
I n Italia, dove la differenza è più marcata e pari a 16 punti
percentuali, le Banche di credito cooperative nel triennio 2010-2013
hanno erogato 6,3 miliardi in più di credito (contro il calo di 52
miliardi del resto del sistema).
Insomma, nella realtà accade esattamente il contrario di quanto sarebbe
fiorito sulla bocca e nella testa di Renzi: sono le banche piccole,
una-persona- un voto e legate al territorio, che fanno più creditoe non viceversa.Viene
da pensare che qualche voce interessata possa aver suggerito
all’orecchio del premier che 'grande è bello'. Noi gli ricordiamo
invece che la storia finanziaria recente insegna che la crisi
finanziaria globale, quella che stiamo ancora pagando, è stata causata
dalle banche 'troppo grandi per fallire' e troppo complesse per essere
regolate. Gli ricordiamo che sono state le grandi banche
multinaziona-li, tecnicamente fallite, che hanno rischiato di
trascinarci tutti nel baratro. Gli ricordiamo che sono state salvate
dagli Stati con alchimie contabili (passaggio da valori di mercato a
valori di libro) e che le loro scommesse sono state pagate negli anni
successivi dalla finanza pubblica degli Stati, e dunque dai cittadini. E
gli ricordiamo, infine, che in una recente audizione davanti alla
Commissione europea è purtroppo emerso con chiarezza come quelle
stesse megabanche si stiano facendo beffe della nuova regolamentazione,
con requisiti di capitale formalmente ineccepibili che sono in realtà
'abbelliti' da cartolarizzazioni e metodi di rating interno a fronte
di rapporti grezzi tra debito e capitale proprio che sono preoccupanti e
ormai simili a quelli pre-crisi.
Prima
del prossimo Consiglio dei ministri sarebbe utile che ai nostri
governanti i rileggere i passi salienti del Rapporto Liikanen, curato
da esperti della Ue, dove si spiega molto bene come le grandi banche
aumentano i rischi sistemici e di come le banche cooperative e popolari
sono invece fondamentali per il sistema e le loro crisi sono molto
meno gravi perché proprio la ridotta dimensione consente che la crisi
sia assorbita endogenamente dalla stessa rete che creano. Il numero e
la dimensione ottimale delle banche popolari o cooperative di un sistema
non è, pertanto, qualcosa da stabilire con il tratto di penna di un
decreto, ma il frutto ottimale di aggiustamenti di un organismo che ha
in sé già strumenti (e li sta usando)per autoemendarsi.Il
vero problema, in un mondo dove mettere a disposizione denaro è
diventato un’attività a basso rendimento (per via della forte
concorrenza) e ad alto rischio, è che banche tese a massimizzare il
profitto non hanno alcun interesse a far credito e ne fanno
effettivamente sempre meno rispetto all’attività di trading o puramente
finanziaria che rende di più e consente di portare più valore agli
azionisti. Secondo questa impostazione, piuttosto che prestare risorse a
famiglie e imprese, è meglio trasformare lo sportello in un 'emporio'
dove si vende di tutto: assicurazioni, polizze, schermi piatti... Solo
le banche una-persona-un-voto, quelle con vocazione specifica al
credito, si dimostrano capaci di mantenere la loro mission originaria. E
la questione è così lancinante che una delle voci più autorevoli del Financial Times,
Martin Wolff, è arrivato addirittura a domandarsi se la banca non vada
resa nuovamente pubblica per essere sottratta alla logica della
massimizzazione del profitto che l’allontana dal credito. Ma questa è
un’altra conclusioneesagerata. Basta
molto meno. Basta lasciar perdere – se davvero sono coltivate –
fantasie di riforma radicale e guardare invece ai progetti di legge di
separazione tra banca commerciale (che supporta l’economia reale) e
banca d’affari (che supporta la speculazione finanziaria) orientati a
ricondurre il sistema bancario alla vocazione originale. Altro che
abolizione del sistema capitario.
di Leonardo Becchetti
rassegna stampa: Avvenire 18 gennaio 2015
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