@GORA' :

@GORA' :

UN LABORATORIO DI PENSIERO E RIFLESSIONE FATTO DAI LAVORATORI:
il diario della crisi

Post più popolari

martedì 27 gennaio 2015

Oxfam: “Nel 2016 l’1% della popolazione sarà più ricco del restante 99%”

di | 19 gennaio 2015
“Nel 2016 più della metà della ricchezza globale sarà in mano all’1% della popolazione del mondo”. A dirlo è il rapporto Grandi disuguaglianze crescono di Oxfam. Secondo il report stilato dalla confederazione di ong, entro due anni la ricchezza detenuta dall’1% della popolazione mondiale supererà quella del restante 99%. Una disuguaglianza in continua crescita, visto che la quota di ricchezza nelle mani dell’1% della popolazione del pianeta è aumentata in maniera costante dal 2009 (quando una élite deteneva una quota di ricchezza pari al 44%) al 2014, anno in cui la percentuale è arrivata al 48%. Ritmi di crescita che portano Oxfam a credere che nel 2016 si supererà il 50%.
Mentre oltre un miliardo di persone vive con meno di 1,25 dollari al giorno, e 1 su 9 non ha nemmeno abbastanza da mangiare, “nel 2014 gli esponenti di questa élite avevano una media di 2,7 milioni di dollari pro capite – si legge nel rapporto – Del rimanente 52% della ricchezza globale, quasi tutto era posseduto da un altro quinto della popolazione più agiata, mentre il restante 5,5% rimaneva disponibile per l’80% del resto del mondo: vale a dire 3,851 dollari a testa, 700 volte meno della media detenuta dal ricchissimo 1%”.
Ricchi sempre più ricchi e poveri con sempre meno possibilità. La ricchezza delle 80 persone più facoltose del pianeta, prosegue il report, è inoltre raddoppiata in termini nominali dal 2009 al 2014, mentre quella del 50% più povero lo scorso anno era inferiore a quanto posseduto nel 2009. Un accentramento c’è stato anche rispetto al numero dei super ricchi. Perché se “nel 2010 ci volevano 388 miliardari per raggiungere un volume di ricchezza equivalente a quella della metà più povera del pianeta – si legge nel rapporto – nel 2014 questo numero è drasticamente sceso a soli 80 miliardari”.
Il documento di analisi, pubblicato il 19 gennaio, fa luce anche sull’identikit dei miliardari del pianeta. Più di un terzo dei 1.645 super ricchi della classifica Forbes ha ereditato parte o tutta la ricchezza che detiene mentre il 20% ha interessi nei settori finanziario e assicurativo. Ed è proprio quest’ultimo gruppo ad aver visto la propria liquidità crescere dell’11% tra il 2013 e il 2014. Il 2013 è stato un anno proficuo anche per i miliardari con interessi nei settori farmaceutico e sanitario che hanno visto il loro patrimonio netto collettivo crescere del 47% in un solo anno.

http://www.slideshare.net/ilfattoquotidiano/pdf-oxfam




“Vogliamo davvero vivere in un mondo dove l’1% possiede più di tutti noi messi insieme?”....(continua)

rassegna stampa: Il fatto quotidiano
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/19/oxfam-report-nel-2016-l1-popolazione-ricco-restante-99/1352049/

martedì 20 gennaio 2015

Le banche centrali in balia di un mercato fuori controllo


Gli effetti delle politiche monetarie in atto Le previsioni di crescita mondiale per il 2015 indicano negli Stati Uniti l’unica area di vero sviluppo e individuano nell’Europa l’area economica occidentale di maggior debolezza. Dunque le politiche monetarie in atto o previste sulle due sponde dell’Atlantico sembrano coerenti con tale scenario macroeconomico. Una FED (Banca Centrale americana) che azzera il suo sforzo espansivo favorendo il rafforzamento del dollaro. (Meno “stampo” una moneta, più ne aumenta il prezzo). La BCE (Banca Centrale Europea) che finalmente attua il QE (Quantitative Easing) ossia una politica monetaria espansiva non convenzionale in quanto la creazione di liquidità si attua attraverso l’acquisto sul mercato di ogni tipo di titoli, ma in particolare di Titoli di Stato. In questo modo non solo si attenua la pressione (ossia la necessità di finanziamento) sui debiti pubblici europei, ma si contribuisce in modo determinante all’indebolimento dell’euro, favorendo la crescita dell’economia europea facilitando le sue esportazioni. Dunque tutto ok, ossia nessuna complicazione deriva da tale politiche monetarie? Non proprio, poiché bisogna considerare gli effetti globali di tali politiche, e in particolare come esse impattano sulle strategie e sull’operare dei mercati finanziari. L’esempio più recente è rappresentato dall’aumento repentino e vistoso (+ 20%) del franco svizzero (in rapporto all’euro) in previsione del QE europeo. Il balzo del franco ha infatti provocato uno tsunami mondiale con il fallimento di varie società di brokeraggio (dagli USA fino alla Nuova Zelanda) e ha causato perdite per 100/150 milioni di dollari a testa per le più grandi banche...(continua)
di Alberto Berrini su :
fiba.it 

rassegna stampa: 19.01.2015

lunedì 19 gennaio 2015

Sbagliato trasformare le banche di credito popolare in spa

Il segretario della Fiba, Giulio Romani,spiega perchè non è da giustificare il ricorso al decreto legge


Come riportato dalla stampa in questi giorni, sembrerebbe intenzione del Governo, attraverso un decreto legge, che prevede anche altri provvedimenti, di trasformare le banche cooperative in Spa. La motivazione risiederebbe nel fatto che non viene dato credito alle PMI. Si evidenzia in proposito che sarebbe paradossale che stante la finalità dichiarata dei provvedimenti - dare credito alle Piccole e medie imprese - si elimini proprio il comparto delle Banche Cooperative che storicamente ma specialmente negli ultimi anni di crisi - crisi che, come noto, è stata determinata dalle grandi banche - hanno di più aiutato e sono più state vicine alle PMI. A testimonianza di ciò, si espongono di seguito, alcuni dati. Nel corso del 2014 le 70 banche del Credito Popolare e le 381 BCC – che occupano 120.000 dipendenti impegnati nel rapporto quotidiano con la loro clientela di elezione: famiglie e PMI - hanno erogato impieghi alle PMI per quasi 240 miliardi di euro; il flusso dei nuovi finanziamenti, sempre a PMI, è aumentato nel 2014 di circa 35 miliardi di euro. Alle imprese esportatrici sono stati erogati 50 miliardi di euro. Nel corso della crisi, nel periodo che va dal 2008 al 2014, la variazione degli impieghi alle PMI esportatrici è stata pari a + 28%. Lo stretto rapporto fra le Banche Popolari, le BCC e le PMI è testimoniato anche dalla quota di mercato delle stesse nei sistemi economici a prevalenza di PMI pari al 75% contro il 25% del resto del sistema. Alla luce di tali dati, si evince che una riforma ‘radicale’ che elimini le caratteristiche delle Popolari – proprio quelle caratteristiche che hanno loro consentito di essere finanziatori privilegiati delle PMI grazie alla loro conoscenza e vicinanza dei territori – rischierebbe di produrre l’effetto contrario e cioè una stretta creditizia proprio nei confronti di imprese e PMI, avvantaggiando solo gli “speculatori”e con pesantissime ricadute negative, anche da un punto di vista occupazionale. A questo proposito giova sottolineare come, anche solo attraverso "l'effetto annuncio", oggi i mercati finanziari abbiano registrato enormi rialzi che consentono, soprattutto dalle parti di Londra, di brindare a Champagne da parte di coloro che nei giorni scorsi hanno fatto (casualmente?) incetta di azioni...  


continua fiba.it



domenica 18 gennaio 2015

GIÙ LE MANI DALLE BANCHE - Avvenire

GIÙ LE MANI DALLE BANCHE - Avvenire

Pagina A01Fa freddo ma forse nel patrio governo c’è chi ha avuto un colpo di sole che rischia di mettere a repentaglio la democrazia economica (e non solo quella economica) nel nostro Paese. Si attribuisce al premier Matteo Renzi una frase che suona così: «Ci sono tantissime banche e pochissimo credito, soprattutto per le piccole e medie imprese». E un’altra ancora: «Ho avuto il coraggio nel ridurre il numero dei parlamentari, non sarò di meno nel ridurre il numero dei banchieri». Parole che sono state 'tradotte' su alcuni giornali con l’intenzione di abolire il 'voto capitario', ovvero la regola una persona-un voto che vige nelle Banche popolari e nelle Banche di credito cooperativo. Ridurre il numero degli attori e aumentarne la dimensione come scorciatoia per l’efficienza. Non vogliamo crederci. Non vogliamo, cioè, credere che il presidente del Consiglio sia stato indotto a ignorare i princìpi della concorrenza, arrivando a confondere mercato e oligopoli, proprio quegli oligopoli che - come stiamo vedendo - alla fine controllano coloro che dovrebbero fare e dare regole e condizionano gli Stati… Se quelle frasi e la loro interpretazione fossero autentiche, vorrebbe dire che il capo di governo di una grande democrazia, uno dei principali leader europei, ha gettato nel cestino tutta la letteratura economica recente, quella che spiega come i sistemi finanziari siano paragonabili a 'ecosistemi'. La diversità è fondamentale, in ogni sistema, per la resilienza, per la capacità di resistere agli choc. Se restassero solo sequoie giganti, la foresta sarebbe distrutta. Una follia superficiale e giacobina (ma promossa da suggeritori interessati) contro le 'piccole banche' non solo cancellerebbe con un sol tratto di penna la biodiversità economica del nostro Paese (peraltro elemento normale del panorama finanziario in tutte le nazioni del mondo), ma darebbe un serissimo colpo alla democrazia economica e sgombrerebbe la strada a quelle grandi lobby bancarie multinazionali (ma senza visione e intenzione «universali», direbbe il Papa) che le istituzioni internazionali stanno faticosamente cercando di limitare. Una mossa incomprensibile e ingiustificabile. Tanto più alla luce delle vicende degli ultimianni.La maggiore banca dati mondiale disponibile - Bankscope - raccoglie e offre 140.660 'osservazioni' per il periodo che va dal 1998 al 2010. E i dati indicano che le banche cooperative - che seguono la regola una personaun voto che il Governo Renzi vorrebbe abolire - pur mediamente più piccole di quelle non cooperative, hanno un rapporto tra credito e totale degli attivi mediamente superiore di 5 punti percentuali rispetto alle altre banche.

I n  Italia, dove la differenza è più marcata e pari a 16 punti percentuali, le Banche di credito cooperative nel triennio 2010-2013 hanno erogato 6,3 miliardi in più di credito (contro il calo di 52 miliardi del resto del sistema).
Insomma, nella realtà accade esattamente il contrario di quanto sarebbe fiorito sulla bocca e nella testa di Renzi: sono le banche piccole, una-persona- un voto e legate al territorio, che fanno più creditoe non viceversa.Viene da pensare che qualche voce interessata possa aver suggerito all’orecchio del premier che 'grande è bello'. Noi gli ricordiamo invece che la storia finanziaria recente insegna che la crisi finanziaria globale, quella che stiamo ancora pagando, è stata causata dalle banche 'troppo grandi per fallire' e troppo complesse per essere regolate. Gli ricordiamo che sono state le grandi banche multinaziona-li, tecnicamente fallite, che hanno rischiato di trascinarci tutti nel baratro. Gli ricordiamo che sono state salvate dagli Stati con alchimie contabili (passaggio da valori di mercato a valori di libro) e che le loro scommesse sono state pagate negli anni successivi dalla finanza pubblica degli Stati, e dunque dai cittadini. E gli ricordiamo, infine, che in una recente audizione davanti alla Commissione europea è purtroppo emerso con chiarezza come quelle stesse megabanche si stiano facendo beffe della nuova regolamentazione, con requisiti di capitale formalmente ineccepibili che sono in realtà 'abbelliti' da cartolarizzazioni e metodi di rating interno a fronte di rapporti grezzi tra debito e capitale proprio che sono preoccupanti e ormai simili a quelli pre-crisi.
Prima del prossimo Consiglio dei ministri sarebbe utile che ai nostri governanti i rileggere i passi salienti del Rapporto Liikanen, curato da esperti della Ue, dove si spiega molto bene come le grandi banche aumentano i rischi sistemici e di come le banche cooperative e popolari sono invece fondamentali per il sistema e le loro crisi sono molto meno gravi perché proprio la ridotta dimensione consente che la crisi sia assorbita endogenamente dalla stessa rete che creano. Il numero e la dimensione ottimale delle banche popolari o cooperative di un sistema non è, pertanto, qualcosa da stabilire con il tratto di penna di un decreto, ma il frutto ottimale di aggiustamenti di un organismo che ha in sé già strumenti (e li sta usando)per autoemendarsi.Il vero problema, in un mondo dove mettere a disposizione denaro è diventato un’attività a basso rendimento (per via della forte concorrenza) e ad alto rischio, è che banche tese a massimizzare il profitto non hanno alcun interesse a far credito e ne fanno effettivamente sempre meno rispetto all’attività di trading o puramente finanziaria che rende di più e consente di portare più valore agli azionisti. Secondo questa impostazione, piuttosto che prestare risorse a famiglie e imprese, è meglio trasformare lo sportello in un 'emporio' dove si vende di tutto: assicurazioni, polizze, schermi piatti... Solo le banche una-persona-un-voto, quelle con vocazione specifica al credito, si dimostrano capaci di mantenere la loro mission originaria. E la questione è così lancinante che una delle voci più autorevoli del Financial Times, Martin Wolff, è arrivato addirittura a domandarsi se la banca non vada resa nuovamente pubblica per essere sottratta alla logica della massimizzazione del profitto che l’allontana dal credito. Ma questa è un’altra conclusioneesagerata. Basta molto meno. Basta lasciar perdere – se davvero sono coltivate – fantasie di riforma radicale e guardare invece ai progetti di legge di separazione tra banca commerciale (che supporta l’economia reale) e banca d’affari (che supporta la speculazione finanziaria) orientati a ricondurre il sistema bancario alla vocazione originale. Altro che abolizione del sistema capitario.
di Leonardo Becchetti

rassegna stampa: Avvenire 18 gennaio 2015
http://avvenire.ita.newsmemory.com/publink.php?shareid=30f502e22


giovedì 15 gennaio 2015

Crisi e posti di lavoro: l'Italia ne ha bruciati 1,2 milioni, solo la Spagna peggio

L'impatto della crisi sull'occupazione si è fatto sentire nel Sud Europa. In Germania, dal 2008 e alla metà del 2014 le persone al lavoro sono salite di 1,8 milioni. Allarme su giovani che non studiano né lavorano e persone a rischio di esclusione sociale

Crisi e posti di lavoro: l'Italia ne ha bruciati 1,2 milioni, solo la Spagna peggioTra il 2008 e metà 2014, in Italia sono stati persi 1,2 milioni di posti di lavoro: si tratta del secondo paese della Unione europea nel quale sono stati persi più posti di lavoro. E' quanto emerge dal rapporto sull'occupazione e sviluppo della società redatto dalla Commissione Ue. Solo la spagna ha fatto peggio, bruciando 3,4 milioni di posti di lavoro. Dopo l'Italia, la commissione cita la Grecia che ha perso un milione di posti di lavoro su una popolazione complessiva, però, molto più piccola. In Germania i posti di lavoro sono aumentati di 1,8 milioni, nel Regno Unito di novecentomila.

La Commissione nota che "i paesi che offrono posti di lavoro di elevata qualità e un'efficace protezione sociale, oltre ad investire nel capitale umano, si sono dimostrati quelli maggiormente capaci di reagire alla crisi economica". Il rapporto presentato oggi a Bruxelles sottolinea che l'impatto negativo della recessione sull'occupazione e sui redditi "è stato più contenuto nei paesi con mercati del lavoro più aperti e meno segmentati, e dove erano maggiori gli investimenti nella formazione permanente", si legge nel comunicato stampa che accompagna il rapporto. Il documento indica come esempi positivi in particolare i paesi dove "le prestazioni di disoccupazione tendono a coprire un gran numero di disoccupati, sono correlate all'attivazione e reattive al ciclo economico".

Tornando ai numeri, il rapporto ricorda che dal 2008 - sebbene la disoccupazione sia sotto i picchi della crisi - ci sono ancora 9 milioni di persone fuori dall'occupazione. L'Italia è di nuovo citata quando si tratta di parlare di povertà ed esclusione sociale: insieme a Grecia, Irlanda e Spagna il Belpaese è indicato come esempio di grande crescita delle persone in difficoltà da livelli già ragguardevoli. Un problema peculiare che divide l'Europa in Nord e Sud è quello dei Neet, cioè dei giovani che non studiano né lavorano. Il rapporto spiega che sono meno del 10% in Lussemburgo, Olanda, Danimarca, Austria e Germania, mentre superano il 25% in Italia, questa volta con Croazia, Bulgaria, Spagna, Cipro e Grecia.

La Commissione ha messo in anche dal rischio di riduzione del numero di laureati, e dal possibile calo del Pil, derivante da politiche di sussidi per l'occupazione giovanile. Nel capitolo dedicato all'Italia, il rapporto ribadisce le raccomandazioni fatte nel 2014 dalla Commissione, in cui si esortava Roma a prendere misure per aumentare l'occupazione giovanile. Simulando in Italia uno schema di sussidi ai giovani (in età tra i 15 e i 24 anni) sotto forma di riduzioni dei contributi, finanziato da un aumento dell'Iva, la Commissione prevede un effetto positivo sull'occupazione giovanile, ma non manca di sottolineare che tali misure ridurrebbero il numero di laureati e avrebbero un effetto negativo sulla crescita economica.

"Le paghe più elevate renderebbero l'impiego per i giovani più attraente rispetto a un investimento nell'istruzione terziaria," si legge nel rapporto. Questo determinerebbe un aumento dei lavoratori meno istruiti, "con una conseguente riduzione degli investimenti, e quindi del Pil," si legge nel rapporto, basato su una simulazione. Tali effetti negativi potrebbero essere ridotti da un investimento congiunto dell'Italia nei sussidi di disoccupazione per i giovai e nell'istruzione terziaria, conclude la Commissione.



Rassegna stampa: Repubblica 15.1.15 
http://www.repubblica.it/economia/2015/01/15/news/lavoro_disoccupazione_crisi_commissione_ue-104994167/?ref=HREC1-12