazione e deflazione”. Quindi “occorre muovere con decisione su più fronti nella consapevolezza che in assenza di una ripresa robusta la tenuta del tessuto produttivo e sociale risulterebbe a rischio, la ricchezza delle famiglie minacciata, le prospettive dei giovani compromesse”. Dal canto suo l’Italia mette un punto fermo sugli impegni presi garantendo fin da ora che se non ce la farà nel 2015, l’anno successivo i soldi mancanti saranno chiesti ai contribuenti e scatteranno in automatico gli aumenti dell’Iva e delle altre imposte indirette per un controvalore di 12,6 miliardi sul 2016, 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. 
L’impegno è scritto nero su bianco in coda alla nota di aggiornamento del Def approvata dal Consiglio dei Ministri di martedì sera, dove si certifica che a peggiorare le attese sui conti pubblici c’è innanzitutto un apporto meno ricco del previsto dalle cosiddette privatizzazioni per un peso inferiore alle stime calcolabile in 0,4 punti di Pil nel 2014, al quale si somma un fabbisogno che sarà superiore di 0,7 punti rispetto alle previsioni. Sono queste, insieme alla minor crescita, due componenti che – secondo quanto riportato nel Documento di economia e finanza (Def) – porteranno il debito pubblico a fare un salto di 3,7 punti rispetto al 2013. Il governo rassicura comunque che, per quanto riguarda le privatizzazioni – il cui controvalore quest’anno si fermerebbe quindi a 0,3 punti di Pil (circa 4,8 miliardi) – torneranno a contare per 0,7 punti di Pil annui dal 2015. 
Ma come verranno finanziate le promesse e gli impegni di spesa presi dal governo in questi mesi, dal bonus Irpef di 80 euro alla riduzione dell’Irap per le imprese fino ai nuovi ammortizzatori che dovrebbero andare di pari passo con la riforma del lavoro contenuta nel Jobs Act? Sorpresa: “Solo parzialmente con riduzioni di spesa”, cioè la grande operazione di spending review a cui il commissario Carlo Cottarelli ha lavorato fino a quando il presidente del Consiglio lo ha “accompagnato all’uscita”. La Nota di aggiornamento ammette infatti esplicitamente che gli “interventi strutturali” previsti dalla prossima legge di Stabilità saranno coperti in gran parte ampliando il deficit. Quello “tendenziale” si attesterebbe, nel 2015, al 2,2% del Pil. Ma il governo intende farlo salire fino al 2,9 per creare, appunto, “spazi per ridurre in modo permanente la pressione fiscale per le famiglie con redditi da lavoro medio-bassi e per le imprese”. “Spazi” non da poco: una differenza dello 0,7% del Pil vale intorno agli 11 miliardi. Circa metà, dunque, di quanto necessario per finanziare la Stabilità. Da notare, tra l’altro, che quel margine di manovra si è aperto solo perché, per fattori esterni al controllo del governo, quest’anno la spesa per interessi sul debito pubblico sarà più bassa del previsto: 76,7 miliardi contro gli 82,6 stimati nel Def dello scorso aprile. Merito delle misure messe in campo dalla Banca centrale europea, che hanno contribuito a ridurre le tensioni sui mercati, e della nuova metodologia di contabilità pubblica Esa 2010.
Quanto agli effetti delle riforme, Padoan ostenta grande fiducia in quella del lavoro: “La rete di ammortizzatori sociali verrà rafforzata e resa più inclusiva. Le imprese potranno gestire in maniera più efficiente l’attività produttiva reagendo con maggior prontezza alle evoluzioni cicliche”, scrive il ministro nella nota. Peccato che, si legge in un “focus” sull’impatto delle riforme stesse sulla crescita, l’esecutivo abbia dovuto “rivedere le stime” sugli effetti macroeconomici “per tener conto dei ritardi nell’approvazione dei provvedimenti attuativi“. Di conseguenza nel 2015 le riforme programmate dal governo avranno un effetto sul Pil di soli 0,4 punti anziché 0,7 come ipotizzato in precedenza. Per vedere un effetto importante, di +3,4 punti, bisognerà aspettare il 2020. E solo nel “lungo periodo” si arriverà a 8,1 maggiori punti di crescita. In particolare dalla riforma della Pubblica amministrazione sono attesi 0,1 punti nel 2015 (contro 0,2 previsti nel Def di aprile), 3,4 nel 2020 e 8,1 nel lungo periodo, dalle misure per la competitività si va da 0,1 del 2015 a 3,2 del lungo periodo e dalla riforma della giustizia 0,1 nel 2015 e 1,0 nel lungo periodo. E gli interventi sul lavoro, su cui tanto punta Matteo Renzi? La Nota stima l’effetto in un +0,1 nel 2015, contro il +0,3 stimato in precedenza, +0,9 nel 2020 e +1,6 nel lungo periodo.
Questo, in sintesi, il documento, che termina con dettagliatissime risposte ai rilievi Ue, fa slittare il pareggio di bilancio al 2017 e punta sui tagli di spesa.In coda a tutto, per rassicurare i “guardiani” di Bruxelles, la clausola di salvaguardia sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette. Una stangata che si punta ad evitare ma che vale complessivamente oltre 50 miliardi nel triennio 2016-18 e sarà contenuta nella legge di Stabilità. L’anticipazione è stata inserita in risposta alle raccomandazioni Ue, a garanzia degli obiettivi di medio termine. Ipoteca sul futuro a parte, la manovra d’autunno conterrà una misura per il calo delle tasse che dovrebbe attestarsi tra i 20 e i 22 miliardi di euro. Per allentare la pressione fiscale servono all’incirca 10 miliardi (7 per confermare il bonus degli 80 euro e altri 2 circa per la nuova riduzione in favore delle imprese). Il menù includerà poi, l’allentamento del patto di stabilità interno (per 1 miliardo), risorse per la scuola (1 miliardo) e per i nuovi ammortizzatori sociali (1,5 miliardi). Ci sono poi da coprire le spese indifferibili (tra i 4 e i 5 miliardi) e 3 miliardi per evitare il taglio lineare degli sconti fiscali, eredità del governo Letta. Oltre a un aggiustamento dei conti, ridotto rispetto alle attese in virtù dello slittamento del pareggio di bilancio al 2017, ci sarà, si legge nel Def, una “variazione positiva saldo strutturale di 0,1 punti percentuali di Pil”, circa 1,5 miliardi. 


mercoledì 1 ottobre 2014

Fmi: le «banche ombra» valgono più del Pil di Usa, Europa e Cina

Lo shadow banking vale oltre 60.000 miliardi di dollari a livello mondiale, più del Pil di Stati Uniti, Unione Europea e Cina messi insieme. Il calcolo è contenuto nel Rapporto sulla stabilità finanziaria globale del Fondo monetario internazionale, secondo cui il dato si muove tra i 15 e i 25 trilioni di dollari negli Stati Uniti, tra i 13,5 e i 22,5 trilioni di dollari nell'area dell'euro, tra i 2,6 e i 6 trilioni di dollari in Giappone e intorno ai 7 trilioni nei Paesi emergenti, dove «il suo ritmo di crescita sta superando quello del sistema bancario tradizionale».
Secondo Gaston Gelos, direttore della divisione per l'analisi finanziaria globale del Fondo, «gli stessi fattori guidano la crescita dello shadow banking nei diversi Paesi». In particolare, sottolinea, il fenomeno «tende a decollare quando si mettono in campo regolamentazioni bancarie stringenti, che spingono all'aggiramento delle regole. Inoltre, cresce quando i tassi di interesse e gli spread sui rendimenti sono bassi e gli investitori cercano ritorni piu' alti e quando c'è un’ampia domanda istituzionale per attività sicure, per esempio da compagnie assicurative e fondi pensione».
In totale, calcolano i tecnici dell'istituto di Washington, lo shadow banking conta per circa un terzo del rischio sistemico complessivo negli Stati Uniti, piu' o meno come il sistema bancario tradizionale. Il peso è invece più basso in Gran Bretagna e nella zona dell'euro che «hanno ancora sistemi fiannziari piu' bancocentrici». Tra i paesi emergenti, avverte il Fondo, «uno stretto monitoraggio» merita la Cina dove lo shadow banking arriva a una quota compresa tra il 35 e il 50% del Pil e cresce a un ritmo del 20% annuo».
Anche lo shadow banking, però, «può avere effetti benefici». In particolare, «allarga l'accesso al credito, specialmente nelle economie emergenti, dove la rete bancaria tradizionale trova speso freni regolamentari o di capacità». Nelle economie avanzate, «molti fondi hanno provveduto a fornire credito a lungo termine al settore privato mentre le banche riducevano i loro finanziamenti». Lo shadow banking, inoltre, «puo' migliorare l'efficienza del sistema finanziario, rafforzando la liquidita' del mercato e la condivisione dei rischi».
Il Fondo invita i Paesi a monitorare il fenomeno e sottolinea che «il grado di di supervisione e regolamentazione dovrebbe dipendere da quanto esso contribuisce al rischio sistemico». Ma «cruciale», avverte il rapporto, e' «la cooperazione internazionale». I rischi infatti «aumentano quando le iniziative regolamentari sono realizzate soltanto da pochi Paesi o quando sono poco coordinate. Una stretta regolamentare in un Paese, per esempio», conclude l'Fmi, «potrebbe portare alla migrazione delle attivita' in un altro Paese dalle regole piu lassiste».


rassegna stampa: Il Sole 24 Ore 1 ottobre 2014